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Artisticamente Magazine

Adriano Pantaleo e l’impatto del mestiere d’artista sulla vita delle persone

Adriano Pantaleo e l’impatto del mestiere d’artista sulla vita delle persone

Tempo di lettura: 11 minuti

 

Se si è nati negli anni Ottanta ADRIANO PANTALEO  lo si ricorda nei panni di Spillo nell’amata fiction “Amico mio” con Massimo Dapporto. Magari da studenti si è visto e amato “Io speravo che me la cavo” di Lina Wertmüller con Paolo Villaggio nel ruolo del maestro e Pantaleo faceva parte degli allievi, con tutta la vivacità di quell’età e della cultura partenopea. Già con questi lavori da giovanissimo è rimasto impresso nella mente di tanti, ha saputo coltivare con determinazione, studio e passione la professione d’attore, divenendo un punto di riferimento per molti ragazzi in questi anni grazie al lavoro col NEST – Napoli Est Teatro, di cui è co-fondatore, a San Giovanni a Teduccio.
In questo periodo è al cinema con l’opera prima di Greta Scarano, “La vita da grandi“, e in tournée con “Premiata Pasticceria Bellavista“, che aveva debuttato al Campania Teatro Festival nel 2023. Proprio dallo spettacolo abbiamo avviato il nostro confronto.

Adriano Pantaleo, il suo Carmine e il messaggio di “Premiata Pasticceria Bellavista

 

D: Adriano, a proposito di Carmine, è molto delicato come ruolo, anche perché lavorare con la questione della vista (il personaggio è cieco, nda) per un attore non è semplice…

«Sia personalmente che come compagnia, lavorare a uno dei primi testi di Vincenzo Salemme equivale a rapportarsi con un classico – insieme a “…e fuori nevica” sono nati tra la fine degli Anni ’80 e gli Anni ’90. Sono testi che ormai hanno trent’anni, in cui la nostra generazione è cresciuta per cui significa confrontarsi con dei capisaldi. Quando Vincenzo lo ha messo in scena, con lui c’erano Carlo Buccirosso, Nando Paone, Maurizio Casagrande, Betty Pedrazzi, dei maestri della comicità.
Possiamo dire che con la nostra solita faccia tosta – se così vogliamo chiamarla – e direi anche incoscienza, ci siamo lanciati in questa riscrittura scenica. Le parole sono quelle, però abbiamo provato a metterci del nostro come abbiamo fatto, in precedenza, con altri classici come nel caso de “Il sindaco del rione Sanità” di Eduardo, “Il berretto a sonagli”  di Pirandello o ancora “Otello” di Shakespeare. Per me come attore ha un gran valore avere la possibilità di portare in scena questo pensiero che Vincenzo inserisce in “Premiata Pasticceria Bellavista“, se vogliamo un po’ pirandelliano in cui viene evidenziata la differenza tra il guardare e il vedere… rilanciando l’interrogativo se davvero bastano gli occhi per guardare e risuona ancor più in questo momento storico in cui siamo invasi dalle immagini che provengono dai dispositivi (cellulari, televisori, computer) in cui sembra che non scegliamo più cosa guardare, ma vediamo superficialmente tutto quello che ci viene proposto».

“Premiata Pasticceria Bellavista” al debutto al Campania Teatro Festival – Ph Salvatore Pastore

D: Che tipo di lavoro hai fatto?

«Già da quando ho iniziato le prove fino a oggi, vado in scena con gli occhi completamente chiusi. Lo so io perché portando gli occhiali scuri non si vede. Questo approccio mi ha consentito incredibilmente di sviluppare una grandissima capacità di ascolto e di memoria uditiva. Mi sono accorto che se succede che apra gli occhi mi dimentico le battute perché probabilmente mi distraggo nel vedere delle cose che non avevo mai visto e quasi perdo il personaggio. Appena chiudo gli occhi mi ricordo benissimo le battute. Mi sono reso anche conto che ascolto maggiormente il pubblico, gli umori. Certo è un viaggio che faccio quasi esclusivamente da solo perché chi vede da fuori, se avessi gli occhi aperti non se ne accorgerebbe, però sono certo che vedrebbe qualcosa di diverso in me».

