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Artisticamente Magazine

Alessio Lapice: «Il mio mestiere è stata una vocazione d’amore»

Alessio Lapice: «Il mio mestiere è stata una vocazione d’amore»

Tempo di lettura: 14 minuti

 

ALESSIO LAPICE è talmente entrato nelle vite degli spettatori – in punta di piedi e, al contempo, lasciando il segno – che quando si comincia a parlare la sua voce risulta familiare e, man mano che ci si confronta, la curiosità aumenta nel voler sapere da dove tutto sia nato. In questo dialogo si comprende quanto sia un uomo e un attore che abbia voglia di mettersi in discussione. Alessio Lapice a volte ha dovuto dire dei no, ma questo gli ha permesso di ‘giocare’ con questo mestiere, farsi conoscere al di là della zona di comfort, spaziando tra i generi – ‘impresa’ non semplice soprattutto da noi.

Alessio Lapice racconta il percorso con Ippazio Calogiuri in “Imma  Tataranni – Sostituto Procuratore


D:
Domenica 23 febbraio comincia la quarta stagione

«Nel finale della terza, l’ultima scena tra Imma e Calogiuri si è svolta sulla gravina di Matera al calare del tramonto, dove, dopo un’accesa discussione si sono lasciati prendere dalla passione e da quel sentimento che da anni li legava, messo da parte e  occultato al cuore di entrambi per il bene delle cose giuste e anche per il bene degli altri. Io credo, e immagino che in qualche modo lo pensino anche i personaggi interpretati da Vanessa Scalera e me, che amarsi pur separandoci da qualcos’altro è già di per sé probabilmente una cosa giusta perché è mosso da un sentimento vero, l’amore. Tutti si chiedono, anche Imma e Calogiuri, come evolverà il loro rapporto: decollerà oppure atterrerà? È l’inizio o la conclusione? A un certo punto le cose – questa è una mia riflessione – nascono o si bloccano per sempre.
Parlando di un discorso di sceneggiatura (la serie tv è liberamente tratta dai romanzi di Mariolina Venezia, a scrivere le puntate Salvatore De Mola, Pier Paolo Piciarelli, Michele Pellegrini, Pierpaolo Pirone, Filippo Gili, nda) sul finale della terza stagione (che possiamo considerare quella della rottura) Pietro (Massimiliano Gallo) si infatua di una ragazza che in seguito viene assassinata, lui viene coinvolto nell’indagine e questo mette in subbuglio non solo il rapporto tra lui e Imma, ma la mette in difficoltà anche da un punto di vista professionale. Probabilmente questo passaggio che è successo con il marito – lo immagino io, lo può sapere solo Imma – le ha dato anche un po’ il la per concedersi a Calogiuri, che è innamorato di lei da sempre. Lui si pone la domanda più semplice di tutte: finalmente forse saremo insieme? Lei, invece, è in confusione, come se arrivassero dei proiettili da ogni lato e in questo turbinio di emozioni contrastanti e di scelte scappa dalla sua migliore amica, oltre che la sua cancelliera di sempre Diana (Barbara Ronchi, nda).
La quarta stagione comincia con Imma che si è allontanata da tutto e nessuno sa dov’è tranne Diana. Calogiuri è un’anima in pena, vaga tra le strade di Matera e la procura, chiamando insistentemente sul cellulare di Imma».

D: Quale valore ha questa stagione per il tuo personaggio?

«È sicuramente quella della maturità, della consapevolezza ma anche del coraggio. Un coraggio che deriva dall’amore che nutre per Imma perché credo che, proprio come nella vita di tutti noi, l’amore spesso ci dà il coraggio di superare gli ostacoli o meglio ancora di affrontarli perché è l’unica azione che ci resta per avvicinarci alle persone a cui teniamo. Con il regista Francesco Amato e gli sceneggiatori abbiamo pensato anche a un cambiamento di look, negli anni abbiamo fatto una vera e propria costruzione di questo personaggio. Nella prima stagione era proprio un ragazzino che veniva da un piccolo paesino campano (Grottaminarda), totalmente acerbo sia come essere umano che sul piano professionale; nel frattempo cresce, studia, diventa maresciallo, supportato e invogliato dalla stessa Tataranni, ma soprattutto da un punto di vista dei sentimenti perché probabilmente incontra per la prima volta il suo vero amore, che nasce nei confronti di una donna che non solo è il PM della procura ma ha già un matrimonio alle spalle e con un carattere importante.
C’è stato uno studio dell’arco narrativo molto significativo: all’inizio cercavo di dargli una postura, un timbro della voce e uno sguardo diversi.

