CHRISTIAN LA ROSA è stato colui a cui è stato dato l’onore di presentare le serate di apertura e chiusura della III edizione del Ginesio Fest, ma non ha fatto solo questo. Lavorando da anni con il nuovo direttore artistico della manifestazione, Leonardo Lidi, lo abbiamo visto nei suoi panni principali di attore, nell’organizzare alcuni momenti con i giovani attori della Scuola dello Stabile di Torino. Sempre presente, pronto a supportare di fronte a qualche imprevisto e ad accogliere il confronto. Ci tenevamo, quindi, a raccogliere la sua testimonianza rispetto a questa full immersion.
Christian La Rosa: intervista sul Ginesio Fest
D: Qual è il tuo sguardo osservando i giovani attori della Scuola del Teatro Stabile di Torino, anche rispetto ai laboratori con Baglioni-Bellani e con Solari?
«Li conoscevo già perché ho lavorato con loro durante “Il Misantropo”. Non ho tenuto un mio laboratorio personale coi ragazzi, però ho assistito anch’io, in parte aiutando nella preparazione delle letture per ‘Cronache teatrali’ e in parte seguendo alcuni momenti dei laboratori. Mi ha fatto molto piacere essere un testimone di queste giornate intense di lavoro, aiutando Leonardo sul campo, allo stesso tempo concedendomi di assistere anche io a laboratori, incontri e spettacoli.
Ritengo sia stato molto intelligente che Leonardo abbia deciso di coinvolgere gli allievi (quasi l’intera classe) in queste giornate di festival, un po’ per portare avanti una sorta di formazione sulla drammaturgia, ma anche continuando a dargli l’opportunità di incontri ed esperienze sempre diverse, oltre a confrontarsi, come spettatori, con altre realtà teatrali che prima non conoscevano.
La percezione che ho avuto io del lavoro con Leonardo e Caroline è che si siano messi in gioco totalmente, si sono impegnati tantissimo, un lavoro sulla drammaturgia che mi sembra li abbia appassionati molto; anche parlando con Caroline e Michelangelo, oltre al talento e alla voglia di mettersi in discussione, hanno riscontrato pure un grande interesse nel voler affrontare questo percorso laboratoriale nuovo con lo stesso impegno con cui affrontano le ore di scuola durante l’anno. Inoltre hanno creato un bellissimo rapporto con Caroline e Michelangelo e di questo sono molto felice perché è nato anche un legame umano e non solo professionale».
D: Visto che ti sei impegnato anche ne “La crociata dei bambini” proposta e curata da Remo Girone e nei momenti di restituzione col pubblico, non so quanto avessero avuto modo di avere contatto con lo spettatore esterno dalla scuola, secondo te che tipo di reazione hanno avuto?
«Partiamo dal presupposto che questi giovani allievi della scuola sotto la guida di Leonardo sono sempre stati invitati a essere curiosi, a frequentare spettacoli, a uscire un po’ dal guscio del percorso scolastico per cui non credo che abbiano avuto nessun tipo di difficoltà ad aprirsi, a vedere tutto. Sono stati veramente tanto generosi e, al contempo, sono stati messi nella condizione di poter vedere tante proposte molto diverse. Sono stati molto contenti che alcuni di loro siano stati coinvolti appunto da Remo, altri in un paio di letture durante la presentazione del libro su San Genesio (presentato l’ultimo giorno) e poi tutta la restituzione pubblica di ‘Cronache teatrali’ su testi di uno di loro, Diego Pleuteri, e di Caroline. Ciò che personalmente trovo bellissimo è che mentre alcuni si esibivano nella lettura dei testi, i loro compagni erano lì ad osservare, – non è scontato, è stato un percorso simile a quello che ho compiuto io in questi giorni cioè un po’ attori e un po’ spettatori, passare da una parte all’altra senza soluzione di continuità, secondo me, è stata anche una ricchezza di queste giornate».
D: In questo cerchio, dall’inaugurazione alla serata finale, c’è qualcosa che ti ha colpito particolarmente?