D: È una tua idea o è venuta parlando anche con il regista Giuseppe Miale di Mauro?

«A me. Partendo dal presupposto che come attore do sempre tanta importanza alla ricerca del corpo. Secondo me l’organicità di quello che si interpreta con quello che si vede e con quello che il corpo può dare è fondamentale, quindi è un aspetto su cui ho posto e pongo moltissima attenzione nella ricerca per un ruolo. Un personaggio non potrà mai essere completo fino a quando non so che scarpe indosserà – e questo vale sia al cinema sia in teatro – perché in base alle scarpe che porta cambierà il suo modo di camminare, la postura; lo stesso vale per un cappotto, un cappello. Nel caso di “Premiata Pasticceria Bellavista” provare a imitare una persona che non vede mi sembrava troppo superficiale per cui, già dalle prime prove, ho deciso di iniziare a chiudere gli occhi, muovermi in quello spazio senza vedere, mettendo le mani avanti perché potevo andare a sbattere e soprattutto questo mi ha dato una postura diversa. Quando non vedi l’orecchio tende verso chi parla. Tutto questo è stato recepito dal regista che ha avvalorato la strada che stavo percorrendo e ci siamo detti: “vediamo dove ci porta”».

D: In questa commedia emerge, tra le caratteristiche dell’essere umano, anche la volontà di vendicarsi.

«È molto interessante che l’unico che riesce a vedere è proprio quello che non ha gli occhi ed è colui che li apre agli altri, usando un gioco di parole… Li apre ai figli accecati dal desiderio di questa eredità della madre che, in realtà, li tiene in ostaggio, una madre che incombe dall’alto con il megafono come se fosse una voce di un passato che li tiene bloccati e non gli permette di andare verso il futuro. Non è un caso che Vincenzo, da attore e autore molto intelligente qual è, svela nel secondo atto come tutte le donne siano incinta. Nel monologo Carmine dice: “Sono diventato un barbone per potermi godere la libertà”».

D: È fuori dagli schemi

«Sì con la possibilità di osservare le cose veramente, al di là delle costruzioni sociali. Tanto che dice a Ermanno: “Come posso godermi la vita se non posso guardare”. Avendo perso gli occhi ha compreso il valore tant’è vero che Carmine rivolgendosi a chi è nella pasticceria (ci rivolgiamo agli spettatori): “Signori, voi che avete gli occhi guardate veramente”. Parliamo di una commedia scoppiettante, ma era nostra intenzione porre l’accento su questa riflessione.
Quando Carmine dice: “Tu mi hai levato la possibilità di guardare il futuro, di guardare la donna di cui mi innamorerò, il bambino che potrebbe nascermi. Hai levato gli occhi a un uomo che la vita la viveva soltanto guardando e non è giusto. Guardate signori miei, voi che potete, guardate” …è un bel messaggio a mio parere. In questo momento storico mi sento portatore di un messaggio, che è quello della commedia di Vincenzo, ma in cui io credo fermamente».

D: Questa per voi del NEST è la seconda grande produzione dopo il covid

«Tenendo conto di quanto eravamo stati ‘richiusi’ sentivamo sia noi ma soprattutto che il pubblico avesse il diritto di venire a teatro per godersi due ore di risate, ma ci tenevamo che dietro ci fosse qualcosa da poter veicolare e lasciare agli spettatori».

Adriano Pantaleo e l’impegno come co-fondatore e direttore artistico del NEST

 

D: Pensando alla tua formazione, hai seguito come ulteriore approfondimento il corso di perfezionamento per attori professionisti a cura del Centro Teatrale Santacristina di Luca Ronconi. Tra i docenti hai incontrato Fausto Russo Alesi e mi ha colpita come lui, parlando del momento storico-culturale che si stava vivendo e di questo mestiere, abbia detto: “L’arte deve essere libera, deve far sorgere il dubbio”. Cosa ne pensi sia come responsabilità che ti sei assunto insieme agli altri come NEST, ma anche individualmente?