Muta anche la sua implicazione nello svolgimento delle indagini. Umanamente sono legatissimo a questo personaggio, sono anche grato per quello che mi ha dato rispetto all’affetto del pubblico, ma è stato anche molto bello lavorarci aumentando la palette dei colori fino ad arrivare a questa quarta stagione che si può considerare il climax di Calogiuri (è anche un momento cruciale perché sta seguendo segretamente l’indagine su Romaniello, che ha subito un agguato in cui il maresciallo ha rischiato di morire e, quindi, è occupato nella cattura del pericoloso boss Cenzino Latronico, nda). Potremmo dire che è anche la stagione delle scelte».

D: Tra i vari colori, quale sfumatura pensi di aver scoperto a livello recitativo seguendo questa crescita di Calogiuri?

«Ho interpretato molti personaggi diversi, varie serie per cui quale abbia fatto scoprire qualcosa di me stesso farei fatica a indicarla perché in generale tutti gli esseri umani e in particolar modo gli artisti hanno la capacità di andare a recuperare dentro di sé quei lati in modo più rapido perché ce li hanno maggiormente presenti visto che lavoriamo con la sensibilità ed è un po’ questo il compito. Ho aderito a progetti molto differenti tra loro, mi diverte tantissimo esplorare un personaggio nuovo, dargli dei nuovi colori e soprattutto attingerli da me. Sono convinto che dentro ognuno di noi abiti un condominio molto grande, con varie sfumature, tanti sentimenti, pure contrastanti e personalità differenti: è questo che rende gli esseri umani meravigliosi e, allo stesso tempo, la finzione… che è questo: cercare di raccontare nel modo più vero e più vicino possibile quello che succede nella realtà di tutti i giorni, qualche volta facendo sognare un po’ di più lo spettatore, altre volte dicendoci un po’ di più la verità».

D: Di tutti i ruoli incarnati cosa ne pensi?

«Lo racconto spesso ai miei familiari e agli amici più stretti: la cosa per la quale sono più grato a questo mestiere è che vivendo attraverso i personaggi è come se avessi la possibilità di sperimentare più vite e quindi imparare più cose, si provano più punti di vista. Penso che questo sia il grande regalo che si riceve, vuoi o non vuoi molte cose te le lasciano e altrettante le apprendi; questo è il motivo per cui secondo me le persone dovrebbero andare forse anche di più al cinema, legarsi tanto alla musica, alle arti perché hanno la possibilità di avvicinarsi molto di più a se stessi. Questo mestiere per chi lo fa è un po’ un acceleratore di cose che assorbi, impari e che vedi, è come uno spiare in continuazione in altre vite che certamente se non fai questo lavoro non potrebbe succedere».

D: A proposito di coraggio, emerge nella prima puntata anche il coraggio di amare e di dire determinate cose.

«Siamo in un’epoca in cui si è impauriti. Quelli che hanno il coraggio di amare sono proprio degli eroi perché effettivamente amare è anche un po’ la cosa più incosciente che si possa fare poiché rende vulnerabile, però è anche il motivo per cui si è vivi perché un’esistenza senza vivere delle emozioni non ha nessun senso».

Alessio Lapice Imma Tataranni

 

D: Calogiuri dice: «Quando hai scoperto la felicità anche solo per un’ora tutto il resto non conta più. Se per una volta la vita ti fa un regalo che non ti aspetti, tu che fai non te lo prendi?».

