Tocca ad ALESSIO BONI incarnare l’hidalgo e lo fa conscio delle parole chiave presenti in Cervantes, a cui si uniscono gli strumenti acquisiti dal maestro Orazio Costa Giovangigli, dagli altri incontri avuti durante il percorso professionale e di vita fino ad ora, compresi quelli con se stesso e osservando gli altri.
D: Mi piacerebbe cominciare con tre parole che ritengo chiave in “Don Chisciotte” e dovrebbero esserlo nel teatro e nella nostra vita: «errare», «maraviglia» e «melanconia» (pensando anche nella loro radice antica).
«Errare è umano, altrimenti si sarebbe un robot.
Credo che nel romanzo di Cervantes ci siano altre tre parole fondamentali, che se mancano nel testo e soprattutto in teatro non si può rappresentare “Don Chisciotte”. Mi riferisco a ironia, visionarietà e poesia, un po’ ci avviciniamo alle tre citate da te in quanto l’ironia e la visionarità ti portano ad errare, che inevitabilmente è anche melanconia poiché ricorda dei momenti della vita maravigliosi che passano. Possiamo legare tutto. Partendo dall’errare Don Chisciotte si butta in continuazione e, paradossalmente, è un cavaliere che si mette nella Mancia, si investe di un’armatura, cerca uno scudiero e lo trova in un contadino, Sancho Panza.
Va nella sua stalla dove trova Ronzinante, fermo lì da anni per rimetterlo in moto; devolve tutto a Dulcinea, una ragazzina vista da giovane. Si reca nella Mancia – metafora per entrare nel mondo – non per arricchirsi né per diventare più potente, come purtroppo ultimamente dettano i despoti di questo pianeta, ma per lasciare ai posteri un mondo migliore. Combatte contro i truffaldini, i furbetti, l’insolenza dei potenti, i corrotti. L’hidalgo non ha neanche un figlio, quindi non lo fa per lui, ma per chi verrà, col desiderio di lasciare un posto migliore di quello che era quello dominato dalla ferocia del 1600. Questo suo tentare di entrare e utopicamente sistemare il mondo è, forse, folle, ma è la dimostrazione di un coraggio meraviglioso perché non lo fa per se stesso, ma per gli altri. Il che lo porta a errare.
Siamo abituati a vedere cavalieri con gli speroni dorati e i mantelli azzurri, con le donne che cadono ai piedi; qui avviene esattamente il contrario: le prende, cade a terra, si rialza, ricade, lo pestano, non gliene riesce una, eppure, in barba a tutto questo, è l’eroe che viene riconosciuto di più in tutta la storia degli eroi e dei cavalieri romantici, anche più di Lancillotto. Don Chisciotte ha trasceso tutti perché va oltre la morte. Pensiamo al grande Amleto: ma è giusto darsi da fare, sottostare all’ingiustizia, all’insolenza dei violenti e a questo zio, fratello di suo padre, che ha sposato sua madre per poi morire? “Essere o non essere questo è il problema, se sia più nobile nell’animo soffrire i sassi e i dardi di un’oltraggiosa fortuna o prendere armi?”…perché riconduce tutto alla morte.
Don Chisciotte va al di là, infatti, quando don Alonso Chisciano, che è il protagonista della storia scritta da Cervantes, il quale si investe di un nome immaginario, va nelle sue missioni; torna e abiura questo personaggio (altrimenti non gliel’avrebbero mai fatto pubblicare a quei tempi – abbiamo compiuto degli studi anche su questo aspetto). Doveva rinsavire, rinnegando tutto ciò che è stato e ha vissuto – afferma: “Peccato che me ne sia accorto solo ora”. Quando muore quella maraviglia eterna che è dentro il bambino, l’immaginifico, muore tutto poiché non ha più senso vivere. Se si chiede a qualcuno chi sia don Alonso Chisciano lo sanno in pochissimo, forse qualcuno in più conosce Miguel de Cervantes, Don Chisciotte lo sanno tutti chi sia. Ha vinto controcorrente: è come un salmone che va a depositare le uova controcorrente, per questa condizione compie uno sforzo immane per andare in cima a deporre le uova e infine muore per dare la vita. Don Chisciotte è una metafora della bella eternità, quella gioiosa, fanciullesca, onesta e vera. Avrei voluto avere un Don Chisciotte come padre, come nonno; siamo tutti obnubilati dentro il mondo occidentale, dove bisogna pensare alle scadenze, a far quadrare i conti per cui è tutto un calcolo. Lui non lo fa, trascende e spiazza.
