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Artisticamente Magazine

Beniamino Marcone: «L’etica di questo lavoro è essere onesti»

Beniamino Marcone: «L’etica di questo lavoro è essere onesti»

Tempo di lettura: 15 minuti

 

«Il cinema e il teatro sono come una droga, ti fanno percepire il mondo in maniera diversa, più profonda fino a non poterne fare a meno, ma senza effetti collaterali». Ci sembrava molto significativo cominciare con questa importante e spontanea riflessione di BENIAMINO MARCONE per introdurvi al confronto con lui, avvenuto partendo dall’ultimo lavoro a cui ha preso parte, “Alfredino – Una storia italiana”, sulla tragica vicenda di Alfredino Rampi (in onda su Sky 21 e 26 giugno 2021). Ha tanta voglia di raccontarsi e condividere il bello, ma anche la fatica che c’è dietro il mestiere che ha scelto e che tanto ama, per cui ci sentiamo di lasciare la parola subito a lui.

D: Nel corso della conferenza stampa di presentazione di “Alfredino” hai tenuto a evidenziare quanto siano importanti gli adolescenti e quanto gli artisti dovrebbero occuparsene. Tu già tieni corsi di educazione presso le scuole; al di là di ciò che già fai, cosa si potrebbe fare concretamente, non solo per gli adolescenti, ma anche per gli adulti, che si sono allontanati dall’idea di andare a cinema e teatro dopo un anno e mezzo di covid?

«Sono ormai anni che mi occupo di tematiche legate all’infanzia e all’adolescenza compatibilmente con il mio lavoro. Ciò che si può fare concretamente è da un lato mettere le politiche legate all’istruzione e alla formazione al centro delle scelte poi come dire economico di un paese come come il nostro, soprattutto in una fase in cui il post covid dovrebbe ripartire proprio dagli adolescenti, che ne hanno sofferto moltissimo – se pensiamo alle chiusure delle scuole, le lezioni a distanza… tutto ciò ha avuto un’impatto psicologico e sociale molto forte. Già nel prossimo futuro è essenziale capire proprio come recuperare il tempo che abbiamo perduto in questi quasi due anni cioè in che modo poter ricostruire il tessuto sociale che gli adolescenti hanno perso. Andando ancora più sul pratico: bisogna cominciare seriamente a dare importanza a tutte quelle azioni che facilitino l’aggregazione tra loro, la possibilità di fare esperienze che a molti sono purtroppo precluse anche per questioni economiche e, partendo dalla scuola, cominciare a fare un lavoro serio di differenziazione ovvero all’interno delle scuole fare in modo che ogni individuo possa, nella maniera più efficace e in base alle proprie caratteristiche, incominciare a capire che non possiamo formare delle persone tutte uguali, ma bisogna dare rilievo ai vari percorsi che si vogliono intraprendere non perché uno sia più importante dell’altro, ma perché gli individui sono completamente diversi. La scuola deve ripartire dalle esigenze del singolo e dare proprio voce a una collettività più varia».

D: Mi auguro che avvenga!

«Esistono piccole azioni che si possono compiere in ogni singolo istituto e comune, che possono attivare percorsi con i più giovani. Ci sono dei comuni che hanno attivato degli ottimi centri, purtroppo sempre in mano al volontariato, al terzo settore; invece tutto questo dovrebbe essere sistematico. È questo che intendo quando affermo di dover porre gli adolescenti al centro perché loro sono il nostro futuro: avere una futura classe dirigente che può contare su una platea più ampia di ragazzi che verrà formata, con opinioni proprie permetterà di avere una classe dirigente più eterogenea e quindi anche più corrispondente alla realtà dei fatti».

D: E magari non come quella di oggi…

«Io ritengo che si tratti di un’importanza storica. Ritornando alle vicende di Vermicino e che Franca Rampi ha voluto sottolineare è che di Aldredo Rampi ce ne sono tanti continuano ad esserci e proprio ultimamente ho letto la notizia di due bambini annegati in un un pozzo in Spagna a gennaio. C’è un’emergenza legata ai più giovani e Alfredo Rampi è stato un po’ la vicenda che tutti conoscono, appartiene alla memoria collettiva; ma casi recenti ci dimostrano quando sia necessario fare tutti i giorni qualcosa che metta al centro sicurezza, formazione, alfabetizzazione, educazione e il gioco: sono elementi fondamentali per la formazione di un ragazzo che poi diventerà un adulto».

