“MAÇALIZI” è come si dice in friulano ‘massacro’. Questo termine, per chi ama e segue il teatro e/o la Settima Arte, ormai viene subito associato alla commedia della pluripremiata autrice franco-iraniana Yasmina Reza. Alla 31esima edizione di MITTELFEST, il festival che porta in scena teatro, musica, danza e circo della Mitteleuropa e che quest’anno è dedicato agli Imprevisti – tema scelto dal direttore artistico Giacomo Pedini – “Maçalizi” vede il suo debutto assoluto (co-produzione CSS Teatro stabile del Friuli Venezia Giulia, Mittelfest Festival con ARLeF – Agjenzie Regjonâl pe Lenghe Furlane), alla prova col pubblico e sarà curioso scoprire come reagiranno gli stessi friulani.
Abbiamo avuto modo di dialogare con Fabrizio Arcuri, co-regista insieme a Rita Maffei, proprio mentre era in preparazione con la compagnia, toccando vari aspetti insiti in quest’opera e come sono stati affrontati nella loro visione.
D: Com’è nato questo progetto?
«Lo curiamo a quattro mani con Rita Maffei, da cui è venuto l’input. C’era la volontà di realizzare qualcosa insieme e ho deciso di collaborare ritenendolo interessante, con delle caratteristiche curiose che mi sembrava stimolante scandagliare. Rita, da tempo, sta effettuando un percorso nell’indagare situazioni familiari, infatti, aveva portato in scena “Zio Vanja”, adesso “Il dio del massacro” e, per il futuro, ne ha in mente altri che hanno come tema principale delle questioni che avvengono all’interno di un ménage familiare, laddove il micro rispecchia ed echeggia nel macro. Inoltre, si può notare una dimensione con doppio riferimento: teatrale e cinematografico – nel primo caso “Vanja sulla 42esima strada”, nel secondo “Carnage” di Polanski».
D: Nelle sue regie ha già dimostrato uno sguardo contaminato dalla tecnologia, dall’uso della macchina da presa, anche in questo caso ci troveremo questo ‘espediente’?
«Inizialmente l’idea andava in quella direzione, poi abbiamo deciso di creare un dispositivo con caratteristiche differenti: lo spazio scenico è costituito da una scatola in plexiglas, gli spettatori sono seduti intorno per cui spiano dentro la casa e, al contempo, sono ‘scenografia’ della pièce. La dimensione cinematografica è stata un po’ traslata: non avviene propriamente in termini tecnici, ma più ideali poiché è come se ogni testa andasse a inquadrare ciò che vuole. Abbiamo voluto optare per questa scelta anche per prendere una distanza dal film di Polanski, senza togliere la situazione dell’interno borghese – in questo caso ancor più esaltato – e dall’altra parte, ognuno, a seconda del posto in cui è seduto, ha una specifica versione dello spettacolo (richiama, in parte, il meccanismo di campi/controcampi).
L’altro elemento interessante è l’aver calato tutto in un luogo – nella fattispecie il Friuli – dove c’è una lingua di appartenenza; infatti, quando la situazione inizia a diventare più animata perdono la lingua formale che corrisponde all’italiano per usare la propria essendo coinvolti su un piano più personale».
D: Ritiene che questo doppio piano linguistico sarà comprensibile a tutti o creerà una reazione di straniamento ulteriore?
«Malgrado io non sia friulano, ho notato come le intenzioni e la forza di questa lingua facciano percepire gran parte del testo. È anche vero che stiamo parlando di un’opera molto nota, la maggior parte delle persone la conoscono. Va detto che c’è un personaggio che non è friulano per cui parla sempre in italiano e, di conseguenza, quando gli altri si rivolgono a lui, tornano sempre alla lingua ‘formale’. Tutto ciò aiuta anche a far comprendere i diversi piani, rendendo morbidi i passaggi e creando una dimensione interna di reazione rispetto a ciò che si dicono più privatamente o a quello che viene detto pubblicamente».
D: Tenendo conto di questo aspetto, nel lavoro siete partiti dall’originale francese?
«Sì era fondamentale; poi l’ARLeF ha tradotto tutto il testo in friulano. Dal francese abbiamo ritradotto le parti previste in italiano, cercando di tenere conto dell’originale e della traduzione in friulano. Stanno lavorando da quasi un anno sulla drammaturgia di “Maçalizi”, anche perché tradurre significa sempre un po’ tradire: inevitabilmente certi modi di dire francesi, non sono traducibili in friulano, diventerebbero stucchevoli per cui è stato necessario trovare il corrispettivo nella lingua che restituisse la stessa dimensione».