Mi interessa comunicare come mai cinque anni fa abbiamo pensato di mettere in scena questa storia, non ci è venuto in mente durante il lockdown – quest’ultimo ha conferito una carica ancora più attinente al periodo storico che stiamo vivendo. Se ogni tanto non ci si rinsecchisce il cervello e si vedono i giganti, i mulini a vento, la propria vita sarà ridotta a diritti e doveri, senza sogni ed è molto triste. Questo insegna Don Chisciotte… e per tenerci ai propri sogni ci vuole coraggio più di quanto si pensi perché siamo tutti li abbiamo da piccoli, poi, quando si entra nell’età adulta e vieni indirizzato magari dal genitore che ha un proprio studio notarile e, se non si ha una propria fede dentro, fai ciò che ti dicono gli altri. Ci si ritrova magari a quarantacinque anni con un lavoro che non piace, ma fa guadagnare bene tanto da pensare di essere arrivato/a e si pensa di star bene, ma è ‘finto’ perché la passione la si mette magari quando si gioca a tennis con degli amici. Bisogna sviscerarlo molto come romanzo (e di conseguenza come scrittura scenica) perché arrivi questo messaggio».
D: A proposito di questo e del vostro lavoro prima a quattro dal punto di vista drammaturgico e poi a tre sul piano registico, se dovesse dire quanto lo sguardo di Aldorasi e Prayer l’hanno aiutata rispetto all’interpretazione di Don Chisciotte e in che cosa in particolare?
«Mi supportano in continuazione perché questa è la nostra idea di creare un Quadrivio e poi una regia a tre (e continuerà ad esserlo): prendere grandi romanzi e sviscerarli in palcoscenico. Anche se io propongo le mie idee, la visione dell’altro è fondamentale perché mi fido ciecamente di Marcello e Roberto, abbiamo la stessa visione di teatro, quando mi dicono che non funziona una determinata cosa, cerco la strada diversa: tu puoi dare tutta l’energia che vuoi, magari ti senti giusto e onesto in quella battuta o in quel dialogo che stai facendo, però non arriva come dovrebbe. Avendo due persone che mi dicono, a latere, lì va bene, qui no, mi indirizzo automaticamente su un sentiero che è quello che intendiamo far arrivare tutti quanti. Le avventure e le missioni che abbiamo scelto di rappresentare, sono passate quando tutti e tre eravamo convinti e d’accordo, se c’era anche solo un nì da parte di Roberto o Marcello o mia, si ribaltava e metteva in discussione. È questa la grande forza del trio, se siamo coesi e nessuno si sente superiore agli altri – non è semplice, di solito sia attori che registi sono molto egocentrici, non è semplice dare un consiglio. Alla genesi di tutto questo, quando siamo andati nell’ufficio di Marco Balsamo e gli abbiamo proposto questo progetto e lui ci ha dimostrato interesse, aggiungendo che bisognasse pensare a una versione innovativa, 2.0 e così ci ha nominato Serra Yilmaz per vestire i panni di Sancho Panza. Quando l’ha detto, ci siamo alzati tutti e quattro: io, Marcello, Roberto e Francesco, me lo ricorderò sempre. Il giorno dopo ho chiamato Serra, siamo andati a pranzo per parlarne, l’indomani mi ha detto di sì. Solo quando si è tutti coesi si va; si hanno sempre dei dubbi quando operi delle tue decisioni, può accadere anche che tutta l’energia che si mette dentro è troppo per cui dissonante, in quel passo lì devi fare di meno.