«Per questo voglio molto bene a questo personaggio perché, nella sua insicurezza, è la persona più coraggiosa che conosco perché anche attendere è una grandissima forma di coraggio, vuol dire fidarsi del tempo, fidarsi di se stessi, fidarsi degli altri e significa pure dire le cose quando vanno dette, senza nascondersi. Oggi mi sembra che scappiamo un po’ tutti da questo».

D: Già in queste parole si vede la maturità di cui parlavi

«Si invertono un po’ i ruoli tra i due. Calogiuri dà coraggio a Imma, le vuole trasmettere che non c’è nulla di sbagliato nell’innamorarsi di una persona. Lei non sa come muoversi ed è ciò che ci succede quando ci innamoriamo, ci blocchiamo, non sappiamo come gestire bene certe cose, molto spesso infatti poi si fanno degli errori».

D: La cifra anche della serie sta in un mood leggero e poi arrivano delle sferzate per cui ci si guarda dentro e ciò avviene anche per gli spettatori.

«L’amore non significa fare la scelta giusta. È l’amore che ti sceglie e non puoi scappare da questa dinamica, se scappi e la ragione prevale vuol dire che non era così potente o comunque (certo ci sono miliardi di dinamiche dietro questo passaggio) l’amore arriva e lo si dovrebbe seguire, delle volte per x motivi non lo si fa. Quello che Calogiuri vuole fare capire a Imma e di cui stiamo diventando tutti un po’ timorosi è che alla fine scegliamo la cosa apparentemente giusta, ma la cosa giusta sarebbe seguire l’amore che è il sentimento della felicità e della motivazione per la quale viviamo».

D: In “Imma Tataranni” si parla di vocazione per il lavoro, per la verità e direi anche nell’imparare ad ascoltare se stessi. Pensando al tuo percorso, come intendi la vocazione?

«Il mio mestiere è stata una vocazione d’amore. Me ne sono innamorato e quindi ha scelto un po’ lui per me e tutte le volte che ci sono stati ostacoli, che bisognava spingere di più, restare e che bisognava rincorrere o aspettare sotto l’acqua o un telefono che non squillava o ancora che bisognava avere pazienza, fidarsi di questo sentimento, fidarsi di se stessi e quindi della vocazione di fare questo mestiere e quindi dell’amore… penso di averlo fatto, di averlo messo davanti a tutto proprio come è questo sentimento. La passione per questo mestiere si accende man mano, non credo che all’inizio si possa dire: è il mestiere della mia vita, perché piano piano ti avvicini, attingi, apprendi, impari e ti innamori sempre di più… è proprio come una relazione e quando te ne innamori, se hai davvero la vocazione, con la disciplina, lo metti davanti a tutto e accetti che ci siano degli ostacoli. Stare in una storia d’amore è complicato, ma anche molto bello quando ci sono dei picchi per cui questo amore ti viene riconosciuto. Questo è anche il concetto dell’amore: possiamo non capirci sempre, ma se l’amore c’è si va avanti. Per me l’amore è un aggettivo e vedendolo con questa prospettiva, credo che le persone che hanno una grande passione per qualcosa, per un mestiere o un hobby per cui si spende tanto: ecco io credo molto in queste persone, perché se non si conosce questo sentimento dell’amore è difficile che lo si possa manifestare in una coppia. Se non si conosce la passione, non si sa cosa voglia dire saper attendere, pazientare. Succederà, non succederà, ma intanto mentre amo lotto e vado avanti: questo vale per tutto, per il mestiere, per una relazione di coppia, per un amico che ha fatto un torto… non lo si perdona, è troppo grave e allora non lo si vuole così tanto».