«Come NEST abbiamo deciso di intraprendere il nostro percorso a San Giovanni a Teduccio e di costruire un teatro e questo è importante. Noi non abbiamo preso la direzione artistica di un teatro che esisteva, ma lo abbiamo creato. Questo credo derivi dall’appartenenza a zone periferiche della città sia mia che di Francesco (Di Leva), di Giuseppe Gaudino e di Giuseppe Miale di Mauro è presente nel nostro dna, ci ha accomunato. Credevamo e crediamo fortemente al valore dell’arte, al valore della bellezza e che educare alla bellezza possa essere uno strumento per creare un’umanità migliore. Ci piace definire il NEST come un aggregatore di persone per bene, di essere umani accomunati da un senso verso la bellezza diverso da quello che purtroppo spesso si è costretti a vivere e a subire se si nasce in determinate zone periferiche della città. Il NEST nasce per questo. Facciamo formazione gratuita per i ragazzi non solo come attori, ma anche come maestranze teatrali perché crediamo che un domani, anche se non saranno tutti attori o scenografi o altra professione connessa, saranno comunque degli esseri umani migliori. L’arte ha il compito di porre interrogativi e puntare una luce su dei temi. Reputo Fausto un grandissimo artista e intellettuale e non posso che sposare le sue parole: l’arte deve essere libera e apolitica, nel senso che non dovrebbe essere vincolata dalla politica… Poi che fare arte, cinema, teatro possa diventare un atto politico è inevitabile.

Adriano Pantaleo
“Non Plus Ultra”, un progetto di Adriano Pantaleo e Gianni Spezzano

Come artista, a un certo punto della mia carriera, mi sono chiesto come il mio mestiere potesse tornare ad avere un impatto sulla vita delle persone – questo in un momento storico in cui il teatro era fortemente in crisi e il ruolo dell’attore era davvero messo in discussione. Ho deciso che potevo provare a fare concretamente qualcosa aprendo un teatro in una zona complicata che poteva essere una perla lucente in un’oceano di disastro, di melma. Adesso San Giovanni a Teduccio è venuto fuori così come altre periferie, però 15-20 anni fa esisteva un muro invisibile a via Marina che non veniva oltrepassato: né gli abitanti del centro storico venivano di qua e viceversa quelli di San Giovanni. Pian piano abbiamo provato a buttar giù: prima si veniva a San Giovanni solo perché c’era il NEST e adesso è nata l’università, c’è un bellissimo lungomare. Siamo stati tra i primi a credere che la cultura potesse aiutare una parte della cittadinanza».

D: Siete stati contagiosi a livello positivo

«Abbiamo avuto e abbiamo ancora un ruolo in questo sviluppo. Nel nostro teatro abbiamo portato amici nazionali e internazionali, tra cui Eugenio Barba, Toni Servillo, Mario Martone. Sono state ideate tante altre iniziative: una navetta che accompagna verso il NEST e riporta sia in stazione che a piazza Borsa, abbiamo inventato l’abbonamento sospeso, il pizzo culturale in cui andavamo a chiedere ai commercianti della zona di pagare le pizze alle compagnie che venivano da fuori, domandavamo all’albergo di offrire una notte a uno degli artisti… tutto ciò parafrasando quella che era un’usanza tremenda di Napoli – e non solo – di chiedere il pizzo ai commercianti. Resta un luogo indipendente, che percepisce, secondo me, troppi pochi finanziamenti pubblici sia da parte del ministero che della regione, ma ci armiamo ogni anno di tanta creatività per trovare le risorse necessarie per portare avanti quella che è la nostra idea di programmazione artistica, culturale e anche sociale».