Ma come lo si scopre? O dopo un anno di tournée – e sarebbe meglio che avvenisse prima – o con due con cui si coadiuva. Infine si equilibra sempre tutto con il pubblico, che, in questo caso, diventa il quarto regista perché fornisce gli spunti dove spingere meglio, ti fa capire dove creare le pause. le sospensioni, dove arriva di più la poesia e dove puoi sprofondare maggiormente. Lo si comprende, tendenzialmente, dopo un mese tot di repliche. Per noi essere in tre alla regia è un valore aggiunto, certo bisogna essere molto umili, disponibili ed essere a servizio del progetto».
D: Si può affermare che c’è una vostra poetica?
«Adesso sento di poter dire che c’è una nostra visione del teatro. Quello che dice Marcello a Biagio Iacovelli (Ronzinante) può essere anche diverso da ciò che chiedo io a Biagio, ma non è mai contraddittorio, sono punti di vista differenti che lo stimolano ancor più nella creazione sia di Ronzinante che del personaggio che interpreta nella prima scena. È stato lui a dirmi che ognuno di noi tre forniva delle indicazioni diverse che sono andate a completarsi».
D: A lei su cosa viene più naturale dare delle indicazioni registiche?
«Punto molto sull’arrivare con una motivazione altissima sul perché si dica quella battuta o si faccia quel gesto. L’energia che si trasmette al pubblico deve essere talmente pura da farlo meravigliare ie di conseguenza è vera. C’è il rischio dopo 150 repliche che diventi un mantra, invece mi preme che ci si dimentichi completamente del numero di repliche e, a seconda del pubblico che c’è in sala, fare una sorta di terapia di gruppo per poterci meravigliare noi e di conseguenza lo spettatore. Quello su cui punto di più sono: energia, onestà e verità; non mi interessa che l’attore la faccia bene o male, è stato già scelto prima per il lavoro, so che non è stonato. Non è un compito da svolgere, devi far arrivare un’esigenza vera: è così che alla platea di turno si drizzano le antenne e coglie la veridicità che gli fa riconoscere una verità del 1600. Stanislavskij si metteva alla quarantesima fila quando erano in prova e non diceva mai: bene/male, ma ci credo/non ci credo e se non ci credeva andava avanti fino alle 4 del mattino».
D: Il pubblico se ne accorge…
«Assolutamente, io ne ho grande rispetto. Tu devi prefiggerti che lo spettatore ha diritto di non sapere, ma ha più antenne di quanto si pensa. Può esserci un pubblico incredibile in sala, con una poetica più alta della mia o della nostra e perciò devi essere solo sincero, vero, appassionato. Il teatro non finge, puoi darla a bere con il cinema se hai un bravo regista. Il teatro è a petto nudo davanti al singolo spettatore. Dammi la verità anche stonata, ma la preferisco a una falsità intonata».
D: In questo momento storico-culturale in cui ci ritroviamo, vi sentite di dire qualcosa all’inizio o alla fine dello spettacolo?
«Ci siamo confrontati su questo, abbiamo detto solo una riflessione a conclusione della prima milanese perché è stata un miracolo che si sia compiuta; ma se ne parla troppo. Adesso è in atto la guerra in Ucraina, è un’ignominia e va da sé che non c’è bisogno di dire nulla, ma questa battaglia e la voglia di riscatto è già un messaggio enorme. Basta “Don Chisciotte” nel far capire quanto è stupida la guerra che sacrifica vite e bene per un fine assolutamente inutile e per la follia di un essere umano. È sempre un essere umano che può cambiare la Storia, da Carlo Magno ad Alessandro, da Napoleone a Hitler. Trovo assurdo che non si comprenda che chi ci va di mezzo siano i civili, compresi i bambini; quando si potrebbero fare dei patti diplomatici e non c’è mai un vincitore vero e proprio perché anche questi perde migliaia di persone».