D: Questa consapevolezza l’hai acquisita col tempo o ce l’avevi insita in te già dall’infanzia?

«Sì già da ragazzo mi era a cuore. Io vivo in un piccolo paese e, tanti anni fa, non c’era la possibilità di aggregazione, diciamo che l’unica maniera era la strada. Ero protetto da un contesto cittadino molto piccolo, dove tutti si conoscono e dove la protezione è data dall’interfamiliarietà cioè l’adulto di turno dava un’occhiata al figlio e anche a coloro che giocavano per strada insieme. Tutto questo, col trascorrere del tempo, si è disgregato e io ho sentito in maniera molto forte la mancanza di luoghi ‘protetti’, tant’è vero che quando ero al liceo avrei voluto aprire un centro di aggregazione. Non ci riuscimmo. Mi sono sempre chiesto di cosa avessi bisogno io e piano piano questo interrogativo mi ha portato ad avvicinarmi a queste tematiche perché sono esigenze che ho vissuto in prima persona».

D: Se avessi avuto modo di incontrare Marco Fagioli, lo avresti fatto?

«Probabilmente sì. So che tutti noi che non avevamo modo fisicamente di poterlo fare, ci dicevamo che il nostro punto di partenza dovevano essere i libri e le testimonianze scritte. Certo una testimonianza diretta sarebbe stata differente; ma è anche vero che il nostro è un mestiere anche di fantasia».

D: In base alla documentazione e al tuo lavoro di personalizzazione, se dovessi descrivere il tuo Marco Fagioli…

«Sono partito dal libro di Veltroni, “L’inizio del buio”, poi ho allargato alla ricerca anche online, dove si trovano informazioni sul corpo dei vigili del fuoco di Roma, su Elveno Pastorelli (interpretato da Francesco Acquaroli, nda) e il rapporto con Fagioli, che era il suo braccio destro e probabilmente l’unico con cui Pastorelli aveva un rapporto quasi alla pari. Addirittura uno dei dati che abbiamo riscontrato su più fonti è che Pastorelli considerava la sua squadra come una sorta di seconda famiglia e organizzavano spesso anche tornei di calcio, di cui poi Marco Fagioli era responsabile. Parlando coi figli di Nando Broglio (a cui dà corpo Vinicio Marchioni), i quali sono venuti sul set, mi hanno detto che Fagioli è colui che non si sarebbe mai mosso, non avrebbe ceduto un secondo perché – mi hanno raccontato – era proprio una persona estremamente umana.

Beniamino Marcone Alfredino

Ecco il primo aspetto che ho compreso sin da quando ho cominciato a leggere i libri è che queste persone avevano un’umanità fuori dal comune ed è un aspetto molto vivo per chi è nel corpo dei Vigili del Fuoco: chi fa questo mestiere ha una predisposizione naturale su come si affronta il pericolo, con coscienza, ma anche andando oltre le proprie forze. Per me Marco Fagioli doveva partecipare a quello che accadeva in quel momento però con una predisposizione d’animo sempre attiva perché sennò si rischiava di fare qualcosa di scollato da quelle vicende».

D: Trasmette umanità, ma non ha mai dei crolli perché sa che non può permetterseli…

«In quel momento è come se ci sia stata una sorta di trans collettiva: questo salvataggio diventa una sorta di sfida sovrumana e quindi ognuno di loro ha anche commesso errori per questa motivazione. Marco Fagioli prova ad avere il controllo delle operazioni, è un architetto che non è in divisa – l’unico, insieme a Pastorelli a non indossarla, perché la sua è un’autorità che va oltre la divisa. L’umanità esce fuori, secondo me, quando iniziano a capire che le cose non stanno andando per il verso giusto; tutti hanno questo questo crollo e lo si percepisce. Credo che, nella realtà, quei tre giorni siano stati un’altalena di emozioni molto profonde, basti pensare che se ti dicono: tra un quarto d’ora ci dovremmo essere e poi quel quarto d’ora diventa 4 ore immagino il sentimento che chiunque potrebbe provare in una situazione del genere cioè un crollo psicofisico incredibile».

