«Roma non è una città come le altre. È un grande museo, un salotto da attraversare in punta di piedi», affermava con grande acutezza il grande Alberto Sordi.
Il nostro invito consiste nel seguirci in un viaggio che ci auguriamo vi sorprenderà così come è capitato a noi. Se arrivate in treno (qualora abbiate un po’ di dimestichezza già con la città individuerete immediatamente), da Termini, la centralissima via Cavour la si scorge facilmente così come il palazzo in stile razionalista del BETTOJA HOTEL MEDITERRANEO (essendo ad angolo è ancora più visibile). Intravederlo dalla stazione trasmette una sensazione di ‘casa’, di aver già raggiunto il posto che è pronto ad accoglierci.
L’Hotel Mediterraneo è vincolato dal Ministero dei Beni Culturali per il valore storico e architettonico, da lontano, se si passa distrattamente o frettolosamente e, soprattutto, se non lo si conosce, non si può immaginare il mondo di storia e arte che racchiude al proprio interno. Il tutto arrivato sino ad oggi grazie all’impegno costante della Famiglia Bettoja.
Bettoja Hotel Mediterraneo: a spasso nel tempo e nell’arte
Sappiate che sin dall’ingresso nella hall state per compiere i primi passi nel tempo poiché ci si ritrova in un ambiente originale anni ’40 con lussuosi arredi, lampadari e lampade disegnati da Giò Ponti.
Parlavamo di stile razionalista in quanto è stato progettato nel 1938 dall’architetto Mario Loreti (ha progettato diversi palazzi di corso Trieste, via Chiana, piazza Bologna e a Varese la Casa del Fascio) e, come suggerisce il nome, il tema del mare è presente in tutto l’albergo con grande sofisticatezza. Rimanendo incantati, perché vi sembrerà di essere in un’altra epoca o in un film, non potrete non notare sopra gli ascensori (la famiglia è stata tra i primi a inserire gli ascensori) i mosaici raffiguranti rispettivamente la partenza e il ritorno di Ulisse ed è proprio prendendo esempio da Odisseo e dalla sua curiosità (nell’accezione positiva) che vogliamo cominciare a esplorare questo autentico esempio di Art Déco nel centro della capitale.
Bastano pochi gradini tra i due ascensori che si passa la soglia della sala Camino. Si vorrebbe avere idealmente la bacchetta magica per trasformarsi con gli abiti adatti ed esser degni di sedersi sulle poltrone di velluto. Adiacente si trova (in uno spazio attiguo, aperto) la sala della Mappa con, a sinistra, la “Mappa – a tutta parete – del Mar Mediterraneo” in tempera su pergamena con ai bordi la firma dell’autore Achille Capizzano (suo anche il grande mosaico della “Caccia al cervo” nella Sala Ristorante); sulla parete destra “L’Allegoria della scrittura attraverso la storia”, con intarsi perfettamente conservati.
Dietro le colonne, quasi a voler nascondere un gioiellino, fa capolino il “Bar 21” (definirlo tale è riduttivo e pian piano scoprirete perché, oltre a riconoscerlo), realizzato, da Loreti e Franco D’Urso, in cristallo Venini. Da notare che, pur essendo stato costruito nel ’38, restituisce un aspetto futuristico.
Sulla parete sinistra (guardando il banco) è intarsiato un rebus ancora da decifrare.
Ogni passo si compie su qualcosa di pensato (dal pavimento) e porta verso l’arte. Fate attenzione alla sala delle Polene utilizzata per le colazioni perché anche qui ci sono delle chicche da notare: tritoni e sirene scolpiti nel legno di quercia e al centro due grandi lampadari sormontati da sirene e lanterne pronti a suggerire la via ai naviganti.
L’Hotel Mediterraneo è alto ben 50 metri, consta di 11 piani e 242 camere. A unire la hall fino al decimo piano un’altra opera letteralmente mastodontica, oggetto ancora di studio: la grande scalinata di marmo formata da grandi blocchi monolitici. La peculiarità consiste nel fatto che siembrino sospesi nel vuoto.