D: Mi è sorto spontaneo domandarglielo perché ho proprio ascoltato di recente delle persone (che fanno un altro lavoro) fuori da un teatro che hanno detto: tanto ai teatranti non interessa che c’è la guerra. Quando l’ho sentito mi ha fatto molto arrabbiare…
«In questo periodo storico in cui siamo contornati di barbarie, la cultura deve essere un modo di essere e di portare avanti la vivacità e l’animo dell’essere umano perché è da lì che parte il bello. Se ci si vuole rialzare dato che siamo in ginocchio (per quanto bisogna pensare al PIL, all’economia, ecc..), se non si riequilibra l’essere umano non si va da nessuna parte e non è una questione di ricchi e poveri, ma di dimensione interna.
Quando si ritrova come uomo fa le cose belle e si riparte anche economicamente; ma se lo si obbliga a ripartire e non si è ancora ritrovato dopo tutto quello che è successo può compiere solo dei disastri. La cultura serve a questo: a riconoscersi! È nel confronto che l’essere umano si magnifica, si arricchisce, migliora.
Il teatro rispecchia proprio i sentimenti umani, parla del nostro vivere, in “Don Chisciotte” si ripete tutto, dalla peste ai potenti».
D: Ci tenevo che arrivasse che non si tratta del cinico ‘The Show Must Go On’, ma per fortuna che esiste il teatro…
«Assolutamente, ripartiamo, facciamo uno sforzo per essere in scena, si fa tutto per ritornare a essere insieme e davvero varcare quel velo che crea una coltre davanti a te e poter rivedere nitidamente insieme che cosa ci aspetta, dove stiamo andando. Ci aiutiamo; invece di andare in analisi, si va in teatro e tu sei seduto in una poltrona senza avere l’occhio di bue addosso e serenamente puoi verificare ciò che si sta dicendo in scena. Questo dovrebbe essere il teatro: riconoscere tuo padre o quell’amico, riconoscere te stesso. È energia e sudore in prima linea, non è registrata, è lì con la propria solitudine, con la sua umanità, con gli sbagli e le cadute, può succedere di tutto e ogni sera è diverso proprio per questo, come la vita».
D: Citando dal vostro “Don Chisciotte”: «La più bestiale di tutte le malattie è disprezzare il nostro essere». Rilanciandola a lei, come la vive?
«L’abbiamo scelta con Roberto, è molto forte. Non è di Cervantes, ma di un filosofo, però ci sembrava pertinente in quel momento. Disprezzare il nostro essere è proprio il sunto di tutta la pièce. Mi spiego: si sente qualcosa al proprio interno, ma non si accetta ciò che si è e si va dall’altra parte, non lo si considera perché, precedentemente, hanno già creato il sentiero da percorrere. Così si torna al nostro Occidente: vorresti fare l’escursionista? Non è redditizio in questo momento, meglio optare per Economia e Commercio. Tutto perché a chi ha precostituito la strada non gliene frega nulla di ciò che si prova, di ciò che si è. Pochi si ribellano e seguono la propria vocina interiore».
D: Perché ha un prezzo…
«Enorme ed è il coraggio. È un termine stra-abusato, ma quando lo si associa davvero a qualcuno, è bellissimo. Ha un’accezione positiva, attiva… nella pièce a un tratto si ascolta: “Tra tutte le virtù la più importante è il coraggio, in particolar modo quello di cui non si parla mai: essere fedeli ai propri sogni, soprattutto quelli di giovinezza perché ce li dimentichiamo”. Abbiamo ideato “Don Chisciotte”, che ci ha fatto tremare i polsi, perché volevamo dar vita a una fiabona per gli adulti, affinché anche un signore di settant’anni potesse andare a sfruculiare quella corda dell’ironia, dell’immaginifico, del sogno, che abbiamo tutti giù in fondo, ma che ormai si è atrofizzata per tutto quello che facciamo».
