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Artisticamente Magazine

Eleonora Giovanardi: «Per me la recitazione diventa la fiducia nella possibilità di dialogo»

Eleonora Giovanardi: «Per me la recitazione diventa la fiducia nella possibilità di dialogo»

Tempo di lettura: 12 minuti


ELEONORA GIOVANARDI
non ama dire semplicemente se sia d’accordo o meno. Riflette, si prende il suo tempo, ama argomentare anche approfonditamente la risposta e confrontarsi con l’interlocutore per cui l’intervista si trasforma davvero in un dialogo in cui si mette in gioco. Chiede anche una restituzione di impressioni dall’altra parte ed è un atto non scontato. Con schiettezza e consapevolezza ci ha sottolineato (e ricordato): «Bisogna mettersi nei panni di anche per dire non sono d’accordo. Citando il mio amico Lodo Guenzi: Combatterò affinché tu possa dire la tua stronzata. Rimane alla base del mio credo artistico e personale: nessuno deve essere imbavagliato, poi, attraverso la conoscenza, uno decide se abbracciare o meno un punto di vista». Qui potrete leggere di censura, conoscenza, dello spiccare il volo e di tanto altro compreso il grande rispetto per il mestiere che ha scelto… «A volte mi chiedo: ma stasera me lo sono guadagnata quello spazio giusto sul palco perché se non butti il cuore oltre l’ostacolo, se non accetti di starci al 100%, non te lo sei guadagnato. Questo comporta anche delle conseguenze su di me, la giornata muta e sai che è ‘in funzione’ dell’andare in scena. Lavoro poco di tecnica… e a livello emotivo un testo così ti richiede tantissimo». Si riferisce a “Il Giardino dei Ciliegi” di Anton Čechov, adattato e diretto da Rosario Lisma (Produzione Tieffe Teatro Milano/Teatro Nazionale Genova/Viola Produzioni srl). L’abbiamo incontrata proprio a conclusione dell’ultima replica milanese al Menotti prima che partisse per la tournée (fino al 12/03 al Teatro Gustavo Modena di Genova, 14 -19/03 al Mercadante di Napoli e 21/03 – 2/04 alla Sala Umberto di Roma).

“Il Giardino dei Ciliegi” per la regia di Lisma


D:
Nei quaderni Čechov afferma: «Nell’uomo muore tutto ciò che è legato ai cinque sensi. Quel che sta oltre è probabilmente enorme, inimmaginabile, sublime e sopravvive». Quali suggestioni hai rispetto a questo e soprattutto interpretando Varja?

«Questa battuta, in particolare, la dice il maestro. Ciò che mi ha colpita in assoluto è il fatto che sia stata scritta da un uomo che da lì a pochi mesi sarebbe morto per cui, se anche dentro allo spettacolo è in un momento un po’ più comico, col maestro che si può dire che sia in parte sulle nuvole, Čechov mette in bocca a questo personaggio una speranza. Lo trovo uno dei regali più grandi che questo autore potesse farci: nel momento in cui si avvicina la morte, non solo ci dona un testo immortale, ma una riflessione sulla morte, che permea tutto “Il giardino dei ciliegi” e pensare che sia stato scritto da un uomo malato mi riempie di gratitudine e fiducia verso l’essere umano».

Eleonora Giovanardi Il giardino dei ciliegi
Backstage da “Il giardino dei ciliegi”. In foto Eleonora Giovanardi e Tano Mongelli – Ph Valentina Malcotti

D: Soprattutto per come ci è stata restituita in diverse rappresentazioni, noi abbiamo percepito più il lato drammatico di questa pièce, mentre lo stesso Čechov l’ha definita una commedia…

«Lui l’ha definita una commedia in quattro atti e quando la consegnò, fresca di scrittura, a Stanislavskij, questi, leggendola, l’aveva trovata un grande ‘drammone’. Nelle lettere, invece, Čechov ripete che deve far ridere anche in alcuni momenti. In questo, a mio parere, è molto giusto l’adattamento di Rosario Lisma perché riesce a riportare il comico in vari punti fino alla slapstick e il bello è che è tutto contenuto nel testo originario, dove ci sono personaggi addirittura  farseschi. In fondo la vita non è mai totalmente drammatica o comica, capita di ridere ai funerali perché magari qualcuno inciampa scivolando su qualcosa; quando i due aspetti sono insieme avviene che il testo diventa universale. Rosario lo ha trasposto avvertendo anche la necessità di modernizzare, riportandolo ai giorni nostri sia come strutture che come costumi – va detto che ci sono delle battute talmente legate a degli scherzi  o giochi dell’epoca (come tatacarambola) su cui bisogna lavorare un po’; mentre i temi universali non invecchiano –  basti pensare all’ultima battuta  di Firs (il maggiordomo – con la partecipazione in voce di Roberto Herlitzka) che è un testamento».