D: Tu sei stato molto bravo nel ‘mascherarlo’…

«Non c’era un aspetto semplice in quelle azioni e vedere sul set la trivella reale, avanzare a una velocità ridicola nei 100m del set, ci ha trasmesso che i tempi che avevano stimato erano davvero troppo positivi. In più c’erano tutte quelle persone intorno e questa è stata una delle difficoltà di girare questa serie: ricreare uno spazio scenico credibile per cui è stato complicatissimo».

Beniamino Marcone Alfredino

D: Immagino… Ho notato le moltissime comparse e il fatto di girarla in un momento in cui bisognava stare molto attenti coi protocolli covid non dev’esser stato facile.

«Eravamo già noi tantissime persone tra attori e tecnici, aggiungiamo dalla prima settimana di lavorazione fino all’ultima non so quante comparse, so solo che nel corso degli ultimi giorni eravamo arrivati a 200-250 persone. A livello di covid significa fare tamponi ogni 2-3 giorni, tenere sempre sotto controllo gli accessi, isolare eventuali casi positivi quindi rifare di nuovo i tamponi. È stata veramente una gestione covid molto complicata e lavorare in situazioni così emergenziali, soprattutto dispendiose economicamente per la produzione, oltre – a volte – proprio i limiti di fattibilità perché noi stessi ci accorgevamo della necessità di una sicurezza, che, però, ha dei costi molto elevati».

Beniamino Marcone Alfredino

D: Quanto avete impiegato a girare il tutto?

«Abbiamo cominciato agli inizi di ottobre e abbiamo finito ad aprile, con una pausa lunga per via del freddo, in quanto è un film che si gira di notte. Avevamo pensato che di notte il tempo sarebbe stato più clemente, in realtà è stato un delirio. Abbiamo avuto seriamente il freddo dell’inverno: eravamo di notte, nella stagione invernale e con abiti estivi, il che diventa praticamente impossibile. Tra un ciak e un altro devi riscaldarti altrimenti rischi di tremare per il freddo mentre giri e perdere così di credibilità. È la lavorazione per me più complicata perché c’era di tutto: la pioggia, il covid, il fango, tutto quello che ci poteva essere.
È stata davvero una sfida, avevamo un campo base enorme e se non ci fosse stato un clima di coesione tra tutti noi non credo che saremmo riusciti a realizzare questo lavoro. Ricordo che ci sono stati dei ciak in cui avevamo difficoltà a parlare; noi così come tutto il reparto costumi correvamo per prendere le coperte e darle alle comparse, in quanto loro erano a mezze maniche e tremavano. Ecco sono saltati anche quegli schemi soliti dei set, eravamo tutti sulla stessa barca. Si è creata una sorta di fratellanza nella realizzazione del prodotto. C’è sempre stato questo intento comune di fare un lavoro oltre e questo è partito in primis da Marco Pontecorvo, il quale non mollava di un centimetro. Lui è un regista che può stare anche nel caos più totale, ma riesce sempre a mantenere una certa lucidità per dire, ad esempio, che aveva bisogno della camera in quella posizione. Quando noti questa attenzione, anche quando tutto intorno le cose non funzionano, e avverti la voglia di perfezionismo automaticamente entri in un ottica lavorativa in cui non puoi buttare via nulla quindi puoi stare anche nel fango, sotto la pioggia, al freddo, ma devi fare il massimo perché non si poteva fare un prodotto finto. È una vicenda talmente sensibile che dovevamo esserci lì, con la testa e col cuore».

D: Ti ringrazio per aver reso così dettagliatamente il dietro le quinte…

«Quando ho affermato in conferenza stampa che questo è un cast di artisti mi è venuto spontaneo in quanto c’era proprio una sensibilità diversa cioè di persone che non avrebbero fatto mai questo progetto tanto per e questo è un valore aggiunto. Ci tengo a sottolineare il lato umano di questo gruppo che si è venuto a creare, di cui non conoscevo nessuno, e sono partito da un momento di grossa ansia se penso alle prime letture in cui mi chiedevo: da dove partiamo? Che cosa facciamo? Poi ci siamo arrivati con il lavoro di squadra.
Su un set del genere devi saperci stare, è un allenamento e qualcuno che è indirizzato verso questa professione dovrebbe frequentare set così per comprendere anche solo cosa significa fare l’attore.