Se la osservate da sopra resterete senza parole di fronte a tanta ingegnosità; eppure sappiamo, sin dall’antichità, come alcune opere resistano ancora oggi; in questo caso ci troviamo di fronte a ‘geni’ ed esperti dell’architettura.
Vi starete domandando cosa si trovi all’ultimo piano e vi accontentiamo subito, un’altra perla: il “Ligea Lounge Bar”, che, forte della posizione (siamo sulla cima dell’Esquilino, il colle più alto della capitale), regala una visione quasi a 360°, dall’Eur al Vittoriano, con un dettaglio che evidenzia il Vaticano.
Ci si sente quasi frastornati di fronte a tanta bellezza, ci auguriamo che ci stiate prendendo in parola in quanto la penna vive dei ricordi vissuti a primo impatto e del racconto appassionato e preparato della responsabile marketing.
Prima di proporvi la nostra conversazione con il presidente, Maurizio Bettoja, ci preme sottolineare un aspetto di resistenza e l’approccio di chi si pone a servizio del cliente di turno. Anche durante il periodo più duro della pandemia, la famiglia Bettoja ha deciso di tenere aperte le proprie strutture (L’Hotel Massimo d’Azeglio e lo storico omonimo ristorante e, all’occorrenza, l’Hotel Mediterraneo e l’Atlantico). Il tutto per continuare a esserci per chi aveva necessità di soggiornare in città per lavoro e, di conseguenza, questo ha comportato anche che i professionisti interni continuassero nelle proprie mansioni, magari con un numero ridotto di personale o alternandosi.
«Nei nostri 160 anni di storia e di attività non abbiamo mai chiuso, neanche durante le due Guerre Mondiali. Ci sono persone che dovevano rientrare nel loro Paese e non riuscivano, personale che deve venire a Roma perché lavora nel settore legato alla sanità. Una scelta spinta dalla tradizione».
Intervista al presidente Maurizio Bettoja
«La sovrintendenza l’ha definita una ‘Pompei degli Anni Trenta’ in quanto la progettazione cominciò nel ’35, quando si seppe che si stava preparando l’E ’42 (la mostra per il ventennale del regime), l’albergo venne inserito nel piano di fabbricazione dell’Eur con l’intento di renderlo ancora più grande – infatti fu espropriato un edificio vicino così da poterlo allargare – e, al contempo, si voleva demolire il Massimo d’Azeglio e ricostruirlo sulle stesse linee architettoniche, ma con un cortile aperto verso la strada. Inoltre la stazione era stata buttata giù e arretrata, avrebbero dovuto ricostruire la facciata, ma si concentrarono sulle due ali laterali».
Va da sé che essendo in corso la Seconda Guerra Mondiale non aprì ufficialmente nel 1942.
D: Stiamo dialogando con alle spalle proprio questo splendido “Bar 21”…
«Effettivamente attrae tantissime produzioni cinematografiche. Una volta, per curiosità chiesi se convenisse alla produzione e mi risposero spiegandomi tutto il dietro le quinte per ricostruire un ambiente del genere per cui capì quanto fosse maggiormente conveniente affittare un ambiente già esistente».
D: Esiste un aneddoto, in particolare, che le viene in mente?
«Il nostro lucidatore e restauratore, mentre effettuava la manutenzione dei mobili delle camere dell’epoca, a un tratto, notò delle scritte in alcuni cassetti, che attualmente stanno studiando».
D: Sia l’Hotel Massimo d’Azeglio che il Mediterraneo sono stati occupati prima dai fascisti e dai tedeschi e poi da inglesi e americani. La responsabile marketing mi ha accennato al vostro gesto generoso, le andrebbe di approfondire?
