FABRIZIO FERRACANE si è distinto in “Anime nere” di Francesco Munzi e da allora ha collezionato titoli di valore con cui si è fatto apprezzare sempre di più. Come spesso accade, però, alle spalle c’è tanta gavetta e – lo avvertirete dalle sue riflessioni – un lavoro di fino, certosino, mosso da una profonda passione per l’arte della recitazione, di cui parla con la naturalezza di chi non potrebbe farne a meno.
Abbiamo avuto modo di dialogare con lui in occasione della XXXI edizione del Noir in Festival, dove è stato presentato in anteprima “Diario di spezie”, per la regia di Massimo Donati, da cui siamo partiti per un viaggio tra esperienze professionali che si fondono con l’esistenza.
Fabrizio Ferracane e l’esperienza di “Diario di spezie”
D: È molto interessante il fattore linguistico e anche il suo modo differente di recitare. Cosa l’ha colpita d’impatto nella lettura della sceneggiatura e cosa, invece, pensa di aver dato lei anche a livello di fisicità?
«Apprezzo molto Massimo, ho letto il suo libro ed è anche un autore teatrale. Con lui abbiamo fatto un lavoro che risale almeno a due anni fa, in quanto il film avrebbe dovuto essere realizzato prima che scoppiasse la pandemia. Avevo letto le prime cinquanta/sessanta pagine del libro omonimo, mi ero fermato e ricordo che lo prese mio padre avendogli parlato di questo progetto. Forse è stato anche un bene che, in vista della realizzazione, abbia interrotto la lettura. Con il regista abbiamo avuto delle lunghe chiacchierate su Andreas Dürren-Fische e l’aspetto della lingua è stato, per quanto mi riguarda, preponderante, mi portava molto a riflettere sulla strada da trovare e so di non aver mai fatto un lavoro simile sulla lingua. Il mio credo è quello di essere credibile, in qualsiasi ruolo che incarno, perché questo mestiere è la mia vita: devo ‘corrompermi’ essendo credibile poiché, se credo io a ciò che sto rappresentando, anche chi mi guarda può crederci.
Questa lingua non è totalmente francese né completamente tedesco o olandese, era un mix. Ho contattato una mia amica attrice di madrelingua francese: lei pronunciava le battute, le registravo e me le facevo ripetere chiedendole di parlare in italiano con le ‘cadute’ e gli ‘errori’. Successivamente ho realizzato lo stesso processo con una persona tedesca. Tramite skype, ogni tot, mi sentivo con Massimo proponendogli delle possibilità di linguaggio e lui era molto contento in quanto notava che non mi stessi accontentando. A questo elemento fondante, si aggiunge l’aspetto interpretativo di un personaggio che vuole delle risposte: Andreas escogita tutta la vita a voler incontrare… [e non vi riveliamo]. Parallelamente c’è il binario della storia dell’agnellino sacrificato. Non mi sono posto alcun giudizio, facendo l’attore non posso ‘permettermelo’. Ho trovato, inoltre, davvero interessante anche l’indagine sulla pittura (Andreas si presenta come un celebre restauratore di quadri fiamminghi, nda), che amo moltissimo come ramo già di mio – ricordo alcuni lavori sui dipinti di Francis Bacon, partivamo dalle posture presenti nei dipinti trasformando in personaggi. Tutto ciò l’ho voluto portare in questo ruolo anche per trasmettere una certezza a chi avessi davanti (Luca Treves, cuoco famoso, esperto di spezie, interpretato da Lorenzo Richelmy, nda)».
D: Andreas a un tratto afferma: «Tecnica e rigore, c’è sempre un modo per cavarsela, con gli amori no». Avvicinando questa battuta (all’interno di un monologo) all’arte della recitazione, dove ci devono essere tecnica e rigore, pensa che ci sia sempre un modo per cavarsela?
«Esistono degli attori che sono talmente tecnici anche nell’esuberanza o nel costruire un colore, che può essere vita e forme diverse. Pensando al mio percorso, io non ho mai seguito un’accademia; ho seguito a Palermo la Scuola di Teatro Teatès diretta da M. Perriera Palermo. La mia formazione l’ho coltivata negli anni attraverso i laboratori – che prima duravano sui venti/venticinque giorni, adesso molto meno. Sono sempre stato convinto che la tecnica sia necessaria perché supporta nell’affrontare personaggi diversi; poi, però, va tutto dimenticato per avere la possibilità di poterti salvare».