D: Nelle note di Lisma leggiamo: «Da una parte quindi i paladini dello spirito, dall’altra quello della materia. Da una parte i falliti, ma che conoscono le ragioni del cuore. Dall’altra il campione della ragione, ma analfabeta dell’anima. E voi? Da che parte siete stati finora? Da che parte volete stare? Questo vorrei chiedere agli spettatori». Tu, Eleonora, ti sei data una risposta?

«Abbiamo ragionato insieme mentre ci lavoravamo. Ognuno dà una risposta personale e credo che la più equilibrata sia unire le due parti perché non si può essere totalmente inetto alla vita come Ljubov’ Andreevna (Milvia Marigliano) e il fratello Gaiev (Giovanni Franzoni) né si può essere incapace di amare come Lopachin (lo stesso Lisma). La grande sfida è quella di non rendere Ljuba e Gaiev come totalmente dei bambinoni, c’è una forte ragione per cui loro non riescono a mettersi in azione, nutrono un amore profondo e non accettano la realtà. Noi tendiamo a psicanalizzare i personaggi avendo questo strumento in più, sicuramente c’è un grande rimosso da parte di questa famiglia, che letto da noi è comprensibilissimo… quante volte non facciamo ciò che dovremmo? E, d’altro canto, si capisce anche il comportamento di Lopachin che trova la soluzione più pragmatica: propone un modo per salvarsi che, però, non viene accettato».

Eleonora Giovanardi nel ruolo di Varja


D:
Come definiresti la tua Varja?

«È fino all’ultimo atto un essere umano che può ancora spiccare il volo. Il suo arco narrativo attraversa la compravendita del giardino dei ciliegi e arriva a essere molto umano nel chiudersi. Lei vorrebbe una vita diversa che, quando le viene negata, non ha la forza emotiva né forse le conoscenze di reagire a questo destino. La vedo così: quando si è su un trampolino, dove si molleggia, molleggia e se si perde l’attimo, non si salta più. L’ho sempre vissuta così grazie anche al lavoro fatto con Rosario e ho apprezzato molto anche la scelta che ha fatto rispetto al suo Lopachin, di solito rappresentato come segretamente innamorato di Ljuba, invece in questa messa in scena ha portato qualcosa di molto contemporaneo: l’incapacità di amare dal suo punto di vista. Fa da specchio alla mia Varja, sono due persone un po’ perse, che non si afferrano. L’unico raggio di speranza che Čechov dà è affidato ad Anja».

Eleonora Giovanardi Il giardino dei ciliegi
E. Giovanardi e Dalila Reas – Ph Laila Pozzo

D: C’è una battuta di Varja esemplificativa?

«L’elemento molto indicativo è che non ha una battuta che la sveli. Varja è in-potenza, le sue parole sono tutte rispetto al suo vissuto interno, è tutto un dissimulare. Il momento in cui si svela maggiormente è con la sorella minore, Anja, quando dice: Mi fa male vederlo sempre qui (riferendosi a Lopachin, nda) perché tutti parlino del nostro matrimonio, in realtà non c’è nulla, è solo un sogno. È un personaggio che viene definito dai suoi silenzi».

“L’estinzione della razza umana” di Emanuele Aldrovandi


D:
Richiamando dalle note «La riflessione sulla goffa incapacità di vivere degli esseri umani», potremmo dire che c’è un link con “L’estinzione della razza umana”?

«In parte sì. Nell’estinzione c’è una situazione esterna, che richiama quella che abbiamo vissuto tutti del covid, certo molto stringente; nel giardino è universale in quanto viene affrontato il non saper vivere. È vero anche che nel testo di Aldrovandi i due personaggi maschili si colpiscono e si mettono a nudo tantissimo. Il link potrebbe essere nella frase che Lopachin dice a Petr Trofimov: Facciamo tanto i superbi gli uni con gli altri e poi, alla fine, la vita ci passa accanto e nemmeno ci guarda».

