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Artisticamente Magazine

Elisa Di Eusanio: «A teatro mi sento nel posto giusto»

Elisa Di Eusanio: «A teatro mi sento nel posto giusto»

Tempo di lettura: 7 minuti

 

ELISA DI EUSANIO trasmette già dal tono di voce un’energia positiva e propositiva. Si potrebbe dire che con quella carica, all’ennesima potenza (senza mai strabordare), si dona sul palco in particolare in “Club27, che, dopo un’anteprima di quattro sold out nella Sala White, torna in scena (questa volta Sala Black) allo Spazio Diamante di Roma dal 14 al 16 novembre. Con lei in questo live di musica e prosa Joe Calabrò (chitarra e voce), Fabio Frambolini (basso e voce), Stefano Costantini (batteria) e Marco Rossetti (contributo voce).
Il grande pubblico ha imparato a conoscerla soprattutto attraverso il personaggio della caposala Teresa in “DOC – Nelle tue mani”, dove ha conquistato innanzitutto col suo fare premuroso per poi svelarsi anche ironica e gelosa del nuovo compagno. Elisa Di Eusanio ha una formazione molto solida alle spalle, lo si percepisce sullo schermo e ancor più nello spettacolo-incontro dal vivo ed è proprio da questo che vogliamo partire.

D: Leggendo i commenti degli spettatori su “Club27” è come se fossero rimasti sorpresi… forse non si aspettavano questo tipo di spettacolo da lei.

«Sicuramente chi mi conosce per un certo tipo di percorso e di immaginario subisce una sorta di shock nel vedermi sul palco in quel modo. Emerge una natura inedita che, in realtà, è la mia vera natura solo che non avevo mai avuto occasione di dimostrarla perché noi siamo sempre degli strumenti nelle mani di qualcun altro.
Questo progetto è talmente personale che ho restituito davvero la mia arte per quella che davvero è».

D: In effetti lo ha scritto, lo co-produce e si mette completamente in gioco. Quale affinità sente con questi artisti (Robert Jhonson, Janis Joplin, Kurt Cobain, Amy Winehouse, Jimi Hendrix e Jim Morrison)?

«Innanzitutto alcuni di loro hanno segnato la mia giovinezza (a partire dall’adolescenza) e per certi versi le esperienze di vita di questi artisti, io le ho vissute. Non serve essere delle rockstar per affrontare determinate questioni e ‘trappole’ dell’esistenza. Si parla senza mezzi termini di dipendenza patologica. Loro sono tutti morti, chi per overdose, chi per intossicazione da alcol, chi per abuso di farmaci ecc. Io ho sofferto in passato di dipendenza patologica, quindi so perfettamente di cosa stiamo parlando, con la differenza che ho sconfitto questo dramma, ne ho fatto addirittura una forza e oggi posso non solo raccontarlo, ma anche spronare tanti giovani a non vergognarsi di raccontare le proprie debolezze e chiedere aiuto. Questa è una malattia ma se ne può uscire. Sono assolutamente grata a quello che è stato il mio percorso e restituire una storia in cui le persone si possano identificare, tanto più che si affrontano tematiche come rapporto genitoriale, bullismo, l’inadeguatezza del fanciullo quando arriva a scuola… è uno spettacolo pieno di pezzi di nostre storie. Va chiarito che quando si parla di dipendenza non si parla solo di sostanze, ma di atteggiamenti autopunitivi che possono riguardare tantissimi tasti (dal disturbo del comportamento alimentare o ancora la dipendenza affettiva. La radice è comune: un disagio esistenziale, io lo chiamo il ‘troppo sentire’, è una fame d’amore che non si riesce mai a saziare. Gli artisti citati ne sono caduti vittime. Credo che la forza di questo progetto stia nell’aver messo a servizio una zona di me proprio autentica, questo il pubblico lo sente così come sente che sto prendendo il mio cuore e glielo sto mettendo nelle mani».


D:
Guardando al pubblico che è venuto, è riuscita a intercettare più fasce?

«Sì (si entusiasma, nda), sono venuti dai tredicenni agli ottantenni e in mezzo ci sono tutti. Anche per me è stato un test sorprendente constatare la trasversalità degli spettatori sia come anni che come ‘target’ (dal mio vicino di quartiere all’addetto ai lavori, al collega o alla persona che ne ha sentito parlare)».