«Ciò che più di tutto mi ha toccato è stata la grande disponibilità di tutti nel collaborare alla creazione di questo festival e anche della serata finale che non era facile da organizzare poiché bisogna cercare un giusto equilibrio tra la parte più istituzionale, dei ringraziamenti delle autorità e di tutte le persone che contribuiscono a sostenere il festival con una parte ‘più artistica’, che io e Leonardo abbiamo voluto fortemente per alternare, sempre nello spirito della manifestazione, a questi momenti più teatrali quelli più istituzionali. Remo si è messo a disposizione, con una grande apertura e generosità (e non è da tutti), per una lettura iniziale e per giocare con me con un monologo fatto assieme. Tutti i giurati sono stati disponibili nel fare due chiacchiere sul Ginesio Fest, ma anche su domande più generali sull’attore e sulla situazione del teatro in Italia, Lucia Mascino (era arrivata il giorno stesso) con Michele Di Mauro hanno montato in un pomeriggio questa lettura del carteggio fra Čechov e la moglie Olga – un duetto bellissimo, accompagnati da una violinista. Abbiamo cercato di dar vita a una serata molto agevole, di facile fruizione e, soprattutto che non andasse solo in una direzione o nell’altra, ma le unisse. Senza contare i preziosi interventi dei premiati, Petra Valentini e Lino Guanciale, in quanto, al di là chiaramente della loro bravura nel portare ognuno un piccolo monologo da loro scelto (ciò è avvenuto prima della premiazione), abbiamo avuto modo di dialogare sia con Petra che con Lino ed entrambi hanno fatto delle riflessioni molto intelligenti e, a mio parere, anche molto importanti per il momento che il teatro sta vivendo».
D: Leonardo Lidi ha utilizzato il termine ‘ricostruzione’ sin dalla conferenza stampa, pensando ai giovani attori della Scuola, mi verrebbe da mettere ‘ri’ tra parentesi in quanto nel loro caso si tratta di costruire, formarli. Dal tuo punto di vista come declineresti la ricostruzione?
«È stata la base su cui è stato costruito tutto il festival di quest’anno. Chiaramente la parola ricostruzione rimanda a quella di un luogo come San Ginesio che ancora sta vivendo il dramma di una ripartenza, allo stesso tempo lo fa con una forza e una determinazione che sono veramente impressionanti e lo fa anche rilanciando la cultura ed è molto bello come aspetto. Non conoscevo questo borgo, ho avuto modo di viverlo in questi giorni e ho visto un’accoglienza, una generosità, un amore e questa è una forma di ricostruzione. Ricostruire un luogo va bene, ma vanno ricostruite anche le dinamiche tra esseri umani così come riabituare agli incontri, all’ascolto tra le persone – non ci dimentichiamo che usciamo da anni non facili, dove l’incontro non è stato più permesso e soprattutto i mezzi così tecnologici ci hanno da una parte aiutato a tenerci in contatto, dall’altra però hanno creato una distanza ancora maggiore rispetto a quella già presente prima della pandemia. Sicuramente questo significato di ricostruzione si può declinare in tantissimi aspetti, come ricostruire una grammatica teatrale, non imponendo nulla di nuovo, non avendo la pretesa di dire: avanti il nuovo, avanti i giovani, ma con l’approccio di un confronto tra le varie generazioni e tra le diverse realtà teatrali. Questo è stato il punto di forza di quest’anno: ci sono state tante realtà, molto differenti, ma tutti insieme per cui c’è anche questo significato importante della ricostruzione.
Ciò che più mi ha emozionato è stato lo stare insieme dal mattino alla sera, pranzare e cenare insieme, incontrarsi, chiacchierare, lavorare però tutti insieme: voleva essere un messaggio molto importante. Lo si è visto anche il 19 in cui è saltato lo spettacolo previsto alle 21 (recuperato mercoledì 24): al di là della riuscita o meno della serata, il messaggio era quello: ci mettiamo insieme e facciamo quel che si può, ognuno contribuendo in qualcosa».
D: A proposito dell’interrogarsi sulla figura dell’attore oggi, che tipo di risposta ti sei dato rispetto a creare un nuovo filo con il pubblico?
«Il lavoro da fare con il pubblico sta nel ritrovare l’incontro e sempre più cominciare a far ritornare in mente l’idea che il teatro è un luogo di incontro. Al di là di tutte le ripercussioni economiche, lavorative, contrattuali, sociali che può aver avuto la pandemia sul teatro, la cosa più grave è che ha passato l’informazione che i teatri non fossero luoghi sicuri e quindi non fossero luoghi di possibile incontro – e questo è un elemento da non sottovalutare, insieme a tutte le altre questioni che sono importantissime. Non discuto il fatto che nel momento più grave, dove tutto era chiuso, è chiaro che anche i teatri dovessero rimanere chiusi; sono stati gli ultimi a riaprire e questo ha trasmesso, a mio avviso, un segnale sbagliato e cioè di un luogo, appunto, tra i meno sicuri. Adesso è essenziale che la gente si stia accorgendo che il teatro come la sala cinematografica e come tutti i luoghi culturali siano sicuri e di quanto sia fondamentale tornare all’incontro perché la bellezza del teatro è quella… se resiste da millenni è perché c’è l’elemento umano ed è questa la base da cui ripartire. A ciò aggiungerei il cercare di formare un nuovo pubblico, che significa farlo appassionare al teatro, in generale, e in questo è stato molto importante il lavoro fatto da Vera (Vaiano, nda) e tutta la sezione infanzia-adolescenza».