D: «Per quanto concerne il coro, l’aver iniziato tanti anni fa, con Marcello Prayer, i concertati a due voci, quanto vi ha portato a toccare l’unisono?
«L’unisono si sfiora, è come la perfezione ed è giusto che sia così perché siamo umani. Ho avuto l’opportunità di lavorare con dei coristi d’opera, i quali avevano riconosciuto in me una capacità canora e mi avevano chiesto come mai non pensassi qualcosa in tal senso (di ibrido magari). Io, da solo, non ce la farei mai. Se faccio un passo avanti rispetto al coro, mi sento nudo, mi blocco; il coro mi dà l’energia e mi fa sentire protetto per cui mi lascio andare.
Poi se hai anche la forza di fare quel monologo compiuto prima insieme ai coristi, sei pregno dell’energia dell’altro. Quando abbiamo frequentato i tre anni in Accademia con Orazio Costa, abbiamo fatto degli esperimenti: ad esempio Luigi Lo Cascio nell’Essere o non essere, poi lo abbiamo fatto in coro e, in seguito, lo ha rifatto da solo ed è risultato molto più potente della prima volta perché era carico degli altri diciotto che gli eravamo stati e gli eravamo accanto. C’è un detto: “L’unione fa la forza”, è medievale… non vale solo per combattere, ma anche per avere la sincerità di aprirsi perché, da solo, magari non ce l’hai. Soprattutto all’inizio il coro aiuta tantissimo; poi bisogna trovare la propria centralità».
D: Come mai è scattata questa sintonia così forte tra di voi?
«Adesso è facile dire ‘concertato a due’ visto che lo portiamo avanti da dodici anni, ma è qualcosa che ci eravamo detti di provare e studiare sin dai tempi del nostro maestro. Sentivamo la necessità di mettere in pratica questo ‘jazzare’ tra noi con i versi della Merini o di Dante.
Abbiamo iniziato con Pavese: uno leggeva una poesia e l’altro quella seguente, poi abbiamo fatto due pezzi concertati e il pubblico ci ha restituito quanto fossero belli i momenti insieme, stimolandoci ad andare verso quella strada – anche questo è sintomatico di quanto siano importanti gli spettatori. Non potrò mai non avere stima del pubblico, io lavoro per lui. Così siamo andati con più coraggio e forza e siamo arrivati a proporre il contrario: quasi tutto concertato e solamente quattro/cinque poesie le scambiamo, anche per cambiare un po’ il ritmo. È nato così, sperimentando naturalmente e lo abbiamo portato anche nel nostro teatro.
Da lì è cominciato tutto, anche il Quadrivio. Tra amici ci si sostiene e andai a vedere Marcello, che era in scena con un testo di Gesualdo da Venosa per la regia di Roberto Aldorasi – io di solito non amo il monologo, ho bisogno di un’altra energia che entri in scena, ma è un mio gusto. A cena Francesco Niccolini mi disse di avere un monologo per me, io gli risposi esprimendo la mia posizione in merito ai monologhi e lui mi controbattè che era molto bello perché tratto da “I Duellanti” di Conrad. Quando ho sentito duellanti ho associato subito al duo e poi ricordavo benissimo di Feraud e D’Hubert, uno del Nord e uno del Sud e subito dissi: “Eccoci!”, pensando a me e a Marcello. Ci serviva nella storia un trade union e abbiamo cercato un attore che sapesse mutare a seconda del personaggio e così ho chiamato Francesco Meoni».
D: Roberto Aldorasi ha parlato di follia della volontà…
«Ritengo che sia anche lucida e che l’idea di lucida follia sia nata proprio col personaggio di Don Chisciotte».
D: Questa follia consapevole..
