Dialogare con CECILIA DAZZI significa scoperchiare un vaso di pandora sia per le variopinte tappe della sua carriera sia per l’atteggiamento che assume nei confronti della vita (intesa come quotidianità che come incontri importanti). Sa essere versatile e questo lo abbiamo colto tutti, ha quell’ironia che, forse, permette proprio di vivere – e non di sopravvivere – così come sa essere profonda nel dialogare sui progetti che la vedono attualmente impegnata – compreso il continuo sguardo e ascolto dell’altro.
Cecilia Dazzi e l’esperienza de “La porta rossa”
D: La prima puntata della terza stagione de “La porta rossa” ha un po’ destabilizzato… tenendo conto di tutto il percorso del tuo personaggio, che tipo di ferita ha Eleonora?
«Ha dovuto combattere con questo fantasma che l’ha perseguitata da un certo punto in poi – un fidanzato che lei aveva lasciato e che, nel corso della prima parte del loro rapporto, l’aveva portata a pensare di essere pazza finché non ha accettato di avere questa capacità da medium. Tutto ciò l’ha portata a passare anche per istituti psichiatrici, medicine e turbamenti. Soprattutto abbiamo visto come lui fosse capace di attuare violenza, chiaramente sono cose che ti lasciano una cicatrice, una capacità deviata di vedere la realtà. Ha cercato di andare avanti quando si è innamorata di un uomo, è nata una figlia; però, quando il ‘fantasma’ (inteso come presenza) le ha ucciso il marito, si è resa conto che avrebbe potuto fare lo stesso con la figlia. Ha deciso di sacrificarsi, facendo credere alla figlia di essere morta, per tutelare così Vanessa (Valentina Romani, nda). I figli sono meravigliosi, ma il più delle volte riescono a guardare solo dal loro punto di vista per cui non capisce quale tipo di sacrificio sia per una madre allontanarsi dalla propria figlia; Eleonora la ama talmente tanto che, dopo averglielo detto in diversi modi, accetta questa gogna. Ognuno di noi ha una parte ‘martire’. Sembrava che, in parte, il rapporto si fosse appianato, ma in realtà no, essendoci tutta la fase dell’adolescente che ha bisogno di sperimentare, comprese le cavolate come fa Vanessa, la quale perde il punto di vista più sano e vuole, invece, approfondire le sue possibilità da medium, avvicinandosi a qualcosa che potrebbe bruciarla. Chiaramente qualcuno cercherà di capire perché Eleonora è morta, ci sarà un’indagine che ripercorre la ricerca effettuata dalla donna per capire come difendere la figlia. Eleonora è un personaggio che è stato molto Purgatorio e anche all’Inferno, quindi non ha niente da perdere, tanto che arriva a pensare: meglio senza me che con me».
D: Questo si avverte molto nella prima puntata quando chiede aiuto a Cagliostro prima che avvenga l’incidente. Rispetto al motto della serie sulla fine (la fine non esiste), si può dire che tipo di peso continuerà ad avere il tuo personaggio anche a livello emotivo?
«Ci sono diverse indagini in corso, viene messa molta carne al fuoco. È una storia in cui prevale il buio sulla luce per la maggior parte del tempo».
D: Quanto “La porta rossa” ha scardinato le carte dal punto di vista degli spettatori e non solo rispetto a ciò che voi attori avete vissuto?
«Lo ha fatto su tutti i livelli, dai dirigenti Rai alla gente per strada. Quando mi incrociano mi dicono: “Non sei brutta come appari nella serie” [ride e si avverte quanto sia partecipe] e poi aggiungono: “Perché ti sei imbruttita così?”. Non poteva essere diversamente: un personaggio che ha perso tutto come lei, che vive perseguita da un fantasma, non può avere una cura per se stessa come se niente fosse, non avrebbe senso. Ci sono degli aspetti a cui non pensi quando stai male e, a costo della mia bellezza che non è mai stato il mio punto di forza [entra in campo l’ironia con cui si approccia alla vita], cedo volentieri la mia vanità per un’intensità che spero che dia di più».
D: C’è voluto un po’ per arrivare alla stagione finale, però la risposta è stata positiva e molto ricettiva.
