FAUSTO RUSSO ALESI è un artista che sa bene cosa significa ‘mangiare’ la polvere del palcoscenico: ha cominciato su quelle tavole e cerca di non lasciarle mai, mettendosi in discussione come attore e regista. Nel frattempo, proprio come dovrebbe essere (ancor più se si hanno gavetta e talento alle spalle), sono arrivati anche bei progetti per piccolo e grande schermo, tra cui un sodalizio col maestro Marco Bellocchio che continua a rinnovarsi (ha preso parte anche alle riprese dell’ultimo lavoro, “La Conversione”). Ci auguriamo che il grande pubblico non se lo sia perso (nel caso sono tutte reperibili) in opere come “Il traditore”, “Solo per passione – Letizia Battaglia fotografa” fino a “Esterno Notte”. Con Fausto Russo Alesi si dialoga piacevolmente – tanto che bisogna ‘imporsi’ di fermarsi a un tratto oppure si è ‘costretti’ dovendo andar via per un altro impegno – perché si avverte non solo il suo background, ma anche quanto abbia voglia di ricevere un riscontro e confrontarsi sulle questioni che gli stanno a cuore. Non è casuale, quindi, che l’intervista parta da queste domande che ci introducono a un’operazione teatrale e di vita che gli è molto a cuore, “Padri e figli”, a cui abbiamo avuto la fortuna di partecipare durante la maratona a Modena nella stagione 2021-22, e che speriamo possa essere ripreso. Perché? Lo potete scoprire leggendo la nostra conversazione… per le sue parole così piene di trasporto per l’esperienza che è stata (ed è) così viva e per le domande che rilancia.
D: Quando la Russia ha invaso l’Ucraina, c’è stato un docente che ha voluto censurare gli autori russi per poi tornare sui propri passi… come vede la questione della censura applicata all’arte?
«Rispetto all’arte e all’informazione ritengo che non debba esserci mai censura. Per quanto riguarda l’informazione, richiamando anche Letizia Battaglia, l’idea è quella di un giornalismo che sappia essere onesto, concreto, dando al lettore la notizia per quello che è, offrendo strumenti per poterla leggere ma senza fare propaganda. Quindi un giornalismo che ha come priorità la ricerca della verità provando a capire fino in fondo cosa succede, quali sono le ragioni delle parti e cercando di entrare dentro le cose, senza giudicarle in maniera aprioristica e senza insabbiarle. Sono assolutamente convinto che non debba esistere la censura nell’arte. L’arte deve essere libera – mi riferisco sia alla libertà d’espressione che alla libertà di fruizione – deve far sorgere il dubbio, porre domande, far pensare e far emozionare. Ciò che ci emoziona veramente ritengo che sia la parte migliore di noi: quando si esprime attraverso le sue verità o nella potenza delle sue metafore. L’arte ci emoziona perché attraverso la distanza possiamo guardare meglio le cose rispetto a quando ci siamo, a volte, talmente dentro da non riuscire a leggerle».
D: Partendo proprio da quest’ultima sua riflessione, è come se questa presa di posizione nei confronti degli autori russi sia nata per partito preso…
«L’espressione di chi dirige un Paese non necessariamente è, purtroppo, espressione di un popolo. In ogni caso non si può etichettare nulla, bisogna andare nello specifico delle cose. Per quanto concerne la scelta di portare in scena autori russi – in questo caso Ivan Turgenev – è perché sono autori giganteschi che, attraverso il loro sguardo e la loro arte, si sono occupati proprio di indagare l’essere umano. In più va tenuto conto che l’arte è sicuramente feconda in opposizione a un malessere, a un’ingiustizia, al potere e a chi ne abusa. L’arte è una forma di resistenza e gli autori russi hanno patito sulla loro pelle le conseguenze di ciò che hanno scritto.
Per fortuna la reazione istintiva si è ridimensionata immediatamente, subito la paura di qualcosa purtroppo fa scattare una ingiustificata ghettizzazione».
Fausto Russo Alesi e il sogno di “Padri e figli”
D: Non le sembra paradossale che arrivi da qualcuno che dovrebbe avere cultura e che dovrebbe trasmetterla?