D: Lo intende rispetto alla credibilità di cui accennava o in merito al non farsi ingabbiare in un personaggio?
«Sempre ti puoi salvare. Io mi salvo con la credibilità, con la ricerca di personaggi nuovi o, ancora, nel mio percorso di attore non facendo più film di mafia, anche se [ci tiene a specificarlo] dipende sempre da come questi vengono realizzati. Bisogna sempre studiare ed evolversi. A quest’età ho la fortuna di prendere parte a diversi lavori e, con l’esperienza di avere a che fare quasi tutti i giorni con la macchina da presa, te la cavi».
“La terra dei figli”
D: A proposito de “La terra dei figli” di Claudio Cupellini (anche questo passato al festival), un film che ti resta addosso e presentato sempre al Noir, cosa può dirci del suo Aringo? Quali segni le sono rimasti?
«La scelta di una potente scena a testa in giù è venuta da me: sui larghi c’è la controfigura; mentre sui piani stretti sono io. Abbiamo fatto delle prove, ma senza entrare in acqua perché se lo avessi fatto, al momento di girare non sarei riuscito. L’abbiamo realizzata quattro volte dopodiché non me la sono più sentita perché è davvero impegnativo recitare a testa in giù. È un dono che ho fatto a me stesso perché vederti mentre ti metti alla prova così può solo conferire forza al film e, di riflesso, a Claudio. Lui mi ha subito voluto, sin dal provino; io conoscevo le scena, ma non dove avremmo girato, a un tratto mi ha mostrato lo storyboard e così ho scoperto le location: Chioggia, Venezia, l’acqua, la palude. Conscio di queste informazioni che avevo acquisito e sapendo a memoria la scena, ho chiesto un momento per riflettere, e lì è venuta da sé la parlata di Aringo, con questa r non forte [non possiamo restituirvi purtroppo come l’abbia replicata, ma sappiate che era da pelle d’oca]. Claudio e il casting decisero di accogliere questa mia proposta. Lo porto con me come uno dei provini più belli che abbia mai fatto.
Aringo è un ‘cane’ nervosissimo, il nome è quasi parlante. Poi con il vestito che mi fecero indossare, portava a essere brutto. In più con Paolo Pierobon ero al terzo lavoro condiviso e abbiamo anche concluso una nuova avventura “Shotgun” di Marta Savino, narra la vera vicenda accaduta ad Alcamo: una ragazzina fu sequestrata da un ragazzo mezzo boss, fu forse stuprata e la costrinsero a sposarsi. Subito dopo lei scappò. Io incarno suo padre; mentre Paolo il prete».
Fabrizio Ferracane e il teatro
D: Ha realizzato diversi spettacoli teatrali…
«Spero di poter arrivare in una piazza come quella di Milano con la mia compagnia, con Rino Marino. Quest’anno ha dato vita a due testi, “La Verna” e “La consegna”, stiamo lavorando affinché possano essere prodotti e distribuiti [dalle sue parole emerge tutta la stima verso questo drammaturgo]. Nel capoluogo lombardo ci sono stato diversi anni fa con “Il feudatario” di C. Goldoni, nella riscrittura di Letizia Russo e la regia di Pierpaolo Sepe».
D: Rammarica vedere che si produca, anche spettacoli imponenti e che riscuotono successo, e poi non abbiano la possibilità di girare…
«Immaginiamo quanto siano in difficoltà le compagnie più piccole, con interpreti meravigliosi, che magari riescono a realizzare solo una o due repliche nel luogo in cui si debutta. Ammetto che sono poco ferrato sul piano burocratico, sbagliando [colpisce l’umiltà con cui riconosce anche dei ‘limiti’], anche perché ultimamente sto facendo più cinema. Poi avendo la mia compagnia Marino Ferracane, se devo spendermi lo faccio per lei perché ci credo tantissimo: realizziamo proposte poetiche, Rino è uno psichiatra per cui abbiamo dato vita anche a dei lavori sui malati mentali attraverso situazioni grottesche e comiche [sempre con rispetto]».