Beniamino Marcone Alfredino
courtesy of Sky

Un regista come Pontecorvo ha dato vita a una messa in scena molto particolare per cui c’era anche la difficoltà di movimenti di macchina, il rapporto con lo spazio, con le comparse, con gli attori e per affrontare al meglio il tutto devi avere già degli strumenti, non è qualcosa che ti possono insegnare in maniera estemporanea. Mi ricordo i segni nel fango.
A distanza di tempo dalle riprese tutto ciò diventa un bagaglio e ti rendi conto che è il valore aggiunto di ciò che hai fatto. Questo non era un lavoro, ma un esserci con tutto noi stessi; non riuscivo a incastrare nient’altro, per me era: set e riposo, cercando di tornare a casa dalla famiglia».

D: Hai parlato anche di approccio etico. Ascoltandoti mi sembra che non l’abbia applicata soltanto rispetto alla storia di Alfredino, ma che sia riscontrabile nel percorso compiuto fino ad ora. Quale valore ha l’etica nel tuo mestiere?

«La parola etica è stata la prima che ho utilizzato quando hanno cominciato a pormi delle domande su questo progetto, però racchiude vari concetti: rispetto, dignità ed empatia che sono elementi fondamentali per me. Non potrei essere me stesso senza questi valori base, che dovrebbero essere alle fondamenta del vivere comune e civile. Ecco perché l’etica di questo lavoro è essere onesti cioè fare se si sa fare, non fare se non si sa fare quella cosa che ti stanno richiedendo o comunque prima di arrivare a realizzarla devi essere consapevole se fa per te oppure no, altrimenti bisogna studiare e poi passare alla pratica. Questo mi ha accompagnato sempre da quando al liceo ho voluto iniziare a muovere i passi in questa professione tant’è vero che ho avuto modo di lavorare prima di formarmi, ma poi son tornato indietro proprio per un un aspetto etico, sentivo un vuoto.
Lo ricerco negli altri come approccio per cui provo a partire da me stesso prima».

Beniamino Marcone Alfredino
Ph Pierluigi Perrone

D: I tuoi primissimi esordi sono stati, quindi, al liceo e poi hai proseguito col collettivo teatrale dell’università?

«Al liceo ho cominciato a fare teatro sempre per lo stesso motivo: nel mio paese era una delle poche cose che potevo fare ed era un modo per evadere cioè grazie a quello poi ho iniziato a viaggiare, però l’ho sempre fatto in un contesto amatoriale. Quando ho iniziato a collaborare con il collettivo universitario sono finito a fare delle piccole cose anche per alcuni teatri stabili quindi già in organismi più riconosciuti ed è stata in quella circostanza che mi sono sentito impreparato cioè perché dovrei avere al mio fianco una persona più titolata e io no? A quel punto ho dovuto compiere una scelta: proseguire con l’università o coltivare l’altra strada?».

Beniamino Marcone CSC
Ph Piergiorgio Pirrone

D: Come mai hai optato per il Centro Sperimentale visto il background teatrale?

«È stato un caso perché io venivo dal mondo amatoriale, dove ovviamente non ti spiegano nulla, ma sei predisposto al ‘fare, fare, fare’; dopodiché vado in una scuola un po’ più strutturata, che, purtroppo, chiude l’anno in cui mi iscrivo io e affianco alla scuola c’era la biblioteca Rispoli, dove trovo il bando di ammissione al Centro Sperimentale, quindi non è stata una mia scelta. Lo leggo e immediatamente ho pensato che avrei voluto provarlo e feci domanda sono lì (spesso si prova a più scuole, nda). Avevo bisogno di fare un percorso, di confrontarmi con persone più brave di me; poi il CSC è diventata la mia casa».

D: Cosa avevi portato per la selezione?