La vocazione per il mestiere che si sceglie e non solo


D:
Emerge molto bene l’idea di dedicarsi

«Sono abituato a vivere le cose che amo con molta forza, in modo viscerale. Questo approccio me lo porto anche in tutte le relazioni a cui tengo, sono così anche coi miei familiari quando c’è qualcosa da risolvere: intervengo con forza, che non vuol dire con autorevolezza, ma trasmettendo che ci sono e lo affrontiamo perché dobbiamo farlo. Tornando a Calogiuri, quando lui le dice: se arriva una cosa bella che fai, non te la prendi? Su questo sono d’accordissimo con lui perché legarsi alle persone non è una cosa di tutti i giorni, è un match sottovalutato secondo me, invece è quasi una cosa rara, molto spesso (e adesso non mi riferisco più al personaggio non essendo il suo caso) la gettiamo via perché pensiamo che magari lì fuori, siccome siamo tanti, troveremo qualcosa di meglio e così il più delle volte si resta delusi perché è più difficile di quanto pensassimo».

Alessio Lapice
Ph Federica Pierpaoli

Alessio Lapice: la formazione e gli inizi


D:
Hai raccontato di aver cominciato con un piccolo ruolo all’interno di una rappresentazione teatrale allestita da un gruppo di amici.

«Era un testo contemporaneo scritto da loro, portavo dei caffè, dicevo due o tre battute e c’era questa ragazza a un tavolino che per fare ingelosire lui mi faceva delle avance. Era piccolissimo come ruolo, mi ricordo molto bene il momento in cui ho mosso quel primo passo, come se fosse successo cinque minuti fa».

D: Anche le piccole cose possono accendere delle fiamme, quelle che diventano fiamme. Quando ti trasferisci a Roma, come mai scegli proprio di seguire l’Accademia Duse?

«Me ne avevano parlato. Ho fatto prima un seminario con loro di sette giorni, mi ha incuriosito come lavorassero piaceva e sono rimasto lì. Ho seguito anche un laboratorio al Centro Sperimentale solo che a quei tempi c’era l’obbligo di frequenza e, con tutta onestà, non potevo permettermi di non lavorare e studiare soltanto».

D: Rispetto al metodo dell’Accademia incentrato su questa sensibilizzazione nella persona

«Tante cose che ho studiato lì su Stanislavskj, Strasberg me le sono portate dietro e mi sono state molto utili, ci lavoro ancora tutto oggi. Lì si fa tutto uno studio sulla backstory del personaggio, si va a sviscerare da dove viene, chi è, che lavoro fa, che sessualità ha ed è un approccio che ancora oggi adotto. Quando mi preparo ho un quaderno di appunti in cui scrivo il look, che voce ha, come si muove, quanto guadagna, che famiglia ha, dove è stato, da dove viene, quanti fratelli ha, dove è cresciuto, che tipo di sessualità ha e immagino anche la playlist. Un lavoro molto profondo e anche molto bello. Ci sono delle volte in cui hai più tempo a disposizione per lavorarci e altre in cui non è possibile per un discorso di tempi produttivi».

D: La Duse diceva che il teatro resiste contro tutto e tutti. Cosa ne pensi? Avresti voglia di tornare sul palcoscenico?

«Ho lavorato su molti progetti di seguito e non perché il teatro non sia nei miei pensieri, ma semplicemente perché in quel momento, quel film, quella storia, mi sembrava che fosse più forte da affrontare. Il teatro è meraviglioso, ma dal punto di vista della gestione, spesso anche per un discorso di fondi, non vive un buon momento. Il cinema è nato dopo ed è senza dubbio più semplice da realizzare in molti aspetti soprattuto perché la macchina da presa ricrea una magia e una forza che entra direttamente nel volto dei personaggi. Assolutamente il teatro resisterà nei tempi e non posso pensare che gli esseri umani non abbiano più voglia di guardare oltre se stessi».

Alessio Lapice Il primo Re
“Il primo Re” regia di Matteo Rovere

Alessio Lapice e il lavoro per creare il personaggio


D:
La Duse diceva anche che il corpo dovesse riprodurre i gesti quotidiani, è stata l’antidiva, rifuggiva dalla macchina da presa

«A mio parere il corpo racconta quello che la mente pensa ed è un elemento essenziale nella preparazione di un attore. Ritengo, infatti, che per conoscere una persona non si deve ascoltare quello che dice, ma osservarla quando non parla».