«Al momento dell’emissione delle leggi razziali, attraverso una certa pratica, per ‘salvarsi’, molti politici diventarono ariani continuando ad andare in sinagoga. La voce si diffuse e così in molti cercarono di avviare la procedura presso il Ministero dell’Interno. Quando sono arrivati i tedeschi (a cui era noto ciò che si stava facendo, anzi Hitler lo riteneva disdicevole), in primis andarono presso il Ministero, dove trovarono le liste con nomi, cognomi, indirizzi e che li portò alla ‘caccia all’uomo’ casa per casa. Cominciò la loro fuga. L’albergo Massimo d’Azeglio era requisito per metà dai militari tedeschi (i quali pagavano la camera); l’altra metà era riservata ai clienti ‘normali’. Mio nonno ha aiutato sia ebrei che militari in fuga, alloggiandoli nelle camere a fianco degli ufficiali tedeschi pensando, giustamente, che questi ultimi non avrebbero mai immaginato che accanto a loro ci fosse un ebreo [lo ricorda con emozione, grande umiltà e dignità, il presidente non ne vuole fare un vanto, ne parla se glielo si chiede, ma anche in questo si dimostra riservato].
Inoltre, sotto, è presente un rifugio antiaereo».
D: Qual è il valore che maggiormente porta con sé della sua famiglia e che vorrebbe trasmettere?
«Il senso della tradizione, della famiglia e della continuità, dove possono avvenire dei mutamenti, ma restino saldi unione, lealtà e identità della nostra famiglia».
D: Come descriverebbe questa identità?
«Non è semplice… direi attaccamento alle tradizioni e alla nostra storia familiare, il riconoscersi come un gruppo e la dirittura morale dei nostri anziani».
D: Sono valori importanti da conservare e tramandare, che purtroppo sembra che si stiano perdendo…
«Purtroppo ognuno pensa a se stesso e al proprio divertimento perciò sono valori che vanno tutelati insieme all’amore per l’arte e per la bellezza. Noi ci impegniamo a conservare tutto ciò: il nostro falegname è quasi più un ebanista; per i mosaici abbiamo incaricato una restauratrice molto preparata, la quale è riuscita a identificare il grande mosaico del San Giorgio».
D: Anche il ristorante pullula d’arte…
«Vi è una raccolta di quadri risorgimentali visto il nome dell’albergo. Non sappiamo come mai sia stato intitolato così, l’unica ipotesi che posso fare è che il mio trisnonno, il quale era nella capitale nel 1830-40, abbia conosciuto Massimo d’Azeglio – questi era molto popolare all’epoca, è stato un grande pittore, di cui ho voluto acquistare un quadro e tre disegni».
D: Saltano all’occhio anche le formelle…
«Tramite un’amica, Irene De Guttry – grande specialista del Déco in Italia – le ha abbiamo attribuite a Biagini. Io avevo pensato che fossero opera di Cambellotti in quanto gli animali presentano questo senso di forza (una cifra dell’artista), in più notai la sua firma: le tre spighe.
Purtroppo non abbiamo archivio sull’Ottocento, ma dai ricordi delle mie prozie, so che il ristorante fu rifatto subito dopo la Grande Guerra. Ci dispiace aver perso la decorazione delle pareti, nel medesimo stile di Biagini».
D: Chi l’ha colpita maggiormente tra le personalità ospitate?
«È avvenuto più al d’Azeglio essendo stato aperto nel 1878. Ricordo un anziano amico, un Gaggia, il quale mi riferì come lì potesse scendere anche una signora da sola poiché l’hotel era considerato molto rispettabile. Hanno alloggiato anche Coppi, con la famosa dama bianca, in camere separate, così come il re del Montenegro (suocero di Vittorio Emanuele III) o ancora i Pink Floyds andavano al bancone del d’Azeglio perché era l’unico che con dodici mila lire bevevano a oltranza.
Nonno, inoltre, è stato uno dei pionieri in Italia poiché ha cominciato a volare nel 1911, quando ancora esisteva il campo di volo di Centocelle, perciò era amico di tutti i piloti di allora come Baracca e Galotti, che possiamo annoverare tra i nostri ospiti. Tra gli artisti ci piace ricordare Pier Paolo Pasolini al Mediterraneo».
D: Quanto ci vorrà per tornare alla normalità?
«Mi auguro con la primavera 2022, anche se si naviga a vista. È stato un impatto tremendo, inimmaginabile».