«Ricordo sicuramente un estratto di Ascanio Celestini, proposto in maniera più cinematografica. Ai miei tempi, in un primo momento, assegnavano dei testi loro e poi potevi proporre tu. In commissione c’erano Giancarlo Giannini, Lina Wertmüller e gli interni del CSC che sarebbero diventati i miei docenti».

Beniamino Marcone Prima che la notte
“Prima che la notte”

D: Ripercorrendo le tue esperienze professionali, mi piacerebbe confrontarci su “Prima che la nottediretto da Daniele Vicari, con Fabrizio Gifuni nei panni di Pippo Fava. Qual è il tuo ricordo rispetto a quell’esperienza?

«Di grande divertimento nonostante la tematica e le difficoltà che abbiamo avuto nel girare un film del genere in pochissime settimane; però ricordo il divertimento di gruppo cioè noi sinceramente ancora oggi a Gifuni lo chiamiamo il direttore direttore e lui ci chiama i carusi. Lui era riuscito a ricreare intorno a sé l’esperienza della redazione dei carusi perché sia Fabrizio che Vicari avevano dato in primis una libertà di espressione a tutti. Partivamo dalla loro domanda: voi come la fareste? E questo ci ha fatto sentire che stavamo costruendo insieme il film.

Ognuno di noi ha messo del suo, il mio personaggio nelle prime stesure era molto inquadrato, anche – tra virgolette – più marginale come figura umana. Abbiamo realizzato un vero e proprio lavoro di costruzione, passo dopo passo, in modo da arrivare giù con una sceneggiatura impeccabile.
Quando abbiamo girato la scena della partita di pallone non sembrava che stessimo girando, ma era come se noi avessimo affittato un campetto e dirci: andiamo e divertiamoci. Era uno stare nei personaggi, fare quello che avrebbero fatto loro ovvero essere giornalisti, essere presenti sul territorio, ma parlare delle cose belle, divertirsi, non aver paura di nulla ed essere sfrontati. Sono state sei settimane di estrema gioia e di grande espressione e questo te lo dà la consapevolezza che, tutto sommato, quello che tu facevi anche fuori dal set, era esattamente il mondo che avevano ricreato questi ragazzi: una forma di partecipazione, di critica senza peli sulla per andare alla ricerca della verità, che era un concetto alquanto poco chiaro in una Catania in cui imprenditori volevano ancora la voce in ciò che si scriveva sui giornali locali, non c’era la libertà di stampa né il concetto di libertà di stampa.
Il messaggio che doveva passare era che a Catania non ci fosse la mafia».

D: Il tuo ruolo era quello di Rosario Lanza, ce ne parli?

«In questo caso, rispetto a Fagioli, ho avuto modo di confrontarmi con lui, abbiamo fatto un percorso diverso perché c’è stato dato modo di ritrovare le persone è fare un lavoro di preparazione. Ricordo che mi disse che ovviamente facevano tutte le ricerche sulla mafia, la raccontavano, ma ci tenevano anche a parlare di arte, cinema, sport perché sono cose importanti nella vita. Questo fu illuminante.
Tornando alle scuole, bisognerebbe portare “Prima che la notte” ai giovani delle scuole medie e del liceo e talvolta siamo riusciti a portarlo. Alla fine del film, certo si conclude con un dramma, però, un po’ come nel caso di Peppino Impastato ti rendi conto che quelle idee vanno oltre, vanno avanti. È un lascito verso le generazioni future».

D: Sembri molto legato a questo progetto…

«Tre sono i momenti della mia carriera (fino ad ora) che associo a una grande gioia: “Il giovane Montalbano” perché era la prima volta che mi confrontavo con un personaggio importante e un testo ineccepibile; “Prima che la notte” e “Alfredino”».

D: Sembra quasi un approccio teatrale la richiesta/proposta di Gifuni e Vicari nel domandarvi: voi come la fareste? (approccio non tanto comune)

«Loro cercavano la verità, se in scena dobbiamo andare noi, piuttosto che calare delle istruzioni dall’alto, ti chiedi come si muoverebbero questi giornalisti in questo ufficio, che cosa farebbero e così costruisci insieme. Abbiamo vissuto a Catania per tutto il tempo delle riprese quindi fuori dal set continuavamo a fare gruppo e ad andare in giro e sorgevano idee anche in quelle circostanze. Era un continuo stare in quella situazione».