D: Dal punto di vista delle relazioni tra i personaggi, assistendo sia al film e ancor più allo spettacolo, si avvertiva la sensazione che si formassero delle diagonali fino a degli intrecci che portano all’exploit…
«Il testo è molto chiaro in questo: è evidente che è presente una situazione di apparente serenità, poi inizia una diatriba tra le due coppie per le chiare posizioni differenti rispetto alla questione. In realtà si rivela una complicità tra le donne a svantaggio degli uomini, con un ulteriore ribaltamento di relazioni fino al finale… (che per, forse, i pochi che non hanno visto il film e/o la messa in scena precedente evitiamo di rivelarvi, nda). È curioso, grazie anche a questo doppio linguaggio, vedere come lentamente si formino delle altre complicità. In più, immaginando la pianta centrale e loro che si fronteggiano, chiaramente il cambio delle posizioni crea naturalmente delle alleanze anche nello spazio fisico. Tutto si regge su questa giostra di dinamiche e il testo riesce a rivolgersi a tutti proprio perché imbelle in maniera radicale qualunque conformismo. Ibsenianamente, questa matrice un po’ cruenta da cui partono i due bambini, viene ‘giustificata’ da tutto ciò che si verifica tra gli adulti».
D: Vi siete fatti influenzare dal film di Polanski?
«No, gli attori non lo hanno visto. Personalmente ho cercato di interpretare alla lettera le indicazioni che dà la Reza per cui ci siamo interrogati a lungo sulla seconda didascalia in cui scrive “nessun realismo”. Abbiamo calato, quindi, in un ambiente più bunueliano per cui, ad esempio, il frigorifero è vicino al water. Tutto, sia la scena (compresi gli oggetti) che i costumi indossati dagli attori, è caratterizzato da un colore dominante, il verde (non volevamo andare verso colori come rosso o giallo perché non conservano una neutralità, gli viene attribuito un significato), che crea un piccolo effetto di straniamento – ad eccezione di qualche tulipano bianco, il cui gambo è, però, verde, e due degli attori hanno dei richiami bianchi».
D: Preferisce, per il titolo dell’opera, più la traduzione “Il dio del massacro” o “Il dio della carneficina”?
«Abbiamo scelto massacro poiché riesce a essere anche dialettico, verbale; mentre il termine carneficina trasmette più l’idea di qualcosa di concreto, mi fa pensare maggiormente al ‘macello’ degli animali. Il gesto fisico esiste nella pièce, però come riescono a massacrarsi con le parole e coi comportamenti è molto più forte. In più, dovendo decidere per la traduzione in friulano, ‘massacro’ mi è sembrato più pertinente: maçalizi è una parola forte, dura, che mantiene il senso figurato, utile, a mio parere, alla comprensione del testo».
D: Come vi siete orientati in merito alla scelta degli interpreti?
«Rita, pur essendo nata a Salerno, vive in Friuli da tantissimi anni, è friulana d’adozione. Gli altri tre – Fabiano Fantini (fa parte del Teatro degli Incerti), Massimo Somaglino e Aida Talliente – sono friulani e abituati a fare teatro con questa lingua. Sono caratterialmente molto simili di indole rispetto ai loro personaggi, ad esempio la Talliente ha uno spiccato senso del sociale; Fabiano ha sempre vissuto in campagna rifiutando di vivere in città, di conseguenza non fanno fatica a credere a ciò che devono dire. Ovviamente, quando la situazione diventa più complessa, devono esplorare quella parte di loro che contiene quei determinati aspetti».
D: Cosa la colpisce della scrittura della Reza?
«L’aspetto più interessante sono queste scatole cinesi contenute all’interno di un ménage familiare, che dimostrano quanto le convenzioni borghesi non riescano più a fornire i valori necessari e quanto questi ultimi non corrispondano più alla realtà che viviamo tutti i giorni per cui andrebbero rimessi in discussione. È un’indagine non fine a se stessa, ma in cui ognuno di noi si può riconoscere nelle proprie contraddizioni. Soprattutto in un periodo come questo in cui usciamo da una pandemia e siamo entrati in una sorta di terza guerra mondiale, noto che il nostro apparire pubblico si distanzia fortemente da come siamo privatamente e, davanti a specifiche questioni, saltano le convenzioni e accadono cose inaspettate. Tra una po’ bisognerà studiare tutto questo con la giusta distanza. Viviamo in un Paese spaccato in due e nessuno è in grado di pensare a una terza via che non sia quella dell’aggressione e della difesa. Questo lavoro della Reza ci aiuta a comprendere come sia inevitabile che anche gli Stati risentano di una dimensione binaria perché questo è ciò che succede nel nucleo famigliare tant’è vero che, nel giro di pochissimo tempo, gli aggrediti attaccano l’aggressore e quest’ultimo si difende affermando che pure l’insulto è una minaccia».
Ph cover: Daniele Francesco Fona