Il nostro auspicio è che a questo punto del viaggio vi siate resi conto di come storia personale, la storia con la ‘S’ maiuscola, arte, tradizione e voglia anche di (r)innovarsi s’intreccino.
Le camere che abbiamo potuto visionare (oltre a provarne direttamente una premium, in cui tutto era curato nei dettagli, non solo sul piano estetico, ma anche della funzionalità e dell’accoglienza, offrendo un riposo molto confortevole sia dal punto di vista della scelta di materasso e lenzuola, ma anche del silenzio nonostante si affacciasse su via Cavour) vanno esattamente in questa direzione.
IL RISTORANTE MASSIMO D’AZEGLIO
Coerente è la proposta del ristorante Massimo d’Azeglio (attualmente a Roma è uno dei pochissimi ristoranti storici fine ’800 ed è membro dei Locali Storici d’Italia), in cui la tradizione della cucina romana, viene proposta fedele a se stessa, ma con degli spunti di creatività che lasciano il segno.
Intervista allo chef Antonio Vitale
D: Partiamo proprio dalla cena degustata presso il ristorante Massimo d’Azeglio…
«L’entrée sono state le uova bio con il ripieno di formaggi morbidi – questo è un mio cavallo di battaglia che porto con me da diverso tempo. A cui sono seguiti tonnarelli Cacio e Pepe in una versione leggermente rivisitata (vi assicuriamo che la tradizione romana è assolutamente rispettata, se non esaltata, nda) e come seconda portata la millefoglie di porchetta – ci tengo a dire che realizziamo noi la porchetta – con sopra la provola sciolta e accompagnata da cicorie ripassate». Il tutto si è concluso con una generosa scelta di dessert.
D: Cosa significa per lei rivisitare?
«Io mi approccio utilizzando delle tecniche innovative come possono essere le cotture a bassa temperatura, ad esempio nel piatto tonnarelli, guanciale e carciofi, l’ho adoperata per questi ultimi poiché rende la fibra maggiormente morbida. La cucina è fatta di vari tentativi: provi e riprovi, cercando i giusti ingredienti che vadano ad equilibrare il tutto».
D: Chi sono i primi a ‘testare’ le nuove creazioni?
«La proprietà, il più delle volte nella persona del presidente; in altri luoghi lo provavano la brigata e certo anche il direttore degli alberghi in cui sono stato».
D: Oltre all’uovo biologico, ci sono altre creazioni che la rappresentano in particolar modo?
«I fiori di zucca e il maialino cotto a bassa temperatura, dove, dopo diversi esperimenti, sono riuscito ad arrivare ad ottenere la crosta sopra e la giusta morbidezza all’interno».
D: Mi ha colpita la scelta di abbinare anche il vino biologico…
«L’abbiamo condivisa col maître. Io non lo conoscevo, mi ha fatto entrare lui in questo mondo e, studiando insieme gli accostamenti, abbiamo deciso di inserirlo nella carta. Oggi, con tutte le modifiche che vengono apportate, le persone non sono più abituate a sentire i sapori perciò è importante trasmettere l’artigianalità dietro cui c’è sempre preparazione».
D: Come ha compreso che la cucina era la sua vocazione?
«Da piccolo, stando sempre con mia nonna, in particolar modo di domenica, è cominciata questa passione, sentendo il profumo del classico ragù alla napoletana e osservando con quanta dedizione lo preparasse sin dalla mattina. Ho iniziato molto presto a lavorare, prima nei fine settimana in un ristorante vicino casa mia, poi sono andato fuori regione con delle stagioni a Cortina d’Ampezzo a cui ha fatto seguito un percorso di ristoranti stellati. In questo iter ho compreso il valore del sacrificio, che mi auguro arrivi ai ragazzi che si approcciano oggi a questo mestiere. Sono stato fortunato nell’aver incontrato sia la vecchia che la nuova scuola, rapportandomi con grandi maestri come Franco Luise e Carlo Valeri. Mi hanno influenzato ognuno a proprio modo: il primo rispetto all’organizzazione della cucina e ad alcune tecniche di cottura; lo chef Valeri l’ho seguito per circa tre anni e mi ha trasmesso l’importanza di apprendere in tutte le sezioni della cucina.
