BERNARDO CASERTANO è entrato nelle nostre case, in particolar modo, grazie a serie e film tv ed è grato di questo. Quando si dialoga con lui, però, non si può non sentire l’amore per le tavole del palcoscenico e l’incontro dal vivo con quel ‘tu’ che lo attende per ‘incontrarsi’. «Credo che il teatro abbia la magia dell’essere fugace: crea quell’attimo per cui dopo non esiste più e rende quest’arte così momentanea diventa un privilegio sia per l’attore che per lo spettatore che esiste con lui perciò è ineguagliabile».

Giovedì 29 dicembre lo ritroviamo in un film per il piccolo schermo, “Una scomoda eredità”, che conclude il nuovo ciclo di “Purché finisca bene”. Al centro due donne: Diana (Euridice Axen) e Gaia (Chiara Francini), le quali devono fare i conti con il lutto di una verità, scoperta in maniera brusca a causa della scomparsa dei rispettivi genitori.
Casertano e il suo Filippo in “Una scomoda eredità”
D: È interessante vederla alle prese con un ruolo più leggero e che, al contempo, trasmette dei valori
«Sì, è un po’ più alla portata rispetto ad altro per cui mi ha permesso anche di sguazzarci dentro. La regia di Fabrizio Costa – sono al quarto progetto con lui – mi ha dato l’opportunità di sentirmi tranquillo dentro un ambito che, di per sé, è già ‘comodo’, trattandosi di un personaggio meridionale, abbastanza solare, con una propria profondità che trasmette a Diana, sempre a suo modo. Fabrizio mi ha lasciato libero, ho potuto inserire nella mia interpretazione un po’ di dialetto napoletano».
D: In una battuta, il suo personaggio, rivolgendosi a Diana, sottolinea una debolezza in cui lo spettatore potrebbe rispecchiarsi come la rimozione e la donna controbatte: «È vero che i genitori non li conosci mai abbastanza, ma non pensavo fino a questo punto».
«Si tratta della scena al meraviglioso faro di Carloforte. Le parole della sceneggiatura le ho portate in parte verso il mio pensiero, non solo per Filippo, ma anche per Bernardo rimuovere non sempre aiuta. La mia filosofia di vita è quella di ascoltare l’altro e se stessi, studiare e accettare quello che siamo, ciò che ci viene proposto può essere il modo per attraversare meglio anche noi stessi».
D: Inizialmente si parla delle aspettative dei genitori, questa donna si interroga se abbia fatto la dottoressa perché ci tenesse lei e, probabilmente, in molti ci siamo posti queste domande… accorgendoci, crescendo, che anche un genitore possa deludere.
«[Decide di rispondere raccontando qualcosa di personale perché lo ritiene giusto e lo ringraziamo per questo] Sono figlio unico, i miei genitori erano persone semplici, con dei principi sani. Avrebbero voluto un figlio laureato proprio perché non lo erano, quindi la dinamica del cercare per tuo figlio ciò che non hai avuto. Mamma l’ho persa quando avevo ventisei anni, mi ha indirizzato in maniera abbastanza decisa verso gli studi classici. Con papà non ho mai avuto un grande rapporto fino a quando, tre anni prima che venisse a mancare, ha avuto un’ischemia che gli ha tolto tutti i freni inibitori, innescandogli qualcosa per cui si è palesato per ciò che è sempre stato e che, per tante ragioni, non ha mai fatto vedere. È diventato il bambino che ho tanto descritto in “Charta” (ne parliamo più avanti anche, nda): quei tre anni sono stati quelli del padre migliore che abbia mai avuto. Mi ha raccontato delle sue fantasie, mi ha chiesto del mio lavoro – e non l’aveva fatto prima. Non c’è un manuale per essere padre o madre, semplicemente creare delle aspettative dà vita a un bagaglio pesante da portare per il figlio e, a volte, anche per la figura genitoriale. Sono sempre per la libertà, l’ascolto, cercare di capire quali sono le volontà dell’altro perché i tempi cambiano così come mutiamo noi. I miei non si sarebbero mai aspettati che un giorno sarei stato un attore, eppure è successo. In quei tre anni era fiero che lo fossi, diceva alle infermiere: mio figlio è un attore».
Bernardo Casertano ci racconta il suo mondo teatrale