L’altra faccia di Napoli

 

Adriano Pantaleo Mina Settembre 3
“Mina Settembre 3” – Ph Anna Camerlingo

D: Concedendomi questo ‘salto’, a proposito di sociale nella terza stagione di “Mina Settembre” interpretavi un assistente sociale. Il bello di quella serie sta nel mostrare una Napoli che si vuole rialzare.

«Credo che il grande exploit di Napoli nell’ultimo periodo non sia altro che un raccolto di tantissimi anni di semina in cui dal basso tanti artisti, in qualche modo anche la politica che si è susseguita ci ha messo del suo, penso anche alla Film Commission, al Teatro Stabile di Napoli che è diventato nazionale, alle amministrazioni sia regionali che napoletane che hanno fatto una serie di interventi per migliorare (le metropolitane sono le più belle d’Europa). Questo lavorare sodo, a testa bassa, per provare a riprendersi quello che secondo me è il ruolo che una capitale culturale come Napoli dovrebbe avere in Italia e nel mondo sta venendo fuori e “Mina Settembre” è uno di questi frutti che mostra un’altra faccia di Napoli.

dallo spettacolo “Gomorra”, regia di Mario Gelardi

Sono stato tra gli artefici del primo progetto tratto dal libro di Saviano, lo spettacolo nazionale “Gomorra” –  il libro non era stato ancora pubblicato, abbiamo lavorato sulle bozze, poi è scoppiato il caso editoriale. Io avevo 24 anni, era il 2007, e ci siamo ritrovati a fare una tournée internazionale di oltre 480 repliche, tra Italia, Germania, Francia, Svizzera per cui lungi da me criticare Gomorra perché esiste quella realtà, così come esiste un’altro lato di Napoli e oggi lo stiamo dimostrando. Partenope è sempre stata un melting pot di culture, lingue, dialetti, di gente che si incontra e si scontra, è una ricchezza unica per chi ci nasce, ma anche per chi ci arriva».

Pantaleo e il film “La vita da grandi”

 

D: Sei al cinema con “La vita da grandi“. In un dialogo tra il tuo personaggio, Ugo, e la compagna Irene (Matilda De Angelis) quest’ultima dice: «Quindi nella vita o sei consapevole o sei felice?» Tu Adriano, sei riuscito a fare delle ipotesi di risposta?

«A quella domanda bisogna fare attenzione. Ugo è un personaggio particolare, rappresenta lo specchio del pubblico, inizialmente riflette l’incomprensione verso certe situazioni per poi avere un percorso di crescita fondamentale sia per lui che per la stessa Irene. Mostra questo cambiamento di prospettiva, rendendosi conto dell’importanza di sostenere i sogni propri e di chi si ama, a prescindere dai vincoli che una società ci impone. Attraverso questo ruolo ho capito quanto sia fondamentale ascoltare e comprendere, senza pregiudizi. L’atteggiamento che abbiamo rispetto alle persone neurodivergenti è sintomatico della difficoltà di non sapere come relazionarsi con queste persone, di conseguenza spesso archiviamo velocemente come persone ‘diverse’ perché non abbiamo gli strumenti su come relazionarci. Queste persone ci impongono di dare grande importanza all’ascolto e al loro rispetto. Il set è stata una grande opportunità di crescita per tutti sia per noi persone non neurodivergenti che di tutti i ragazzi perché lavorare con attori neurodivergenti è stato anche per noi un arricchimento perché bisognava avere un ascolto umano ancor prima che professionale differente, un apprendimento reciproco dove tutti quanti abbiamo imparato a relazionarci con una sensibilità e un’apertura diverse. È stata un’esperienza che ci ha unito molto, ci ha resi tutti un po’ più consapevoli: Yuri (Tucci, interpreta Omar, nda), ad esempio, l’ho conosciuto a una primissima lettura e rivedendolo adesso alle presentazioni del film si nota come abbia preso più padronanza di sé. La stessa Matilda, che lavora anche con star internazionali, si è messa a servizio della storia e dello stesso Yuri».

D: E per te?