«Abbiamo girato anche durante la seconda ondata forte di covid, con una cura straordinaria da parte della Garbo, una produzione molto attenta al benessere di tutti da ogni punto di vista. Davvero organizzata e seria, facevamo tamponi tutti i giorni, si indossavano mascherine, se abbiamo impiegato questo tempo per arrivare alla terza stagione evidentemente era necessario per far quadrare le cose in un certo modo. La messa in onda è stata un po’ rimandata perché la Rai doveva giostrare anche le varie uscite. Il mondo dello spettacolo e dell’arte è abituato all’elasticità dei tempi: ci sono film per cui puoi impiegare dieci anni, poi quando arrivi al momento del ciak, sei talmente carico che vengono un capolavoro. Dal momento in cui lo pensi a quello in cui lo fai di solito passano degli anni, soprattutto se si tratta di un prodotto molto impegnativo com’è “La porta rossa”».
D: Ha rotto degli schemi sul piano della tv generalista
«Secondo me sì. In più se si tiene conto degli attori presenti, ciascuno ha una caratteristica di specialità. In tutte le stagioni ci sono stati degli interpreti strepitosi. Quest’anno abbiamo avuto come regista Giampaolo Tescari, il quale è un grande amico di Carmine Elia (che aveva seguito l’avviarsi del progetto e le prime due stagioni) ed è stato questi a consigliarlo. Carmine ha lasciato questo suo ‘figlio’ a un suo punto di riferimento e, con la Garbo nelle persone di Maurizio Tini e Maite Bulgari, hanno deciso di affidarlo a Giampaolo perché erano sicuri che avrebbe portato avanti il progetto con lo stesso amore con cui l’ha fatto Carmine. Certo in maniera un po’ diversa perché ogni regista ha la sua cifra, ma sempre con una intensità di pensiero, a mio parere, molto bella».
D: Qual è la caratteristica di Elia e cosa, invece, ha portato Tescari?
«Carmine è una persona con un’energia sconvolgente, riesce a dormire tre ore a notte… è caduto dentro da piccolo nell’energia. È la stessa energia che hanno Irene Ferri o Giulia Bevilacqua. Carmine è una persona che, all’alba, mentre la troupe è stanchissima avendo girato di notte, dice: “Guarda, che bello sta sorgendo il sole… dai abbiamo ancora due ore di lavoro”. Chissà forse questo piglio lo ha avuto Colombo. Allo stesso tempo Giampaolo, che è un regista di un’altra età, ha un’energia irrefrenabile, ma in un’altra direzione: ha un’andatura più lenta ma inesorabile. Non l’ho mai visto stanco. Deve essere una virtù del regista l’essere forte, altrimenti diventa difficile tenere il tutto. Giampaolo e Carmine abitano anche vicini, c’è proprio una stima fra loro ed è anche sulla base di questa che si fondano le amicizie».
D: In merito ai poteri paranormali, ti sei posta delle domande da persona? Mentre da interprete realizzare una serie del genere, che si assume dei rischi, quanto ti ha gratificato e fatta crescere?
«Ci tengo a dire che la complicità maggiore si instaura con mia sorella, interpretata da Alessia Barela, una collega meravigliosa per cui la complicità che si vede non è frutto solo della sceneggiatura, ma anche dal rapporto con Alessia – persona e attrice che adoro. Rispetto ai poteri paranormali ho parlato con tante persone, ce ne sono molte che hanno percezione del paranormale. Io non ho mai sentito le presenze, ho sempre riportato questo mio sentire una persona che non c’è più al mio pensiero, non a qualcosa di esterno. Probabilmente rientra in una disciplina che per me è lontana; sul piano lavorativo sono quelle cose in cui decidi di crederci dovendo dar vita a un ruolo. Lo stesso Cagliostro è tutto frutto del lavoro di un grandissimo attore (Lino Guanciale, nda), senza effetti speciali (utilizzati più sul piano sonoro)… per citarne una: è riuscito a sparire dietro una colonna, il che significava buttarsi per terra per riemergere dopo un cambio di inquadratura. Il tutto senza tagli e veramente sembra che sia scomparso e riapparso. Se ci si fa caso Cagliostro ha l’ombra quindi è stato pensato come se fosse una persona viva – si è trattato di una precisa scelta di Carmine. Non si era mai visto prima un legame come quello tra lui e Vanessa. Il pubblico si è proprio affidato e fidato di questa storia, lasciandosi trasportare».