Eleonora Giovanardi

D: Il contesto della pandemia, non appena scoppiata, ci ha posto delle domande su noi stessi, che poi purtroppo si sono perse…

«È avvenuto questo perché come tutti gli esseri umani sensati appena il dramma se ne va, si tende a tornare alla ‘normalità’, ci si riabitua cercando di rimuovere ciò che è avvenuto. La pandemia non la si rimuove, ci ha attraversato e ancora ci facciamo i conti perciò il testo di Emanuele regge al tempo perché sono interrogativi e paure nati durante quel periodo, ma ancora attuali. L’essere umano è stato ‘costretto’ a porsi davanti a se stesso e i quattro protagonisti si massacrano perché non reggono quella prigionia.
Emanuele è stato intelligente nello spostare il sintomo – quasi straniante – della pandemia perché così lo allontana un po’ [riferendosi agli spettatori che si ritrovano a osservare sentendosi coinvolti], in quanto è troppo vicina ancora».

D: Il tuo personaggio va a toccare – e ne discute – temi come la religione, la maternità…

«Il testo è molto intelligente. Non c’era ruolo più lontano da me che Emanuele mi potesse dare per cui è ancora più divertente scoprire in un altro essere umano (d’altronde questi sono i personaggi) le verità… chiaramente dal punto di vista attoriale ho dovuto fare delle sostituzioni perché per me Dio è un’altra cosa, la maternità la vivo in un altro modo, però se sostituisco a questi due concetti dei credo personali riesco a difendere Anna in tutto e per tutto».

Eleonora Giovanardi L’estinzione della razza umana

[Segnaliamo che lo spettacolo sarà in scena al Teatro delle Moline di Bologna dall’11 al 16 aprile e dal 6 all’11 giugno al Franco Parenti di Milano]

I ‘fantasmi’ sulla scena


D:
Tornando per un attimo a “Il giardino dei ciliegi” è stata molto bella la scelta dell’armadio, che rievoca il passato, il lutto, ma anche tanto altro. Quali sono i fantasmi che a te vengono in mente sul palcoscenico?

«Emoziona sempre pensare che quelle stesse battute le abbiano dette in più di cento anni grandissimi attori… mi fa sentire da una parte privilegiata, dall’altra mi trasmette soggezione. Nella messa in scena di Strehler Varja era interpretata da Giulia Lazzarini per cui è un ‘bel fantasma’, che ho trovato pazzesca e, nel mio piccolissimo, ho cercato di renderle omaggio ad esempio con la fatica di staccare le chiavi».

Eleonora Giovanardi Il giardino dei ciliegi
E. Giovanardi e Milvia Marigliano – Ph Laila Pozzo

L’impegno con l’associazione Amleta


D:
Tu sei impegnata anche con Amleta (un’associazione di promozione sociale il cui scopo è contrastare la disparità e la violenza di genere nel mondo dello spettacolo), come si fa a non vivere le quattro mura domestiche come una prigione?

«Per quanto riguarda Il giardino parliamo di un testo del 1904 per cui dal punto di vista della rappresentazione del femminile è ovviamente datato. Varja è dedita a quella famiglia perché senza non avrebbe identità – va ricordato che è stata adottata per cui c’è un complesso di riconoscenza. All’epoca se non avevi questa possibilità la passavi molto male. Facendo un salto ai giorni nostri non è semplice dare una risposta poiché ognuno ha il suo perché la casa diventa una tomba. Ognuno vive la propria casa intesa anche come affetti come deve e può. Da attrice posso dire che ciò che viviamo sul palcoscenico o sullo schermo aiuta a creare una narrazione per cui le bambine di oggi possono pensare di diventare altro un domani. Pensando, quindi, al mio lavoro credo sia importantissima la rappresentazione con pluralità di voci e storie: potrebbe essere uno degli antidoti possibili per l’emancipazione femminile».

D: Riesci a constatarlo?