D: Pensando al teatro – l’ambito e la ‘casa’ che maggiormente frequenta – è un peccato che i suoi lavori non siano arrivati ancora in una piazza così attenta come Milano
«[Dalla voce si avverte il suo rammarico e allo stesso tempo si augura che avvenga] Sì, sono stato in scena a Roma ultimamente (nel dicembre 2022 al Fortezza Est, nda) e partecipo a diversi festival, ma non è ancora capitato di calcare un palcoscenico milanese, anche se teatralmente è una città molto viva. Ci sono dei colleghi che stimo tanto, come Roberto Latini, il quale ha potuto farsi conoscere (toccando diversi teatri del capoluogo lombardo fino alle produzioni col Piccolo, nda). Mi sono anche formato con lui, mi ispiro alla sua poetica, la condivido e mi trasmette spunti interessanti».
D: Durante il lockdown ha sofferto della chiusura dei teatri?
«Sì, anche se teatralmente capita di restare fermi – ci si fa i conti e ci si costruisce una corazza. Ricordo momenti in cui ero in scena con tre spettacoli contemporaneamente e poi per tre/quattro mesi non fai nulla. Questo avviene soprattutto per chi fa teatro contemporaneo, dove c’è un po’ di ricerca e di conseguenza è meno fruibile del teatro di prosa (per quest’ultimo ci sono maggiori piazze). Recentemente ho portato in scena “Charta” (conclude una trilogia, nda), in cui sono stato ispirato dalla figura del padre, infatti è un mix tra il padre di “Affabulazione” di Pasolini e Pinocchio in veste di padre prima che diventi bambino, suggestionato da quello di Carmelo Bene – quest’ultimo, nella sua trasposizione osanna il Pinocchio burattino perché non è stato ancora indottrinato dagli adulti, è scevro da sovrastrutture, pulito. Mi sono assunto dei rischi investendoci in prima persona, però ho avuto un ottimo riscontro. Quando si affronta un testo – ancor più se noto – ritengo che bisogna offrire il proprio punto di vista (lo dico anche come spettatore).

Mi approccio così soprattutto in teatro, ad esempio ho lavorato su “Caligola” di Camus e ho dovuto tenerlo a distanza semplicemente perché si tratta di una materia così potente e preziosa che, onestamente, non mi sentivo all’altezza di affrontarlo come molti avrebbero immaginati. Chiunque legga quel libro riceve da sé le suggestioni. Generalmente parto sempre con una domanda, a cui non fornisco una risposta perché non ce l’ho e spero sempre che da quella proposta sul palcoscenico nascano altri interrogativi. La gratificazione maggiore per me è quando il pubblico, partendo da ciò a cui ha assistito e partecipato, trae lo spunto per creare dei propri interrogativi: quello per me è il senso dell’arte. Chi fa il mio mestiere deve rimettere in discussione tutto, comprese le certezze.
In merito al tasto della distribuzione non è semplice, ci sono tante dinamiche… Cerco di fare il mio lavoro nel miglior modo possibile, certamente se viene apprezzato e divulgato sono – e sarei – ulteriormente contento».
D: Ha accennato ad alcuni punti di riferimento, abbracciando sia lo spettacolo dal vivo che i progetti per piccolo e grande schermo, quali sono le domande che più le hanno rilanciato le persone con cui ha lavorato?
«Ritengo che quando la strada che percorro è la più complessa allora forse è quella giusta. La prima a cui penso, maggiormente alla mia portata, la escludo sempre a priori. Mi sono accorto che, quando mi è capitato – e capita – di lavorare con un regista che effettivamente mi ha messo in crisi (il che è propedeutico alla crescita), l’ha sempre fatto facendomi scegliere una via più difficile rispetto alla mia. Fabrizio Costa ha una dote che lo rende un grandissimo professionista: ha un occhio che abbraccia completamente l’attore in quel momento, anche la schiena, e, malgrado non sembri, la sua radiografia porta a farti guidare in maniera sana. Molte volte mi ha destrutturato come, nel caso, di “Luce dei tuoi occhi” (serie targata Mediaset), in cui interpreto un personaggio completamente differente da me: è un assessore, preciso, nella prima stagione mi avevano pettinato per restituire una specifica immagine; nella seconda mi è stato permesso di lasciare la barbara incolta. Lui mi fa compiere determinati percorsi e arrivo dove vuole lui, magari ci sarebbe stata un’indicazione che mi avrebbe portato in maniera più semplice, ma mi rendo conto che si tratta di un’esperienza e servirà anche in futuro.
Mi ritrovo a parlare spesso di teatro perché è ciò che ho frequentato e frequento maggiormente sia come professionista che come spettatore. Anche quando vado in questa seconda veste, durante i primi minuti mi chiedo quanto durerà, poi arrivo alla fine e mi ritrovo a ‘spellarmi’ le mani per applaudire ed è meraviglioso quando durante la rappresentazione mi fai cambiare idea. Da quando ero piccolo, come tutti i bambini, ho sempre amato le sorprese e, ancora adesso, quando lavoro, amo essere sorpreso, non imparo mai benissimo la mia parte, lascio sempre qualcosa per tenerla un po’ più fresca o per lasciarmi la libertà di destrutturarsi qualora dovessero mutare le cose in corso d’opera».
D: Questo sia quando è scritturato sia quando si auto-dirige?
«Sì, in entrambe le circostanze. Ho imparato a mie spese, da un provino andato male, che non era andata bene perché facevo esattamente il ‘compitino’, ciò che richiedeva il regista. Il mestiere di noi attori è portare il nostro, sempre. Preferisco sbagliare e rischiarmela così».
D: Parlavamo di Roberto Latini, durante la II edizione del Ginesio Fest ha tenuto una masterclass, introdotta da queste parole di Vinicio Marchioni (co-direttore artistico insieme a Milena Mancini nel 2021): «Roberto Latini è stato con me quando ho diretto “Zio Vanja”, la mia prima regia di una determinata portata su un testo così. Ha trovato il tempo di venire qualche ora a Roma dove provavamo e mi ha detto una delle cose più importanti che porterò sempre con me: “Sbaglierai. Sbaglia come dici tu” e questo mi ha aperto la mente, l’anima e mi ha fatto sbagliare come dicevo io. Roberto Latini è stato in ogni scena che ho fatto (si riferisce anche a piccolo e grande schermo) perché mi ha insegnato la libertà, che era qualcosa che non avevo prima come attore, mi ha trasmesso la leggerezza e a essere qui e ora senza rete»…
«È il messaggio generale di tanti artisti del passato se pensiamo anche a Beckett il quale affermava: “Fallisci ancora e fallisci meglio”. Sono d’accordo con queste parole di Vinicio. Con Roberto siamo amici, lo seguo nei suoi spettacoli, mi fa piacere condividere questo aneddoto: quando vado a vederlo, lo aspetto per salutarlo e noto che gli interessa sapere cosa ne penso. Nel caso di “Venere e Adone” io ne ero entusiasta perché aveva rischiato ancora di più di altre volte (come una carta che lo contraddistingue: l’uso del microfono e della voce) e amo gli attori che in scena si rendono fragili – torna il punto del non avere la rete. Sentirmi dire da Roberto: “È un po’ diverso questo spettacolo, ci hai fatto caso?” con una fragilità per un artista che stimo tanto e che trovo così interessante, mi commuove, mi fa pensare: esiste chi muove l’anima quando lavora».
D: Avendo lavorato anche con Giancarlo Sepe, immagino che il suo sia un tipo di teatro che lavora sia sulla voce che sul e col corpo
«Ammetto di avere una ‘deformazione professionale’, talvolta mi interessa più il corpo della voce – non mi riferisco al suono, ma mi capita di avvertire delle parole in eccesso rispetto a tutto il resto. Penso che uno spettacolo sia come un abito, se metto troppi indumenti addosso rischio di soffocare, molto spesso ciò che si fa col corpo è talmente espressivo. Giancarlo Sepe, la stessa compagnia di Emma Dante, Sabino Civilleri, Manuela Lo Sicco ed Ersilia Lombardo della compagnia Sud Costa Occidentale, che appartengono alla mia formazione, erano tutti incentrati sul corpo, che lo si può ‘usare’ in maniera poetica o portarlo allo stremo delle forze per ottenere qualcosa: è una scelta».
D: In occasione della trilogia conclusa con “Charta” come direbbe di aver adoperato il corpo per raggiungere il piano di comunicazione con lo spettatore e, al contempo, toccare il filo da funambolo?
«Adesso avviene in automatico, è un po’ come un pianista si siede e le mani vanno da sole. In questo spettacolo lavoro con sagome di carte, una di queste le faccio danzare soffiandoci sopra, nello stesso tempo il mio corpo compie le stesse azioni in parallelo [Non vogliamo aggiungere altro perché ci auguriamo che “Charta” venga ripreso e arrivi dove non è stato ancora programmato]».