D: Se dovesse descrivere questo progetto attraverso un brano per ciascuno di loro, cosa sceglierebbe?

«Non tutti li citerei perché alcuni li sento più come musicisti. Io citerei “Lithium” dei Nirvana, anche se noi non lo facciamo ma un altro loro brano, però mi riporta ai corridoi del liceo dove in qualche modo tutto è cominciato. Citerei senza dubbio “Piece of My Heart” di Janis Joplin perché è la sintesi: ci sono il mio grido di dolore e insieme la liberazione. E poi “Back to Black” di Amy Winehouse che è una delle artiste che sento prepotentemente, ho vissuto da vicino la sua decadenza, la sua malattia e l’ho sentita proprio nelle viscere. Aggiungerei “Light My Fire” dei Doors perché è insita un’energia e i Doors sono molto bacchici e questo spettacolo è un grande baccanale.
Non dimentichiamo che suoniamo i geni del rock da Jimi Hendrix a Jim Morrison».

D: Tra i vari laboratori, ne ha fatto uno intensivo su Sarah Kane, la quale si è messa a nudo nei testi che ha scritto e come autrice è molto dura verso se stessa.

«Il mondo di Sarah Kane è davvero disturbato, disturbante e depresso; invece il mio è solare, anche se andiamo in delle zone per cui la gente si commuove… sono andata a recuperare quella ragazzina piena di vita che sono stata, a un tratto è come se me lo fossi negata, ma sono una persona estremamente vitale, quindi questo è uno spettacolo aperto, positivo e pieno di vita».

D: Si è messa in gioco a 360 gradi, attingendo anche alla danza contemporanea e alla commedia musicale che aveva praticato a Teramo?

«C’è tantissimo della scuola di danza della mia mamma dove mi sono formata. Si può riscontrare anche tanto di un rapporto difficile che ho avuto coi miei genitori. Non si deve far finta che vada sempre tutto bene, bisogna avere anche il coraggio di dire senza paura le cose che nel nucleo famigliare non hanno funzionato, però poi il passaggio meraviglioso è riuscire a perdonare, ad accoglierle, a dargli un altro valore. Fare i genitori non è facile, quindi magari i figli spesso non possono avere una rispondenza perfetta dell’amore che vorrebbero avere, ma magari quei genitori hanno provato a fare il meglio che potevano nelle loro possibilità e forse non ci sono riusciti perché purtroppo le famiglie sono dei luoghi fondamentali dove si annidano delle questioni molto complesse che poi possono avere delle ripercussioni importanti nella vita di una persona. La bellezza sta anche nel capire questo, capire chi sono o erano i propri genitori, la loro vita e oggi sono veramente in pace. Mi dispiace solo che la mia mamma non ci sia più, ho veramente perdonato tutto ciò che è successo e non vorrei avere altri genitori. Ritengo sia importante dire alle persone che non c’è sempre per forza un colpevole per forza se le cose vanno in un certo modo, l’importante è saper trasformare le proprie esperienze».

D: Elisa, lei si è aperta molto. In una prospettiva di dialogo costruttivo: come si fa a trasformare questa esperienza con l’atteggiamento positivo che ha lei? Come si fa a farlo, tra virgolette, in tempo?… A volte si dice che si fa pace con l’immaginario che si ha dei propri genitori solo nel momento in cui non ci sono più.

«Ho papà ancora con me e lui è stata una figura estremamente dolorosa e problematica quando ero una ragazzina, ho avuto quasi un rapporto conflittuale più con mio padre che con mia madre e, invece, oggi è splendido perché io finalmente non cerco più la sua approvazione, non cerco più quel modello che io pensavo che lui volesse per me. In più ho scoperto che, in realtà, mio padre mi ama per come sono, ma da bambina c’erano sempre una distanza, un giudizio; ora, con tutto il percorso che ho fatto di elaborazione, analisi, comprensione, mi sono avvicinata anch’io al suo mondo, a quella che è la sua persona e l’ho accolta e va bene così».