A un tratto ho deciso anche di andare all’estero, nello specifico a Lisbona presso il Belmond Hotel, con la stessa compagnia sono stati al Caruso a Ravello; successivamente sono approdato a Venezia presso l’Hilton Molino Stucchi curando l’apertura del ristorante Aromi. Dopo l’esperienza a Malta presso Palazzo Parisi, ho deciso di tornare a Roma, dove ho lavorato per sette anni all’Hotel d’Inghilterra fino ad arrivare al Bettoja».
D: Cosa pensa di aver assorbito dalle esperienze estere? Sorge spontaneo pensare anche alle spezie…
«Io le utilizzo moltissimo soprattutto nella marinatura sia di carne che di pesce. L’estero, come cultura, ti induce a usarle nella ricerca sempre dell’equilibrio; ad esempio in Portogallo utilizzano tantissimo il coriandolo».
courtesy of Bettoja Hotels
D: Lei adesso rappresenta una cucina che fa parte, in qualche modo, di una famiglia e di una storia importante, di quanta responsabilità ‘la carica’?
«Sì stiamo parlando di una famiglia storica piemontese che, da tre generazioni, si è trasferita a Roma. Sono persone splendide e per me è stata una novità poter avere il contatto diretto con la proprietà. Si è verificata una crescita anche nell’evoluzione del ristorante – prima era aperto anche il ristorante presso il Mediterraneo (temporaneamente chiuso a causa della crisi dettata dalla pandemia), dove proponevamo una cucina maggiormente creativa. Ad oggi sono molto soddisfatto del lavoro compiuto e direi che esiste ancora un margine di crescita, indotto dalla stessa famiglia, che è la prima a voler investire nelle materie prime e a voler stare al passo coi tempi».
D: Il Massimo d’Azeglio è rimasto aperto nel corso di questo periodo così difficile, cos’ha comportato per lei?
«A livello emotivo, soprattutto nei mesi più duri, ero preoccupato per lo staff non sapendo cosa potesse accadere. Al contempo siamo stati contenti di continuare a essere aperti rispetto ad altri miei colleghi, ci ha dato una motivazione in più. Inoltre, da settembre a maggio abbiamo preparato presso il Mediterraneo per le produzioni di “Mission Impossible” e di “House of Gucci”».
D: Com’è stato questo incontro tra arte culinaria e Settima Arte?
«Una bella esperienza. Nel corso di “Mission Impossible” abbiamo creato un calamaro – sempre cotto a bassa temperatura – ripieno di frutti di mare su base di pappa al pomodoro per cui abbiamo ricevuto dei riscontri positivi».
D: Avviandoci verso la conclusione, il dessert è un po’ la ciliegina sulla torta, quanto riesce a sperimentare in questo campo?
«La pasticceria l’ho sempre amata, compresa la lavorazione del cioccolato. Ho provato pure l’abbinamento dolce-salato. Al Mediterraneo veniva presentato un tiramisù destrutturato con la moka del caffè e il cameriere lo componeva davanti al cliente».
D: Cosa vorrebbe comunicare alle nuove generazioni?
«In primis devono imparare ad amare questo lavoro. Un esempio di sacrificio all’interno di una brigata consiste anche nel conquistarsi una domenica specifica per cui si avrebbe necessità di essere liberi. Non bisogna, inoltre, focalizzarsi sul piatto finale, ma i giovani devono essere aperti nell’apprendere tutto ciò che c’è dietro, anche perché nella nostra contemporaneità dobbiamo fare i conti con tantissime variabili (dalle intolleranze al lattosio, ma anche a pesce e carne fino alla celiachia) e bisogna avere rispetto del cliente».
D: Qual è il suo prossimo obiettivo?
«Mi farebbe piacere che si possa riaprire presto il Ligea Lounge Bar così da proporre lì una cucina leggermente creativa».
Quando le arti si incontrano…
Bettoja Hotel Mediterraneo set di serie e film
Il ristorante Massimo d’Azeglio diventa anche set di shooting fotografici