Beniamino Marcone Prima che la notte
“Prima che la notte”

D: Si ha quasi la sensazione che fosse una scuola nella scuola (non in senso sminuente della professionalità)…

«La scuola è il luogo dove ti puoi permettere di sbagliare e dove costruisci. Lì era così, c’era anche quell’incoscienza di andare fuori per strada e prendersi in giro come avrebbero fatto loro. È stato un lavoro di un grande divertimento, serio però».

D: Nell’incontro con Lanza c’è stata una frase ‘illuminante’?

«Lui colse un aspetto fondamentale che spesso tocca gli attori che devono interpretare qualcuno che esiste e mi disse: “Non avere paura perché noi eravamo giovani, incoscienti e nonostante avessimo le nostre mansioni all’interno della redazione, poi c’era la vita, i rapporti cambiavano. Non devi effettuare una ricostruzione, devi sentire che cosa faresti tu poiché io un giorno parlavo di sport e in un altro di mafia”.
Le vicende storiche le sappiamo, di libri su Fava ce ne sono e poi… ci sono le persone, che sono varie, pensano cose diverse da un giorno all’altro e questo fu importante».

D: Pensando alla pluralità di talenti di Fava e alla nostra contemporaneità, a tuo parere l’attore oggi deve ampliare di più il proprio spettro?

«Secondo me ci sono due aspetti: uno lavorativo e pratico -ovviamente più sai fare più sai collocarti, nel corso degli anni ho imparato a montare e poi ti ritrovi anche come attore perché capire minimamente come funziona la macchina fotografica ti serve anche quando stai sul set. Ho girato come co-regista, ho realizzato dei documentari, ho fatto il producer e questo mi ha permesso di lavorare.
Poi se tu mi chiedi se un attore dovrebbe ‘per forza’ fare questo, mi viene da rispondere di no e che dovrebbe allargarsi a ciò per cui si sente più affine. Io provo, ad esempio, a buttar giù delle idee, ma sono consapevole che se avessi bisogno di scrivere una sceneggiatura avrei necessità di qualcuno che possiede quella specifica competenza – ci vogliono un’onestà e un’etica anche in questo».

D: La tua generazione, soprattutto sul piano teatrale, non ha avuto modo di incontrare alcuni grandi maestri. Prima parlavi del tuo impegno coi ragazzi, ti senti un ‘maestro’?

«Quando incontro i ragazzi mi piace parlare del mio lavoro, trasferire dei valori e non importa il tempo che richiede, lo faccio perché è importante. Non mi reputo un maestro, se posso darti degli input ci sono. Io, i miei maestri, li ho riconosciuti sempre dopo e mi rendo conto di quanto mi abbiano dato delle persone nella mia formazione».

D: Potresti farci un esempio rispetto ai maestri di cui ti sei reso conto dopo?

«Non ci sono nomi, potrei dirti il mio primo professore di inglese, una persona totalmente fuori dagli schemi, il primo che a 11 anni ci portò in Inghilterra e mi fece scoprire la possibilità di un incontro con culture diverse. È stato anche colui che mi ha incoraggiato nel seguire la mia strada. Lui aveva tecniche e modalità di insegnamento tutte sue; realizzavo questi temi scarabocchiati e l’insegnante mi dava un’altra possibilità di sonno in brutta copia e scrivo tanto».

Beniamino Marcone Alfredino
“Alfredino – Una storia italiana” – courtesy of Sky

D: Salutiamoci dando appuntamento ai tuoi prossimi progetti

«In estate ho realizzato “Gli anni belli”, una commedia con protagonisti la Cucinotta e Bruschetta, non so quando è prevista l’uscita in sala visto l’ingorgo che si è creato a causa del covid. È stato girato completamente tra Roma e Calabria.
Per quanto riguarda la serie “House of Gucci” diretta da Ridley Scott vige il massimo riserbo, posso solo dire che il mio ruolo consiste nell’interpretare il commercialista di Jared Leto».

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