D: Cura regie, cerca storie e ricordo con emozione “Neve di Carta” (che spera di riprendere). Pensa che a teatro riesce a trovare maggiormente un suo spazio di espressione?

«Senza ombra di dubbio forse perché, al momento, per quello che riguarda il cinema e la televisione non ho ancora avuto occasioni di personaggi tridimensionali, storie complesse come mi piacerebbe fare. A teatro sicuramente c’è la mia casa, la mia vita, la mia storia quindi lì mi sento nel posto giusto».

D: Il maestro Orazio Costa diceva che il teatro era una delle strade, forse l’unica, rimasta all’uomo per riuscire a salvarsi…

«Trovo sicuramente delle zone di salvezza profonda».

D: Pensa che da spettatore si riesca in a viverlo ugualmente?

«Gli spettatori quando vedono degli spettacoli che li prendono e li portano via sono grati e non c’è emozione più grande per loro perché l’atto della condivisione in essere di corpi che sono lì insieme, che si guardano, che si parlano, che vivono quell’istante di vita.. quell’emozione è impagabile e non lo può dare nient’altro. Si possono vedere dei film che sono capolavori, ma quando il teatro è ‘fatto’ come si dovrebbe, entrando nella pancia e nel cuore delle persone le prende e le porta via e si vive un’esperienza quasi dionisiaca ed è di una potenza unica. Ecco perché ci dobbiamo forsennatamente impegnare nel fare del buon teatro».

D: Elisa, dobbiamo salutarci perché deve tornare dai suoi ragazzi…

«Sto facendo un percorso laboratoriale per due masterclass: una con l’Accademia Fondamenta e una per Officine in Scena, entrambe a Roma. È un’avventura che mi sta dando tantissimo perché è un percorso di formazione reciproca. Non ho la pretesa di insegnare nulla, se non il desiderio di condividere quelle che sono state le scoperte più utili da portare nel bagaglio artistico. Un’esperienza arricchente soprattutto dal punto di vista umano perché ti ‘costringe’ a una grande empatia e ad entrare in ascolto, capendo che hai davanti delle persone fragili, delicate e ognuna di loro ha bisogno di tanta cura. In questa fase della vita non riesco a dedicarmi a tempo pieno, in futuro non escludo di farne un nodo centrale del mio percorso perché è un’avventura meravigliosa».

D: Ripensando a ciò che ci siamo dette, senz’altro è una questione anche di casting, di forma mentis e dinamiche varie. Vogliamo lanciare un messaggio positivo anche relativo a piccolo e grande schermo rispetto alla molteplicità e all’anima che può dare?

«Serve qualcuno che con coraggio investa e mi scopra perché penso che alcuni abbiamo un’idea di me ancora abbastanza bidimensionale. Ci vogliono l’occasione giusta e il regista o la regista che veda qualcos’altro e mi faccia fare un salto, uscendo un po’ dal cliché che ho interpretato fino ad ora, anche se qualcosa un po’ sta cambiando, ultimamente sicuramente anche con DOC e la mia inevitabile crescita proprio umana».

Elisa Di Eusanio: i prossimi impegni

Elisa Di Eusanio è nel cast di “Ho visto un re, ultimo lungometraggio di Giorgia Farina che dovrebbe essere distribuito da Medusa nel 2025. Dal 4 al 16 marzo sarà in scena alla Sala Umberto con “L’uomo dei sogni” scritto e diretto da Giampiero Rappa. Le auguriamo di poter portare in tournée “Club27” che, come ci racconta lei stessa, «rispetto ad altri miei progetti ha iniziato a crescere, può darsi pure pian piano riuscirò a costruirmi un’identità e ad avere la possibilità di far conoscere anche gli altri miei lavori, però purtroppo bisogna accettare le regole del gioco. O stai al gioco e insisti e spingi dal basso e speri che le cose cambino oppure lasci andare, non vedo altre soluzioni». Con consapevolezza, un atteggiamento zen e, al contempo, combattivo ci ha risposto sul problema della circuitazione degli spettacoli. Vogliamo essere fiduciosi che i ‘gioiellini’ vengano visti, apprezzati e accolti così da rompere alcuni schemi.

 

 

 

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