Ascoltare e dialogare con AURORA PERES è ‘concime’ per alimentare la curiosità, oltre che la passione per l’arte. Chi ha avuto modo di vederla sul palcoscenico ha provato già l’energia che è in grado di comunicare mista a una profondità, che denota come non si fermi mai in superficie e voglia sempre scavare. Nella prima serie diretta dal maestro Marco Bellocchio, “Esterno Notte”, incarna la figlia maggiore di Aldo Moro, Maria Fida. Nel nostro dialogo siamo partite dallo spettacolo con cui è attualmente in scena al Teatro Astra di Torino, “Lemnos” diretto da Giorgina Pi, dopo aver debuttato in prima assoluta a Genova (produzione Teatro Nazionale di Genova, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, TPE – Teatro Piemonte Europa in collaborazione con Bluemotion e Angelo Mai).
Aurora Peres ci fa addentrare in “Lemnos”
D: Si tratta della conclusione di una trilogia. Avevi avuto modo di vedere i precedenti lavori?
«Sì, il primo è stato “Tiresias”, su cui è stato effettuato un lavoro incredibile dal testo di “Hold your own (Resta te stessa)” di Kate Tempest, insignito di tre premi Ubu (miglior testo straniero / miglior interprete / miglior progetto sonoro) diventando lo spettacolo di punta dei Bluemotion, da cui è nato tutto il resto. Subito dopo “Guida immaginaria” che ho visto a Castel Sant’Angelo – un lavoro sperimentale che hanno fatto su Atene e il museo dell’Acropoli».
D: Per quanto riguarda “Lemnos” mi ha molto colpito l’idea di come sia stato riscritto, la fonte a cui ha voluto attingere e l’idea di cercare anche dei legami con l’attualità…
«Giorgina è partita dall’idea del “Filottete” di Sofocle perché era un testo che l’aveva colpita, ma anche perché, svolgendosi nell’isola di Makrònissos – dove lei è andata – ha scoperto che i confinati presenti lì (gli antifascisti deportati dal 1946 al 1974) avevano tra le attività quella di mettere in scena degli spettacoli teatrali. Uno dei testi a cui erano molto legati era proprio il “Filottete” per i temi che trattava. Purtroppo nessuno riesce a ricordare se lo spettacolo sia stato bloccato al debutto o se alle prove perché le torture che hanno subito i detenuti quando le guardie hanno scoperto l’importanza del testo per loro (era un modo per comunicare dei punti molto potenti come lo struggimento dato dall’esilio, l’essere contro la guerra e contro la privazione della libertà e della libera espressione) hanno fatto sì che i deportati non ricordassero minimamente cosa sia avvenuto. Il testo pensato da Giorgina veniva modificato durante le prove in base alla forma che prendeva ciascun personaggio. Io sono questo Dues ex machina, che è il frutto di un congiungimento tra la tragedia di Sofocle e il presente. Man mano sono stati inseriti nuovi testi tra cui la poesia di Adrienne Rich. Io e l’attrice greca siamo collegate, è come se fossimo il doppio di uno stesso personaggio, lei parla in greco e io la traduco, vivendo in simbiosi. Direi che è stata una tipologia di lavoro molto forte».
D: Incuriosisce, tra le fonti, il voler attingere a queste due poetesse femministe…
«Ci sono dei pezzi che sono sia femministi, ma in generale riguardano la libera espressione dell’essere umano: questo portiamo in scena. Credo che mai come in questo momento storico sia necessario parlarne».
D: Colpisce, tra le tante suggestioni una frase: «La natura lancia i suoi avvertimenti, ma gli uomini del dramma non vedono niente, bensì, come al solito, solo le immagini nella loro mente. Vengono dalla guerra senza fine» …quanta attualità se pensiamo a ciò che stiamo vivendo sia a livello climatico che di scontri.
«Questo dimostra come il teatro sia immortale e questi temi, ahimè, ricorrono. Tutto è mosso dall’importanza della memoria, che torna anche in “Esterno notte”. È fondamentale ricordare che cosa è successo nel passato perché alla luce di quei fatti, in teoria, si spera che ci si possa comportare in maniera differente, apprendendo dagli errori fatti dagli uomini nel passato».