D: Anche perché l’avete resa credibile
«Anche la Rai è stata davvero coraggiosa nell’ investire in una storia così. Mio padre è stato produttore delle prime due stagioni ed è stato un progetto che, da quando lo ha pensato fino a quando è andato in onda, sono trascorsi otto anni… a dimostrazione di quanto ci abbia creduto. Lui ha creduto in questa così come ne “L’ispettore Coliandro”, sentendo di poterli affidandare entrambi alla Garbo Produzioni perché continuassero».
Cecilia Dazzi e la sua Rosa Lulli nella seconda stagione di “Fosca Innocenti”
D: Anche per “Fosca Innocenti” siete passati dall’essere diretti da Fabrizio Costa a Giulio Manfredonia e, dicendolo con assoluto rispetto, sono completamente diversi…
«Sì, però ci siamo noi interpreti che siamo sempre gli stessi. È quasi buffo come ogni guidatore della biga porti avanti le briglie e l’andatura della gara in un modo differente, però, anche in questo caso, Banijay ha deciso che Manfredonia sarebbe stato il nuovo regista in quanto Fabrizio era impegnato su altro e, per far coincidere tutto, c’è stato questo cambio di guardia come avviene nelle serie americane anche. È interessante vedere come ognuno interpreta quel ‘canovaccio’».
D: Nel corso della prima puntata abbiamo visto un’evoluzione di Rosa, messa in crisi dal privato.
«Nella prima stagione sono state costruite le fondamenta, che in questa seconda sono state scosse… Come dicono in “Boris”: “Non lo famo, ma lo dimo”, qui si capovolge se vogliamo questo ‘detto’ in quanto il mio personaggio aveva sempre parlato del marito, ma non si era mai visto. Quando si gira una commedia è fondamentale che ci si diverta anche e posso dire che è accaduto tra di noi. Al di là di Rosa Lulli, è proprio una mia riflessione pensando a tutte le donne di tutto il mondo che si prendono questa responsabilità di fare dei figli, che ti pone in uno stato di giocoliere in cui deve gestire la famiglia e il lavoro, riuscendo a dare altrettanto amore a l’uno e all’altro. Rosa, secondo me, è stata una che si è dedicata al nucleo familiare, si vede che è arrabbiata col marito perché il figlio ormai va all’università (questo tasto l’ha risolto) e, a questo punto, si rende maggiormente conto del fatto che in realtà aveva due figli invece di uno – certo anche lei avrà fatto i propri errori. Lei afferma: “Mio marito non mi guarda così da anni”, ma probabilmente neanche Rosa lo guarda in quel modo da anni, nella coppia si è in due. Senza voler anticipare troppo, come succede spesso, magari non si vuole più sapere degli uomini e poi, per sbaglio, ne incontri un altro e, anche se non lo vuoi ammettere, scatta una piccola scintilla che potrebbe diventare un incendio nel cuore».
Cecilia Dazzi: il ruolo nel film di Siani e le chicche dal suo percorso professionale
D: Hai parlato di commedia, se dovessi pensare a chi ti ha fornito le basi di questo registro e come sei mutata nel rapportarti vista anche la questione del politicamente corretto?
«Ogni pezzetto arriva da qualcosa che hai vissuto. Da piccola ho avuto l’onore di trascorrere del tempo per la preparazione di un “Don Chisciotte” (che poi non si è realizzato) con Carmelo Bene e lui era il re degli dell’ironia e della scorrettezza divertente, ma lui scherzava anche su se stesso morto. Io sono per la scorrettezza, a me fa ridere la scorrettezza – ovviamente mi riferisco a quella intelligente, come quella che si trova in “Boris” o che ho trovato nell’incontro con Siani. Questo è un periodo buffo in cui sono successe tante cose, ad esempio domenica 15 gennaio è andato in onda un documentario su Flaiano, in cui ho fatto la mia parte di presentatrice, e anche lui era uno che, a suo modo, era uno che aveva una sua vena ironica speciale.