«Lo vedo sulle nuove generazioni: le ragazze sono molto più critiche e attente verso i ruoli. Mi viene sempre in mente questo aneddoto che mi raccontò la presidente di Amleta (Cinzia Spanò, nda): un bambino tedesco ha chiesto alla mamma se è anche gli uomini potevano essere cancellieri. Se cresci vedendo che la cancelliera è una donna, te lo domandi. Ritengo che questo sia il fulcro del cambiamento: una narrazione più inclusiva crea un immaginario diverso. Ovviamente tutto questo diventa ‘critico’ quando incontri i classici che hanno un loro tempo e vanno contestualizzati».

D: A che punto siete con Amleta?

«Si occupa della parità di genere, il nostro impegno continua in tal senso, sulla drammaturgia contemporanea e c’è tutta una parte legata al MeToo e quindi al contrasto della violenza. Il 7 marzo in anteprima sarà proposta la lettura di un testo tradotto da Monica Capuani “L’empireo”, che avrà un adattamento l’8 marzo al Carcano.
Amleta è costituito da un collettivo di donne pazzesche, illuminate e infaticabili… è una gioia farne parte anche perché sono artiste che stimo».

Eleonora Giovanardi

Il valore della parola


D:
Sai bene il valore della parola, cosa ne pensi di ciò che si sta attuando adesso rispetto alla cancel culture verso Roald Dahl (noto, tra gli altri, per “Charlie e la fabbrica di cioccolato”)?

«Credo che il termine censura sia stato utilizzato come un titolo urlato dai giornali per dare l’idea. In realtà si potrebbe più parlare di cancel culture o woke culture, maggiormente legata all’inclusività. Il tema della discussione c’è nel senso che Dahl è uno scrittore che si rivolge dai 6 anni in poi e quindi a lettori che si approcciano per la prima volta, senza intermediari, alla lettura attraverso cui si formano un immaginario. Alla fine è stata fatta marcia indietro, ma, da ciò che ho letto, volevano sostituire delle parole specifiche legate alla genitorialità (non parlare più di mamma e papà, ma di genitori) e ad aggettivi come brutto, grasso. Il tema è importante. Nell’editoria inglese esiste, in particolare per l’infanzia, chi legge e capisce se quel libro è appropriato o meno all’età, il che è essenziale; però, dall’altro punto di vista – e io mi trovo in questa posizione – ritengo anche che toccare un libro, un autore (tanto più non vivente e quindi non può dire la sua) e mettergli una sensibilità che non poteva essere la sua del tempo, pur se si tratterebbe di cancellare qualche parola, apre la voragine alla possibilità di un revisionismo più violento e alla vera e propria censura. Di base non sono d’accordo con questo e penso che la casa editrice che fa parte della Penguins che ha proposto queste revisioni ovviamente lo ha fatto per un fattore puramente economico, visto che siamo all’interno di un sistema capitalistico… aggiornando i testi, questi sarebbero tornati in libreria in una veste nuova e così possono prendere un nuovo bacino di utenza. Stiamo parlando di soldi, non c’è nulla di male, ma va detto. I testi moderni devono essere inclusivi, parlare a tutti i bambini di oggi; quelli che magari vengono considerati un po’ datati per via di alcuni elementi hanno bisogno di un accompagnamento alla lettura perciò richiede un lavoro ulteriore da parte dei genitori e degli insegnanti che non si può delegare all’editoria».

Eleonora Giovanardi: «La mia resistenza nel teatro consiste nel credere ancora ostinatamente nella possibilità di capirsi con l’altro»


D:
Thierry Salmon afferma: «Il teatro è un luogo di resistenza, che ci permette di vivere diversamente». Alla luce di ciò che si è detto fino ad ora e di questa riflessione, cos’è per te il teatro?

«Un luogo di resistenza ed esistenza… è come se in modo un po’ imperterrito ci si fida ancora della possibilità di dialogo. Ne “Il giardino dei ciliegi” i tempi, la narrazione sono così tirati, sottili, che ancor più in questa circostanza la presenza del pubblico influisce in modo totale. Per me è un atto di fede: la recitazione diventa la fiducia in quella possibilità di dialogo, che a volte riesce, altre no, però la mia resistenza nel teatro consiste nel credere ancora ostinatamente nella possibilità di capirsi con l’altro. Il tutto raccontando una storia. È proprio il bello di questa ‘scatola magica’: solitudini che si incontrano, magari per un paio d’ore, e si sta insieme, si capisce dove si va… capita anche che uno spettacolo ti faccia arrabbiare, ma è vivo e si prova qualcosa di vivo».