D: A scuola ci hanno sempre trasmesso Ulisse col mito dell’eroe, come colui che vuole tornare; invece in questa drammaturgia si ascolta: «Questa è la storia di un uomo che vorrebbe tornare a casa, ma non in patria, di un altro che pur di non tornare a casa fa durare la guerra in difesa della patria»…
«È stata una grande rivelazione poiché anche a me hanno sempre insegnato che Ulisse era il nostro eroe, addirittura su di lui è stata scritta l’Odissea; invece è veramente il simbolo del despota che ha voluto far continuare la guerra, il quale ha manovrato delle persone – lo stesso Neottolemo – per un proprio tornaconto, a discapito di Filottete ed è pure colui che ha abbandonato quest’ultimo perché scomodo. Questo è un tema che ritorna: abbandonare qualcuno in quanto più debole poiché non più utile ai fini della guerra – era stato morso per cui aveva dei dolori lancinanti».
D: Il tuo Deus ex machina è stanco e addolorato…
«Rappresento questa creatura impotente rispetto agli eventi storici e a tutto quello che ha fatto l’uomo, a prescindere da ciò che è avvenuto durante la Storia. È un dio stanco perché non sa più che cosa fare di fronte a ciò che l’uomo sta compiendo, compresa la distruzione. In tal senso è un ponte con la storia contemporanea, purtroppo… perché l’uomo continua a massacrare sé, la natura e, quindi, non impara niente dal passato. Se c’è una divinità, sembra arrendersi anch’essa. Non si vuole dare alcuna connotazione cattolica… è sia un dio ex nel senso che da fuori tenta di creare questo ponte; allo stesso tempo è un dio che non è più un dio per com’era inteso nel mito in quanto non ha più un potere risolutivo».
I modelli di donna e la violenza
D: Ci sono anche diversi interrogativi in merito all’eredità padri e figli.. Hai provato a darti delle risposte?
«No, continuo ad avere delle domande. Ci hanno imposto dei modelli a cui dobbiamo aderire per forza e non ci hanno permesso di chiederci: vogliamo farlo? E questo ci vieta di dire di no e di comprendere in quale direzione realmente si voglia andare. Sono totalmente d’accordo con questo testo di Ritsos».
D: Se dovessi dire istintivamente qual è il modello che ti sta più stretto e a cui hai sentito di doverti ‘ribellare’?
«Per quella che è stata la mia formazione penso subito a modelli femminili che vengono proposti e a cui si crede di dover aderire. Questo ha creato dei contrasti interni; ammetto, però, che ho una famiglia molto aperta e che amo tanto (si riferisce sia a quella di origine che di amicizie che ha creato e fa riferimento al fermento culturale dell’Angelo Mai, nda) per cui sono riuscita ad accettare determinate scelte che ho compiuto nella mia vita, andando contro quel modello imposto e che pensavo fosse giusto – mi riferisco alla donna che deve rientrare entro determinati canoni e deve soddisfare specifiche necessità come quella di essere madre e compagna perfetta. Da noi siamo oggi ancora più indietro rispetto a ciò che era in atto negli Anni Cinquanta».
D: Ti riferisci per la questione politica o in generale per la nostra forma mentis culturale?
«A entrambe. Penso anche all’aborto che è tornato come argomento scottante… si dice che non sia stato vietato, ma appunto ‘si dice’. Si tratta di temi essenziali che riguardano la libertà dell’individuo, qualsiasi sesso o genere abbia».
D: Sorge spontaneo confrontarmi con te su come sia stato quasi ineluttabile il destino di quella donna, Anastasiia Alashri, scappata dalla guerra in Ucraina, rifugiatasi da noi e uccisa dall’ex marito, nonostante le denunce. Sembra quasi che non ci sia scampo di fronte a determinate cose che non sono cambiate, anzi, se volgiamo, sono peggiorate
«Lo scampo non c’è quando non ci si unisce, quando si rimane sole o soli. L’unico spiraglio nel futuro che vedo è quello di creare una rete; chiaramente ci sono delle tradizioni culturali difficili da cambiare, ma non è impossibile. Bisogna comunicare tra di noi. Ci sono pochissime misure di tutela, le donne non vengono ascoltate veramente quando denunciano. Certo, da parte della giustizia, ritengo che debba esserci un’azione concreta e differente».
D: In questo caso c’è stato il coraggio di denunciare, purtroppo non è servito a nulla
«Penso che non si debba smettere di denunciare nonostante non sia servito in questo così come in altri. È una questione complessa… li chiamo omicidi perché non sono ‘semplicemente’ femminicidi, anche se sono sempre più le donne a subire questi atti. Tengo molto a questo tasto» [si avverte la partecipazione con cui ne parla].
D: Tornando allo spettacolo: hai avuto modo di leggere direttamente qualche racconto degli antifascisti greci?