D: Ecco pensando anche al lavoro per “Il primo Re” c’è tanto di questo approccio

«Mi viene naturale. Per esempio quando ho preso parte a “Natale in casa Cupiello” volevo che il mio Vittorio avesse una postura dritta poiché siamo negli Anni ’50 e gli uomini a quei tempi avevano un modo di porsi molto più attendo ed elegante. Molte cose inerenti a quell’epoca le ho rubate dai nonni. Ricordo che mia nonna diceva che gli uomini belli erano quelli senza barba, ad esempio per il mio Vittorio mi sono fatto fare un elastico che da dietro aveva dei bottoni, una sorta di body e tirando questo elastico mi costringeva ad avere una postura più dritta. L’abbigliamento aiutato tanto la costruzione di un personaggio».

 

In merito a “Il primo Re” mi sono ispirato più alla morfologia dell’uomo, all’uomo primitivo, agli elementi della terra quindi il fuoco, il sapore del vento… quasi un lavoro sensoriale su quello che riguardava Romolo. Ci sono dei gesti che non c’erano nel testo come quando muove le mani in senso circolare verso il basso che indica la terra e poi il sorgere del sole mettendo la mano e si apre come verso l’alto – va ricordato che siamo nel 753 a.C. per cui la leggenda ispira molto la fantasia».

D: Questa fantasia sugli elementi essenziali te la sei portata nella vita di tutti i giorni?

«Ho sempre avuto da piccolo grande curiosità. Quando avevo sei anni mentre i cugini e tutti gli altri bambini scartavano i regali e giocavano, io mi divertivo a smontarli con un cacciavite perché volevo sapere come fossero fatti all’interno. Sono uno che sogna tanto».

D: Anche se non l’hai portato a teatro, hai ‘affrontato’ il tuo legame napoletano con Eduardo anche col film per la tv “Questi fantasmi“. C’è un punto di riferimento che è stato fondamentale?

«Guardo tantissimi biopic, documentari delle vite di tutti (compresi i grandi sportivi), mi piace in generale tutto quello che ha un percorso evolutivo e mi attrae tantissimo tutto ciò che da zero diventa qualcosa e poi è il motivo per il quale faccio questo mestiere perché da un foglio di carta nasce un personaggio, gli dai la vita e questi entra nelle emozioni, nelle vite degli altri e chissà magari qualche volta forse gliele salva. Così come ci può salvare una canzone, un libro, un film per questo tutti dovremmo essere molto più vicino alle arti. Con Eduardo ci sono cresciuto, guardavo i suoi film sin da bambino».

D: È anche vero che la tua generazione spesso si può essere sentita un po’ orfana non essendoci più maestri come Ronconi, Strehler e anche a livello cinematografico ne abbiamo persi tanti. Non c’è più modo di fare scuola con loro.

«Questo è vero, ma valorizzando il potere di internet li si può raggiungere con grande semplicità essendo eterni».

D: Se vogliamo anche rispetto alla serie “Gomorra” (nella seconda stagione ha interpretato il personaggio di Alfredo Natale) il rischio di rimanere invischiato c’era, ma sei riuscito ad evitarlo

«Ho cercato di diversificare tantissimo per evitare di restare inglobato. Essere inquadrato in un cliché dello stesso personaggio è qualcosa che proprio non voglio e soprattutto non mi affascinerebbe; in più mi dispiacerebbe che gli addetti ai lavori mi iniziassero ad associare a qualcosa di preciso. Anche per questo ho esplorato dialetti, accenti e anche di non cavalcare esageratamente l’essere di origini napoletane, pur amandole ed essendoci molto legato. Va detto che le scelte le ho potute fare anche perché qualcuno me ne ha dato l’opportunità».

D: Ma quanto è stato difficile?

«Tantissimo. Ho ragionato a lungo sulle scelte che ho fatto, qualche volta ho dovuto dire di no, ma in generale mi sono sempre dato tantissimo e reso iper disponibile. Certamente depistare i casting comporta delle energie e delle scelte, mantenendo la mente lucida e restando coi piedi per terra».