I film in uscita di Eleonora Giovanardi


D:
Il 30 marzo esce “Evelyn tra le nuvole” di Anna Di Francisca. Com’è stata l’esperienza?

«Bellissima, ho girato nella mia terra, in un luogo spaziale come la Pietra di Bismantova che non ha nulla da invidiare a “Il Signore degli Anelli”. Ho recitato insieme a un carissimo amico di una vita, con Anna Di Francisca si è instaurato un rapporto reale, non solo professionale. È stato rigenerante essere a contatto con Sofia, il personaggio che interpreto. Lei vive in questo piccolo e curatissimo agriturismo, allocato proprio sotto la Pietra di Bismantova, ha un rapporto molto diretto e onesto con la natura, i rimedi naturali e odia tutto ciò che è tecnologia; cercherà, fino a un certo punto, di difendere questa sua oasi naturale dal diverso, incarnato da Gilbert Melki, addetto alle telecomunicazioni, il quale le comunica che un ripetitore sarà piantato proprio nell’agriturismo. Da lì si crea una commedia molto elegante, delicata, corale, con una fotografia stupenda curata da Cimatti. È un film anche per famiglie».

D: Tu come vivi la natura?

«Adoro stare in città e Milano (lo dice rispetto alla vita di tutti i giorni, nda). Ammetto che l’aver incarnato questo personaggio a casa mia è come se avesse fatto tornare tutto, tra cui il ricordo dei profumi…».

D: Hai anche in uscita “Dark Matter

«Sì dovrebbe uscire a maggio (aggiorniamo che è previsto in sala dal 4, nda). Non ho visto ancora la restituzione, ciò che posso dire è che il regista, Stefano Odoardi, ha un suo modo di girare molto vicino all’arte visuale. Purtroppo anche questo lavoro ha subito il ritardo dell’uscita per via della situazione delle sale (ricordiamo chiuse in pieno covid, nda)».

D: Pensi che gli incontri col cast in sala, sempre più incrementati (il Palazzo del Cinema Anteo già lo faceva, parlando di Milano), possano essere di supporto nel far tornare le persone al cinema?

«Lo vivo anche da spettatrice in modo molto piacevole. Capire la gestazione, scoprire le location suscita sempre curiosità. Il cinema è, sulla terra, la cosa più finta che sembra vera per cui, secondo me, è divertente per il pubblico. Non so se possa essere una soluzione. Ritengo che vada ripensato il rapporto con le sale cinematografiche in vista di tutte queste nuove piattaforme, che non vanno né demonizzate né santificate. In un momento di crisi si deve ricreare una nuova abitudine, un nuovo modo di usufruire della sala cinematografica e uno è sicuramente quello di fare delle esperienze mirate».

La sua su U.N.I.T.A. e il legame con Officine Buone


D:
Hai avuto modo di ascoltare l’appello di U.N.I.T.A. letto da Pierfrancesco Favino al Festival di Berlino? Cosa ne pensi delle lotte che stanno portando avanti in merito al contratto nazionale?

«Sono molto contenta e grata che chi ha una voce così potente e un palcoscenico così importante porti queste istanze. Appoggio U.N.I.T.A. e il comunicato, soprattutto c’è un passaggio che credo sia molto importante e pragmatico in cui si dice che quando non si sottoscrivono dei contratti si perde non solo la tutela dei lavoratori, ma anche la possibilità di un progresso e di uno sviluppo economico dell’industria. Laddove ci sono i diritti c’è effettivamente una base di sviluppo maggiore».

Eleonora Giovanardi
Ugo Vivone ed Eleonora Giovanardi al Magna Græcia Film Festival

D: Concludiamo con Officine Buone creato, tra gli altri, da Ugo Vivone, con cui hai collaborato spesso
«Ci rincorriamo da un po’, non è semplice incastrare, ma ci auguriamo entrambi di tornare presto a collaborare insieme. A Reggio Emilia c’è un gruppetto che porta avanti i concerti negli ospedali e poi hanno portato Open Stage a Porta Garibaldi e persino a Sanremo».

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