«Sono stati scritti moltissimi saggi su di loro, ho ascoltato l’intervista che è stata fatta alla custode del museo di Makrònissos, che non si trova sull’isola, ma ad Atene – aveva suo padre come confinato. Ho letto delle testimonianze, che riporto insieme ad Alexia in greco, riguardanti le torture che hanno subito sia sul piano fisico e soprattutto quelle psicologiche. Erano costretti a firmare una dichiarazione di pentimento per essere stati comunisti, dovevano farlo pure pubblicamente, rinnegando completamente la loro fede politica, il che vuol dire un annientamento totale della propria fiducia in se stessi. È stato un lavoro molto intenso e che ci ha provato molto anche dal punto di vista psicologico, però ne vale la pena dal momento che il teatro è un atto politico. Credo che anche rispetto a ciò che si diceva sulla violenza contro le donne ci sia un collegamento: sono questioni che non ti fanno dormire e che primo poi ci toccano tutte».
D: Ammetto che non conoscevo di questa deportazione e del dolore annesso… Mi sembra che non se ne parli tanto.
«Fino a dieci anni fa era una storia segreta. Quando abbiamo chiesto alla donna custode del museo per quale ragione fosse un segreto, non ha saputo rispondere. È stato atroce anche perché, mentre nel resto d’Europa si riprendevano dopo la Seconda Guerra Mondiale, in Grecia venivano effettuate nuove deportazioni di cui non si sapeva, il tutto col sostegno del governo britannico perciò era uno scandalo vero e proprio. I fascisti dell’Europa andavano appositamente ad assistere gli spettacoli deportati per vedere come il regime li avesse educati bene e questi godevano nell’osservarli piegati. È fondamentale testimoniare tutto questo perché solo parlandone si può trasformare qualcosa».
D: Da ciò che hai condiviso, intuisco che il regime censurasse gli spettacoli – a cui loro si ‘aggrappavano’ – se non li riteneva in linea
«Sì ed è per questo che il tema della memoria è importante. In tal senso la serie e questo spettacolo sono profondamente connessi: fare da testimone è utile per fare comprendere la situazione politica di adesso. Ritengo che “Esterno notte” sia necessario che venga vista soprattutto da chi non ha vissuto quel periodo storico o non ha parenti vicini a quegli anni proprio perché attraverso quell’evento e le dinamiche politiche si può capire qual è la situazione di adesso. Il mio personaggio in particolare, Maria Fida, non si è mai fermata a ciò che le dicevano, così come ha fatto sua madre. Il desiderio di giustizia, la determinazione nel voler ottenere la verità sono dei temi necessari in questo momento: non fermarsi semplicemente a quella che è una storia che ti viene data dai libri, ma continuare nella ricerca».
D: È un approccio che ti porti sia in campo artistico che nella vita?
«Sempre. Come attrice non smetto mai di studiare sia dal punto di vista dell’allenamento fisico – intendo lo strumento corporeo, inclusa la voce – che dei nutrimenti intellettuali . Sono fortunata anche negli incontri, la stessa Giorgina Pi è continuamente alla ricerca per cui stimola i suoi attori in questa direzione. Vado spesso all’estero e questo mi porta a dei confronti. Tutto ciò porta alla crescita umana. Ritengo che come artista devi portare te per cui se non si cresce dal punto di vista umano, non si può portare a un’evoluzione artistica».
Aurora Peres: l’esperienza di “Esterno Notte” e il ruolo di Maria Fida Moro
D: Accennavi a questo filo, quasi ‘casualmente’ nello stesso periodo, tra la serie e il progetto teatrale. Pensando al lavoro che hai compiuto e a come hai vissuto la sceneggiatura di “Esterno notte”, non solo per il personaggio di Maria Fida, ma in generale per la pluralità di sguardi offerto, cosa ha aggiunto rispetto a ciò che sapevi della vicenda Moro?
«Tantissimo. La sceneggiatura l’ho letta tutta d’un fiato – è scritta benissimo – e per come l’ha messa in scena Marco Bellocchio offre un punto di vista personale e umano dei protagonisti di questa vicenda. Non era ancora stato fatto fino ad ora: vedere quella che può essere una crisi umana all’interno di un politico, fa cogliere degli aspetti che non si erano mai presi in considerazione prima. Osservare, per esempio, la fragilità e il crollo di Cossiga – magistralmente interpretato da Fausto Russo Alesi – così come la crisi di Eleonora Moro o dello stesso Moro, la loro umanità, fa comprendere come la Storia possa mutare anche in base a quelle che sono le proprie fragilità umane. Loro hanno avuto paura allora… così come assistere alle contraddizioni e alle crisi dei brigatisti, ha aggiunto moltissimo alle mie conoscenze. È stato un modo diverso di affrontare la Storia e la vicenda di Aldo Moro perché sarebbe stato molto più semplice far vedere solo gli eventi; qui Bellocchio si assume la responsabilità di prendere un preciso punto di vista: smascherare l’umanità di tutti i personaggi e le loro contraddizioni interne».