«…O anche inconsapevole, quel pizzico di follia sano che ti fa avere il coraggio di compiere le azioni ed è incoscienza a volte. Lui non sa sempre dove andrà a parare. L’incoscienza ce l’ha il fanciullo, l’adulto la perde; l’uomo è sempre meno incosciente, non fa un passo senza sapere di poterlo fare. Van Gogh, Caravaggio, Steve Jobs venivano presi per pazzi… anche Eglantyne Jebb è stata considerata pazza, una crocerossina della Prima Guerra Mondiale, che insieme a sua sorella andava ad aiutare i bambini. Nel 1919 ha creato Save the Children, salvando migliaia di bambini, e c’è ancora adesso».
D: Voi citate “Amleto” e, a proposito di questo, volevo riportarle un discorso fatto con Marcello Prayer mentre parlavamo delle prove che stavate facendo con Orazio Costa proprio su questo testo. Gli ho chiesto se non aveste mai pensato di farlo e lui mi ha risposto: «Sarebbe simpatico che magari nascesse una coalizione di saudade dove gli allievi di questa ultima classe tipo Alessio, Lo Cascio, Fabrizio Gifuni, Pierfrancesco Favino, Sandra Toffolatti,… si unissero per omaggiare un fatto storico abbastanza importante che non ha avuto modo di esistere se non in forma di studio a tavolino, all’epoca… è un desiderio, però deve sorgere spontanea la necessità, è un fatto di una condivisione di un’altra età che hai avuto, ne riconosci oggi il valore che ti ha lasciato e vorresti rendere onore ritualmente».
«Mi ritrovo nelle sue parole, solo che ognuno ha la propria vita, diventa impossibile ricreare quella classe; è anche giusto che si sia forgiata in un’Accademia e poi dopo ciascuno abbia preso la propria strada».
D: Quindi la vede più come un’utopia?
«Non è per forza negativa, perché no? Potrebbe essere un’idea che potrebbe balenarsi. Certo sarebbe una gran favola che si conclude partendo dalla genesi di un maestro che è stato Orazio Costa Giovangigli, sarebbe un omaggio meraviglioso…
D: Prayer lo ha definito un Don Chisciotte
«Lo era, un anziano Don Chisciotte stupendo, onestissimo, in barba alle burocrazie, andava avanti con il proprio metodo e la pedagogia, oltre tutto e tutti. È la prerogativa dei grandi, a volte, non essere assecondati dai burocrati perché sono oltre».
D: Orazio Costa diceva che il teatro è una delle poche strade rimasta all’uomo per salvarsi. A me verrebbe da dire oggi forse l’unica, lei che ne pensa?
«È una delle strade in cui ci si può salvare perché si parla di sentimenti umani, parli dell’uomo inevitabilmente, qualsiasi carattere si metta sul palcoscenico e lo si mette a nudo seriamente e sinceramente. Fa parte del nostro lavoro.
Anche la natura sprigiona delle cose meravigliose: perché si sta bene in un bosco o in un deserto? La natura non giudica mai, accoglie. Chi più chi meno abbiamo delle corazze e ci si sente giudicati dalla società; ci sono tantissimi elementi con cui ci si può trovare per una ricerca vera, importante, sana. Il teatro lo è per eccellenza perché mette in scena la vita; però possono esserci anche la poesia, la musica – un esempio è l’Orchestra di Piazza Vittorio, che ormai è diventata una realtà, magari non parlano neanche tutti la stessa lingua, ma tramite la musica si intendono.
Bisogna ritornare al bello dell’essere umano per poter ricominciare; noi siamo ospiti di questa terra, non padroni, invece la stiamo riducendo alla carneficina. Dobbiamo essere ospiti e ospitali, pensare che siamo solamente un fuscello che passa».
D: Come Quadrivio state già pensando al prossimo progetto?
«Abbiamo delle idee, ma siamo ancora in alto mare. La prossima stagione riprenderemo “Don Chisciotte”, recuperando la settimana saltata a Milano, dovremmo andare a Napoli, al Carignano di Torino, dobbiamo andare a Vicenza (saltata anche quella) o ancora a Palermo… ci sono ancora tantissime città che ce lo chiedono».