D: A proposito dei seminari, ha frequentato quelli con Mimmo Cuticchio, Davide Iodice, questa sensibilità che dimostra deriva anche dall’esperienza con loro?
«Ho seguito un seminario di un mese con Davide, svoltosi a San Giovanni a Teduccio e ricordo l’uso delle luci e della semplicità. Ad esempio con Rino spesso sono io a curare le luci, in compagnia non ci piace essere complicati. Lo stesso Danio Manfredini mi ha influenzato in questa semplicità: lui che pone una sedia e si cambia ne “Tre studi per una crocifissione”. Dipende sempre da ciò che si racconta, a partire dalla scrittura. Ho avuto la fortuna anche di incontrare e studiare con Emma Dante, Marco Martinelli del Teatro delle Albe… erano dei fatti».
D: Pensando allo spettacolo dal vivo e alle sale, la gente dimostra di avere ancora un po’ di timore – in particolare i cinema sono in difficoltà. Come si può vincere, secondo lei, questa ritrosia?
«Mi auguro che non sia il tempo storico-culturale che stiamo attraversando. Forse non bisogna fermarsi né stancarsi nell’invogliare il pubblico e rassicurarlo sulla sicurezza di questi luoghi; certo è molto impegnativo seguire con la mascherina per tutta la durata del film o della pièce».
Fabrizio Ferracane in “Ariaferma”
D: Tornando agli ultimi lungometraggi di cui è stato co-protagonista, in “Ariaferma” di Leonardo Di Costanzo, mi ha molto colpita sia il rapporto tra il suo Franco Coletti e Gaetano Gargiulo, interpretato da Toni Servillo sia la sensazione di mancanza di libertà che tutti voi ‘guardie’ dimostravate anche rispetto agli stessi carcerati. Ha mai provato questa percezione di ‘Ariaferma’?
«Il mio personaggio, con Leonardo, lo abbiamo pensato come colui che entrava a gamba tesa, rompendo i giochi e tirando le orecchie. Gli viene dato il comando, ma dentro di sé sbuffa. Lavorando in quella location per cinque settimane, per otto ore, in più avevamo tutto lì (compresi i camerini né uscivamo per mangiare, vivevamo tutto dentro). L’ariaferma ti arriva e la restituisci. Nel cast c’è anche Salvatore Striano, che ha vissuto alcuni anni in carcere, e spesso mi rivolgevo a lui per dei consigli sempre in nome di quella credibilità».
D: Eduardo diceva: «Fino a che ci sarà un filo d’erba sulla terra, ce ne sarà uno finto sul palcoscenico»…
«Tutta la vita. Il teatro è necessario. Mi auguro di avere la fortuna di poterlo portare avanti insieme al linguaggio cinematografico – un mezzo che mi sta permettendo di raccontare delle storie forti e belle.
Il teatro può essere accomodante, incalzante, ti può accarezzare, fa parte dell’arte».
D: Da spettatore le è capitato di vedere una rappresentazione dal vivo che l’ha dilaniata?
«“Vita mia” di Emma Dante e un Čechov di una compagnia russa, talmente poetico e potente che ce l’ho ancora impresso nella memoria. Pure portare in scena i personaggi scritti da Rino può avere questo effetto, a volte mi dico che dovrei essere più tecnico, ma vado di cuore… interpreto mia sorella rinchiusa “C’asciucaru li pinsera cu li fila n’testa… Lu sintimentu ci rusicaru”. Quando dico queste parole non riesco a trattenermi e mi emoziono, ma per fortuna, perché vuol dire che sono vivo».
Fabrizio Ferracane e i prossimi progetti
D: Quali sono i prossimi progetti in uscita?
«“Leonora Addio” di Paolo Taviani e l’opera prima “Una femmina” di Francesco Costabile».
“Leonora Addio”, unico italiano presentato in Concorso alla 72esima Berlinale, è stato insignito del premio FIPRESCI (Fédération Internationale de la Presse Cinématographique). Sia il film diretto da Paolo Taviani e distribuito da 01 che “Una femmina”, distribuito da Medusa, escono nei nostri cinema il 17 febbraio 2022.
Ph cover: Francesca Fago