D: Qual è stata la chiave o l’indicazione che ti ha aiutata maggiormente nell’indossare i panni di Maria Fida?
«Per quanto riguarda la mia preparazione mi sono documentata guardando le interviste attuali, con la consapevolezza che non fossero state realizzate in quel periodo storico. Ho letto i suoi libri e, in particolar modo, sono stati importantissimi “La casa dei cento Natali” e “In viaggio con mio papà” – in quest’ultimo emerge il loro rapporto strettissimo, lei lo accompagnava in tutti gli incontri politici. Nel primo si ricorda la relazione tra tutti loro, ma anche ciò che era rimasto post omicidio… La sceneggiatura in sé era molto potente per quanto riguarda le varie indicazioni e quello che poteva nutrire il mio personaggio; ma con Bellocchio abbiamo lavorato tantissimo su questa rabbia data dall’impotenza di ottenere la verità, dall’impossibilità di liberare il padre. Il tutto con un grande rispetto per il dolore di questa famiglia anche perché è stato un trauma atroce per loro».
D: Mentre ne parli, mi ricordo determinate scene… e poi mi aveva già colpita quando Fabrizio Gifuni ha portato in scena “Con il vostro irridente silenzio” costruito sul memoriale e sulle lettere…
«Anche a me hanno colpito tantissimo le lettere e sono state utilissime per la creazione del lavoro. In alcune lui si rivolge al marito di Maria Fida, chiedendogli di aver cura della figlia per la sua fragilità e sensibilità, essendo in apprensione per lei e per il nipotino Luca».
D: Immagino il rapporto creatosi con Gifuni sul set
«Meraviglioso.. Lui era Aldo Moro e da lì hai modo anche di comprendere quale tipo di artista sia Fabrizio: un uomo che ha una cura, un’attenzione e un rispetto enorme per qualsiasi attore e attrice con cui collabora, oltre che col regista, e questo dà vita a un lavoro sublime».
D: Esiste un momento del rapporto padre-figlia e della lotta per la verità che Maria Fida ha portato avanti che ti sono particolarmente a cuore?
«La relazione padre-figlia è stata molto stretta, dolcissima per via anche dell’attenzione che Fabrizio aveva nei miei confronti e dell’attore che interpretava il nipotino Luca. Si sentiva che Moro volesse lasciare a lei il testimone di questo modo di fare politica (con ciò che è accaduto non è stato possibile perché la sua priorità è stata quella di ottenere la giustizia rispetto a ciò che aveva vissuto suo padre), di rivolgersi agli altri. Era un legame affettivo profondo ed è stato struggente anche registrare quella telefonata – avvenuta nella realtà – in cui il padre chiede alla figlia di tenere ancora per una notte Luca. Lei l’indomani mattina va a riprendere il bambino, poco prima che Moro venga rapito; se lei non fosse andata, lui sarebbe andato col nonno. Sapere questo è ancora più struggente… e direi che anche lui è rimasto testimone, non solo di un cognome, ma di un amore che continua».
D: Mi piacerebbe che, anche tramite le tue parole, tenendo conto pure della tua età e sensibilità, se volessi rivolgerti alle generazioni più giovani o anche a chi afferma che segue solo serie straniere, cosa diresti?
«Se tengono alla libertà è necessario che si informino e continuino la ricerca per comprendere profondamente com’è la situazione attuale e come evolversi. Ai ragazzi direi che, nel momento in cui non riescono ad essere liberi di esprimersi, di essere ciò che vogliono essere, guardando anche questa serie (disponibile su RaiPlay, nda) possono comprendere le motivazioni e forse a cambiare la situazione. Loro dovrebbero sentire un senso di responsabilità verso il futuro… In “Lemnos” chiediamo di scrivere dieci righe come diceva Ritzos – l’unica cosa che veniva data ai deportati era quella di scrivere una lettera alla propria famiglia, composta appunto da dieci righe. È un atto di responsabilità difficile e scomodo mettere nero su bianco cosa si desidera e come vogliamo evolvere. Lo domandiamo adesso come forma di evoluzione rispetto alla finalità con cui lo chiedevano ai tempi».