Noi, in famiglia, scherziamo su tutto. Il medley tutto in sequenza di Capodanno mi trasmette tristezza. Mi piace uscire dalle righe, vorrei essere stupita, non sapere cosa viene dopo».
D: Anche sul piano professionale, quando dovete affrontare le stagioni successive, non si sa finché gli sceneggiatori non hanno deciso della vita del personaggio
«Mia zia mi suggerisce sempre di vedere il bicchiere mezzo pieno. In realtà si tratta di uno sguardo che si ha sulle cose ed è qualcosa che mi ha trasmesso anche mio marito, che è romagnolo. Ad esempio se si rompe una cosa, lui reagisce dicendo: “Oh finalmente, così possiamo prenderne una che funziona meglio”. Credo che tutto abbia motivo di essere, bisogna cercare di vedere le cose veramente mezze piene per capire quanto siamo fortunati».
D: Ritieni che siamo in un momento storico in cui questo sia possibile? Rimanendo nell’ambito del settore artistico: le sale teatrali sono piene, mentre quelle cinematografiche stanno soffrendo. Rispetto all’inizio della prima ondata in cui si diceva che si sarebbe diventati tutti più buoni, mi sembra che le persone si siano chiuse e incattivite (e non voglio generalizzare).
«C’è una rabbia, non so se le persone si siano incattivite o se adesso lo esprimano in un altro modo. Adesso sappiamo tutto quello che succede dall’altra parte del mondo, sappiamo che qualcuno è andato a finire sotto un treno in una città dell’Italia che non conosciamo dove sia. C’è tanta rabbia, più manifesta. Non so rispondere a questa domanda però sono spiazzata come te [ed è apprezzabile la sua sincerità, si sente come si interroghi e come, allo stesso tempo, non voglia salire in cattedra ipotizzando chissà cosa]».
D: A proposito di “Tramite amicizia” di Alessandro Siani (al cinema dal 14 febbraio), ancora una volta una parte differente da ciò che ci hai già mostrato e con cui spiazzi – anche per i costumi che indossa – per ciò che rappresenta. Va a rompere lo schema dell’immaginario che si ha della donna: appare ineccepibile e poi si rivela propensa alla coppia aperta (e non aggiungiamo altro).
«Non conoscevo Alessandro, non sapevo fosse così maniacale: ha fatto preparare tre abiti verdi e poi ha deciso quale verde avrebbe utilizzato in base agli esterni e agli interni che avrebbe utilizzato.
Per interpretare Fiorenza ho fatto delle ricerche, sono riuscita a trovare delle persone che hanno quest’apertura, per loro è una cosa come un’altra, dove mangiamo in due mangiamo in quattro, che problema c’è? È come trattiamo i fantasmi: sono esseri viventi. Alessandro mi ha detto: “È una persona con una faccia angelica, che fa delle cose che non ti aspetti da una con questo volto” e mi ha molto divertita come idea… è un po’ come quando interpreti il matto senza strabuzzare gli occhi».
D: Sei passata da “Crazy for football” a “Chiamami ancora amore”…
«Arrivano loro… è come l’amore, quando lo cerchi non arriva».
D: Sei stata assistente di Carmelo Bene perché non ti sei voluta cimentare con il teatro?
«Quando sono tornata da questo studio con lui, sono stata presa per “I ragazzi del muretto”… è partito quel treno e da cosa nasce cosa. Sono delle fasi. Per me il teatro è meraviglioso, adesso sempre di più è diventato, tra virgolette, realistico, non apprezzo quello declamato. Ogni tanto sembra che stia per farlo e poi interviene un altro progetto. Succederà? Non lo so. Sono aperta a molte avventure».
D: Hai fatto anche l’autrice di canzoni
«Quella è stata una concessione… direi una fortuna, hanno apprezzato delle cose che avevo scritto e le hanno utilizzate. Sono convinta che la ‘filosofia’ del bicchiere mezzo pieno sia pazzesca».
D: Cosa ritieni che sia giusto che emerga adesso?
«Credo che esista una selezione naturale per cui una serie come “La porta rossa”, difficile e livida, funziona perché ha senso che emerga. Non me la sento di trovare qualcosa di sbagliato, in questo momento, nella logica delle cose che avvengono».