«Scoprire come con il giusto approccio si possano costruire delle relazioni quasi inaspettate, significative, superando le barriere della superficialità è stato proprio un arricchimento. Questo è uno dei temi del film; un altro molto bello viene suggerito proprio dal titolo e cioè che nella vita, a un certo punto, bisogna diventare grandi e per farlo bisogna accettare l’idea di poter fallire».

Adriano Pantaleo La vita da grandi
“La vita da grandi” – Ph Francesca Fago

D: Il fallimento come un input per riprovare

«Io sono padre di una ragazzina di tredici anni e di un bambino di sette e avverto in loro un’estrema preoccupazione nei confronti del fallimento. Forse perché abbiamo un’idea di società fin troppo perfetta, in cui tutti ci mostriamo come vincenti e non è così perché tutti abbiamo le nostre debolezze e insicurezze e per fortuna che ci sono. Oggi l’idea del fallimento è qualcosa che spesso ci blocca nel non affrontare e nel fare delle scelte. Tornando al film: a Irene l’idea probabilmente di fallire come comica ha fatto sì che ha optato per una vita che non era quella che voleva».

D: È scomparso da pochissimo il maestro Roberto De Simone, vorresti condividere un ricordo?

«Sono cresciuto con “La gatta cenerentola“, è uno dei capisaldi di un attore napoletano e non solo. Noi cresciamo a pane ed Eduardo. Da ragazzino andai a vedere per la prima volta la messa in scena di questo suo cult e fu una rivelazione. Lo ricorderò e lo porterò per sempre nel mio cuore, come Eduardo, resterà immortale come patrimonio unico e inestimabile». 

I prossimi progetti di Adriano Pantaleo

 

D: Adriano, dove potremo vederti prossimamente?

«L’8 maggio esce nelle sale “Nottefonda” diretto da Giuseppe Miale di Mauro, con protagonisti Francesco Di Leva, il figlio Mario Di Leva e me, ci sono anche Giuseppe Gaudino, Chiara Celotto, Valeria Palombo, Dora Romano. Un bellissimo cast, con la splendida colonna sonora curata da Franco Ricciardi. È un progetto a cui tengo tantissimo, è a targa NEST e segna un po’ il nostro debutto cinematografico come compagnia, come avevano fatto dei grandi predecessori, penso a Teatri Uniti – da lì sono usciti Martone, Neiwiller, Sorrentino, Servillo e tanti altri.

Nella nuova stagione Rai uscirà una serie “Roberta Valente, notaio in Sorrento, per la regia di Vincenzo Pirozzi, ambientata in uno studio notarile e io interpreto uno dei notai, con Maria Vera Ratti, Alessio Lapice, Erasmo Gentili. Dal punto di vista teatrale concludiamo con la tournée dal 23 al 27 aprile alla Sala Umberto di Roma e speriamo di riuscire a inserire delle date anche nella prossima stagione.
Sul piano di progetti ‘più miei’ sto completando due documentari che portano la mia firma come regia e scrittura. Uno si intitola “Il coach dei due mondi” e affronta la storia straordinaria di questo coach di basket, Antonio Petillo, il primo a portare in serie A2 lo Scafati Basket (squadra della provincia di Salerno, nda), ma in realtà è un grande maestro di strada, che per anni ha sfornato talenti e levato ragazzi dalla strada nella periferia nord di Napoli (Miano, Secondigliano, Scampia) e dal 2013 si reca ogni anno in Africa, caricandosi un borsone con canestri, palloni, completini e va anche lì a fare lo stesso lavoro, cioè recuperare tramite il basket i ragazzi dalla strada. L’altro documentario a cui sto lavorando è “Tiger, l’ultimo chilometro” sulla storia di Angela Carini, la pugilessa che si è ritirata alle Olimpiadi di Parigi nell’incontro con Imane Khelif. È una pugilessa straordinaria, la seguivo prima ancora che accadesse questo, ha una storia incredibile, non soltanto sportiva, ma anche umana».

 

Ph cover: Gianluca Saragò

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