“Diabolik 2 – Ginko all’attacco” regia di Manetti Bros

D: Tornando a Eduardo

«Penso che quando si intende che i fantasmi siamo noi voglia dire che gli esseri umani siamo tutto e nulla, non siamo altro che un recipiente in cui tu scegli che liquido metterci all’interno è per questo che siamo dei fantasmi. I fantasmi esistono perché sono i fantasmi che noi scegliamo di vedere di conseguenza siamo noi stessi i fantasmi. Nella vita di tutti i giorni ogni individuo recita un ruolo che si è costruito nel quale ci sta bene, ma di conseguenza è un fantasma perché è un ruolo che ha scelto lui ma probabilmente potrebbe essere tutt’altra cosa. Per questo poi si dice che i fantasmi non esistono perché li costruiamo noi così come le bugie che ci diciamo, ci diamo le false aspettative. Ovviamente questo è il mio punto di vista ma se ne potrebbero dare tantissime di letture a questo concetto».

D: Bisogna anche vedere quanto siamo consapevoli.

«Se lo fossimo non sarebbero dei fantasmi, ma sarebbero una realtà. Richiamando il concetto dell’amore si sfugge dall’amore stesso convincendoci di qualcosa che non c’è per sfuggire alla realtà, il concetto di fantasma è forse una forma di difesa dell’uomo».

D: Rispetto al film “Eravamo bambini” come li ‘collegheresti’?

«Lì ci sono i fantasmi reali del passato, sono traumi irrisolti come un lutto non elaborato, una violenza non affrontata».

Alessio Lapice in Eravamo Bambini
“Eravamo bambini” regia di Marco Martani

D: Pensi che qualcosa del genere sia accaduto con il periodo del Covid?

«Probabilmente si è presa ancora più la consapevolezza di quanto possa essere precaria la libertà, di conseguenza questo ha fatto sì che adesso non si accetta neanche un minuto di privazione di qualsiasi genere. È come se fosse una fase di ubriacatura in cui bisogna bere per non pensare. Ma io ho fiducia poiché l’uomo si rinnova sempre e come diceva Pino Daniele: tanto per sognare poi qualcosa di buono arriverà».

D: Concludiamo questo ‘viaggio’ chiedendoti dove ti vedremo prossimamente?

«Ho appena finito di girare la serie diretta da Vincenzo Pirozzi. Il mio personaggio è Stefano, il compagno di questo giovane notaio, Roberta Valente, interpretata da Maria Vera Ratti. Lui è un ragazzo cresciuto a Sorrento, lavora presso la società assicurativa dei suoi familiari e a un tratto si troverà di fronte a un punto cruciale della sua vita poiché i suoi genitori hanno un ascendente molto forte su di lui sia per quanto riguarda le scelte professionali che personali. Stefano e Roberta da sempre hanno progettato di sposarsi ma quando lei gli chiederà di farlo, Stefano inizierà a nutrire qualche dubbio. Dovrà scegliere…».

Alessio Lapice
Ph Federica Pierpaoli

D: Ci sono novità sull’uscita de “Il protagonista” per la regia di Fabrizio Benvenuto?

«Non ancora. È una storia di due giovani attori inquilini che si trovano a Roma. Il film è totalmente in bianco e nero. Nella costruzione del personaggio di Davide mi sono ispirato tanto a un periodo della mia vita tra i 18 e 23 anni in cui trascorrevo giornate intere con gli amici a provare, discutendo dei provini, di nuove scoperte e degli esercizi che ci facevano fare in accademia».

D: Hai una passione per il canto

«Molto personale come per la musica, ma certamente non sono Bocelli e nemmeno Tiziano Ferro [richiamando ciò che ha detto poco sopra di stare coi piedi per terra]».

D: Non pensi di volerla usare nel lavoro?

«Mi affascina l’idea però non ci ho mai pensato ancora concretamente. Quando vedo sul palco gli artisti cantare insieme al pubblico mi suscita molte emozioni e penso che è tanto bello stare lì a condividere la propria musica con tutte quelle persone soprattutto perché accade live, lì insieme a te in quell’istante».

 

Ph cover: Federica Pierpaoli

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