D: Crede che lei e chi sperimenta in tal senso siete riusciti a creare un dialogo con gli spettatori?
«C’è un esempio di un attore che stimo tanto, il quale è riuscito a coniugare magistralmente il linguaggio della tradizione con l’innovazione. Mi riferisco a Lino Musella e in “Tavola tavola, chiodo chiodo…” mantiene la linea della tradizione con un linguaggio contemporaneo. È un artista».

D: Riesce a ‘eleggere’ un suo padre artistico?
«Un regista mi disse una frase che mi colpì: “I geni, gli artisti enormi vanno presi, abbracciati e superati”. In virtù di questo credo di averne tanti e di molti ne abbiamo parlato. Leo de Berardinis e Carmelo Bene sono state le figure che hanno segnato tanto degli artisti, i quali, a loro volta, hanno segnato me. È come se mi avessero concepito in tanti… Nekrošius l’ho ammirato tanto: è stato il precursore di qualcosa che, secondo me, non si è riusciti a raggiungere; un altro enorme è Ostermeier».
D: Cosa pensa che non sia stato colto di lei fino ad ora, soprattutto durante i casting?
«Dietro la macchina da presa mi manca riuscire a sperimentare come riesco a farlo in teatro. Davanti all’obiettivo mi è sempre capitato di dover tenere una sorta di ‘educazione’ che fa in modo che non riesca a ‘sbagliare come vorrei sbagliare io’. Mi piacerebbe avere un ruolo più ampio come raggio d’azione per poterlo argomentare come riesco a fare sul palcoscenico».
Ph cover Piergiorgio Pirrone