D: Tu avevi avuto modo di lavorare già con il maestro Bellocchio e sei una giovane attrice che si sta strutturando sempre di più – a livello teatrale sei passata da Filippo Gili (indimenticabile “Prima di andar via”) a Juri Ferrini, da Giorgio Barberio Corsetti a Silvio Peroni e adesso Giorgina Pi… quindi una varietà di menti, oltre che di approcci al teatro. Qual è lo sguardo di Bellocchio su di te?
«Sento un rispetto dalla prima volta in cui l’ho incontrato: non ha mai avuto paura di chiedermi un lavoro artistico molto profondo. Il tutto con estrema cura e un’intelligenza che mi ha portata a fidarmi sempre di più. Lui è un punto di riferimento per me. In tutti questi anni (ci conosciamo dal 2006) ha manifestato sempre un affetto, ha visto sempre tutti gli spettacoli a cui lo avevo invitato e, il giorno dopo, l’attenzione di chiamarmi per darmi il suo punto di vista e confrontarci… anche questo mi ha portato ad evolvere come artista. Nel campo dell’arte è sempre stato un uomo molto curioso, uno dei più giovani artisti che abbia mai incontrato, lo stare con lui è contagioso in questo. Chiamandomi ha dimostrato stima – e non è un tipo di persona che si perde in effusioni o discorsi né li vorrebbe ricevere ed è un aspetto che amo molto. È molto concreto: quando funziona una scena te lo dice; quando vuole qualcosa in più dal punto di vista artistico ti porterà sicuramente. Si mette continuamente in discussione e se non considerasse l’artista che ha davanti degno di collaborare con lui non chiederebbe anche un confronto… questo è tantissimo, non ha bisogno di parole».
D: Ti ha chiamata subito per il ruolo di Maria Fida?
«L’ho invitato ad assistere al “Re Lear”, il giorno dopo mi ha telefonato per dirmi la sua e mi ha detto che gli interessava come mi fossi approcciata al personaggio di Regan e che avrebbe voluto vedere, a un tratto, in viso cosa mi accadesse. Dopo tanti mesi, c’è stato il lockdown di mezzo, sono stata chiamata per un provino direttamente su Maria Fida. Non si è mai raccontato come la famiglia vivesse una sorta di ‘sequestro’ parallelo visto che fuori era pieno di giornalisti».
D: Anche l’interpretazione della Buy va molto in sottrazione trasmettendo la dignità di Eleonora Moro
«Bellocchio ha chiesto a ciascuno di noi, soprattutto quando la famiglia si trovava in situazioni pubbliche, di mantenere la dignità che era frutto della compostezza. Non abbiamo mai pianto, a me veniva anche spontaneo, ma lui ci diceva che non sarebbe dovuta uscire neanche una lacrima perché ognuno di loro ha avuto una riservatezza nell’affrontare il dolore e ci teneva a comunicarlo».
D: In “Prima di andar via” c’è un annuncio della morte, a cui reagite tutti in modi differenti; qui non c’è l’annuncio, anzi la speranza che ha anche nelle prime lettere e poi un dato di fatto.
«In tal senso in “Prima di andar via” il personaggio di Gili affermava: Vi sto dando l’opportunità di sapere, elaborando un lutto adesso. In “Esterno notte” non è stato possibile».
D: Spesso si sostiene che di fronte a un cadavere si elabora appunto un lutto, ho la sensazione che rispetto a Moro ciò non sia avvenuto
«Hanno voluto che morisse. C’è stata la più grande negazione della verità perciò c’è un fantasma e Gifuni diceva che se questa storia si continua a raccontarla è perché non si è elaborato».
D: Sei un’attrice che si pone delle domande, quando questi grandi maestri non ci saranno più, avverti la responsabilità di fare da ponte?
«Sicuramente. Se ho scelto di entrare in contatto con loro è perché sento qualcosa che è vicina alla mia sensibilità ed è una nostra responsabilità portare avanti tutto questo. Avere il coraggio di farlo perché quello che hanno loro è avere coraggio e non so se adesso ci sono tanti artisti che ce l’hanno. Vuole essere più una domanda, non ho una risposta, però sarebbe bello che questo coraggio si diffondesse più a macchia d’olio».
D: Quali sono i prossimi progetti?
«Ci auguriamo che “Lemnos” venga ripreso nella prossima stagione. Sempre con Giorgina Pi e Bluemotion metteremo in scena “Pilade” di Pasolini, cominciamo le prove a gennaio e sarà in programma all’Angelo Mai e all’Arena del Sole (dal 16 al 20 febbraio 2023)».
Ph cover Adolfo Franzò