D: In merito alla prima produzione del Ginesio Fest, “Concerto per Vitaliano”, quali sono state le vibrazioni che hai sentito?
«Il lavoro su Vitaliano Trevisan è stato fortemente voluto, non solo per ricordare un grandissimo uomo d’arte che è scomparso troppo presto, ma anche proprio per mettere in primo piano una lingua fortissima, potentissima, poetica ma allo stesso tempo carnale, priva di qualunque aulicità però anche leggerissima nel suo essere crudele. Questi paradossi continui su cui si muove questa scrittura sono straordinari e sono attuali, oltre che per le tematiche trattate, anche proprio perché quella scrittura rispecchia l’umanità numerica in tutte le sue debolezze, contraddizioni, leggerezze, pesantezze, in tutti i suoi dolori e le sue angosce e quindi è universale. C’era bisogno di ritornare alla forza della parola e non a caso è stato scelto un interprete come Michele che incarna la parola, ma non di testo, la singola parola. Lo spettacolo è esattamente questo: un essere umano che si relaziona con la parola e la restituisce. Era essenziale anche questo: tornare a far capire quanto la centralità della parola sia importante, pesi sulle altre persone e sulle coscienze. Questo è stato il punto di arrivo del lavoro di Michele. Ho letto recentemente pure una sua dichiarazione in cui riportava che molti hanno detto come questo linguaggio scandalizzi e lui ha dichiarato: se questo linguaggio scandalizza ancora oggi vuol dire che siamo indietro. È vero… perché se questa forma di linguaggio scandalizza, per vari motivi, vuol dire che si è perso il focus: la parola col suo peso. Viviamo, invece, in un momento in cui le parole non hanno più un peso, non lavorano più, sono troppo leggere, un po’ stuprate e un po’ sfruttate. Spesso si fa una differenza tra teatro di parola e teatro fisico, ma la parola è corpo: le corde vocali sono una parte del nostro corpo, vibrano perché esce il respiro. Noi siamo il paese delle distinzioni, ma alle volte non servono.
Per il laboratorio di drammaturgia hanno scelto Caroline Baglioni che è più autrice che drammaturga, lei ha un suo modo di mettere in fila le parole ed è questo il messaggio: l’importanza della parola e del peso che ha nel momento in cui uno la verbalizza».
D: In prospettiva, rispetto al tuo di lavoro, forte di quello che hai vissuto al festival e pensando a ciò che hai già in programma, c’è qualcosa che ti preme dire?
«Sono state giornate molto importanti, emotivamente arricchenti, molto intense, alle volte tanto faticose proprio perché gestire tutto non era semplice, però certamente quello che mi lascia è l’importanza di portare un progetto – di qualunque natura sia – supportato da un pensiero, da una base solidissima e questo vale anche per il lavoro d’attore cioè lavorare portando un pensiero che poi potrà essere giudicato, non giudicato, apprezzato, detestato, può lasciare indifferente o coinvolgere, ma c’è un pensiero dietro. Si deve sempre inseguire qualcosa che tu vuoi sostenere, fatto chiaramente a modo tuo, con le tue idee».
D: Immagino che anche la tua direzione nei prossimi progetti continuerà ad essere su questo, magari ancora più forte?
«Nella stagione 2022-’23 riprenderò soprattutto dei progetti già fatti come “Il gabbiano”, “La signorina Giulia” e anche “Animali domestici”, quest’ultimo scritto da Caroline, che abbiamo analizzato ed è molto stimolante che riprenda degli spettacoli che già hanno avuto una restituzione per vedere come e se cambierà qualcosa nel mio approccio nel riprenderli alla luce di quello che è successo. Sarà una sfida, sarà bello ritrovarli e vedere se succederà qualcosa.
Io, come tutti noi, sono stato profondamente segnato da questi anni, ma, al di là della pandemia, il percorso di un attore dovrebbe essere sempre in movimento perciò è essenziale fare esperienze che in qualche modo ti spostano dalla percezione, con tutto quello che comporta, integrando ciò che si è fatto in precedenza».
Ph Ester Rieti