«Certo, fa parte delle contraddizione e degli errori in cui si può cadere. Sbagliare si può, ma è essenziale che lo si riconosca e ci sia un ripensamento laddove una cosa non regge. Il contesto storico in cui è nato “Padri e figli” è molto similare: si usciva dalla guerra di Crimea, c’erano scontri tra diverse ideologie, una polizia opprimente, ancora non era caduta la servitù della gleba, un clima senza dubbio molto teso e ancora difficile da leggere. Insieme al prof. Fausto Malcovati – sin dall’inizio nel progetto – e con chi ha sostenuto con entusiasmo l’‘impresa come Roberta Carlotto, Claudio Longhi e Natalia Di Iorio e poi ERT e Valter Malosti, Roberto Andò col Teatro di Napoli e il Teatro di Pordenone – ho creduto che portare in scena un romanzo come questo oggi, potesse avere senz’altro la necessità e la forza dell’universalità ma con una consapevolezza forse ancora maggiore. E questo perché credo che, affrontandolo ai nostri giorni, ci arriva ancora più prepotente un fortissimo sentimento di sconfitta – quando uscì il romanzo fu molto criticato perché nessuno ci si riconosceva: né i padri né i figli, né i progressisti né i conservatori. Partendo dallo scontro generazionale, Turgenev aveva visto in avanti, abitando proprio questo struggente sentimento di fallimento, il disorientamento del non sapere, che è qualcosa che anche a noi oggi appartiene, in maniera diversa, ma molto profondamente, in quanto sentiamo di aver implacabilmente toccato il fondo, di aver perso fiducia e di non sapere più in cosa poter credere. Certo, non è negando tutto che si costruisce e questo ce lo insegna proprio il romanzo. Si può negare per ripartire, per provare a rimettere insieme le cose, a riconsiderarle e a metterne da parte o eliminarne del tutto delle altre, però è necessario e vitale prima o poi il desiderio di costruire. Nel presente con questo sentimento di spaesamento e nel non riuscire a vedere quale potrebbe essere il nostro prossimo futuro, alla luce di tutti i fallimenti storici, ci rendiamo conto di come l’uomo continui a rifare gli stessi errori. È proprio questa la posizione di Turgenev nel romanzo: cercare di capire le contrapposizioni tra le parti cercando di riempire le distanze: una posizione per niente ideologica ed estremamente moderna. Ci ricorda una cosa che è la più semplice di tutte, la più piccola e la più grande e che, però, continuiamo a rimuovere: l’amore, insieme alla conoscenza profonda di se stessi e alla libertà di amare. Se ce lo ricordassimo, ci si aprirebbe a noi stessi e agli altri; invece purtroppo la seppelliamo e la barattiamo. Senza l’amore non esistono più ragioni forti e non c’è felicità».
D: Si riscontra anche la ferita causata dall’amore…
«Permane laddove persiste un conflitto di possesso; laddove, invece, si attua un vero confronto, quanto potremmo crescere l’uno con l’altro attraverso l’amore, l’empatia, il sostegno e il rispetto. In quanto esseri umani superare quella ferita è il compito».
D: Tra i personaggi si fa notare Pavel con questo amore per l’arte, crede nei principi della poesia…
«Tutti i personaggi sono portatori di qualcosa, di un modo di stare al mondo e sicuramente ognuno ha i suoi valori. Sono pieni di contraddizioni, ma i valori dei padri non sono certo tutti da abbandonare, alcuni sono certamente da conservare, altri da trasformare eliminando ciò che è chiaramente ingiusto e obsoleto. “Ma come si può vivere senza la Poesia, senza l’Arte, senza il rispetto per la Natura?” Forse ciò che si potrebbe imputare a questi padri è di essersi seduti a un certo punto, ma per debolezza. C’è un momento della vita in cui siamo al massimo delle nostre possibilità e penso che i ‘grandi’ sono proprio quelli che riescono a mantenersi sempre in quella zona che dialoga continuamente con il presente; gli altri, spesso la maggioranza, optano per ‘la poltrona comoda’ (che può essere comprensibile come scelta), ma che purtroppo diminuisce la forza nel perseguire determinati valori (e parlo ovviamente di quelli che aspirano alla bellezza condivisa)».
D: Ripensando a come sia nato tutto il progetto e al suo desiderio di voler mantenere, soprattutto nel primo atto, l’idea di costruzione – anche sul piano fisico – e di formazione, quanto è stato importante dialogare con i giovani attori e quanto hanno inciso nel cambiamento del copione?
«È nato come un’esperienza formativa. Per me aveva un valore enorme perché avveniva in un luogo a me molto caro, il Centro Teatrale Santa Cristina, in onore e con tutta l’umiltà dell’essere lì. Rappresentare “Padri e Figli” era un sogno nel cassetto e mi interessava approfondire e interrogarmi a fondo sulla domanda portante di questo romanzo meraviglioso: qual è l’eredità dei padri e qual è il futuro dei figli? Inizialmente volevo essere anche un attore di questo spettacolo, ma lavorandoci, ho capito che il modo migliore per stare dentro era abbracciare da fuori la mia idea, provando a restituire tutto quello che avevo imparato fino a quel momento, raccontando tutta la fortuna che avevo avuto nell’incontrare determinate persone – tra cui Luca Ronconi – e proprio a quei giovani attori neo-diplomati che si affacciavano finalmente alla professione. In tal senso, l’incontro tra generazioni era qualcosa di concreto nel mio stare a confronto con loro, e io, a mia volta, con Fausto Malcovati e con Roberta Carlotto. Mi sembrava una staffetta davvero interessante. Da qui anche l’idea, che certamente ha influito sul copione, di vedere sia i figli che i padri interpretati da giovani attori: guardare il passato attraverso gli occhi dei giovani. Nessuna produzione avrebbe investito sin da subito su un progetto di questa portata, per cui era giusto trovare un luogo in cui studiare e non un luogo qualunque ma ‘un luogo’ che si è sempre occupato di questo: di formazione, di indagare e scandagliare testi e di capire soprattutto quando questi hanno la forza e la necessità di fare un salto dal laboratorio a qualcos’altro».
D: Quali testi aveva affrontato a Santa Cristina?
«Ci sono stato per delle produzione e come spettatore. Due spettacoli sono nati lì “La modestia” di Spregelburd e “Nel bosco degli spiriti” di Amos Tutuola. Anche se non mi sono formato come allievo di Luca Ronconi, sono stato certamente anche allievo lavorando a lungo con lui all’interno dei suoi spettacoli. Tornando a “Padri e figli”, è stato un progetto sviluppatosi nel tempo (il primo anno abbiamo lavorato sui primi quattro capitoli, il secondo sugli altri tre) e chi ha visto il processo laboratoriale finito ha deciso con gioia di volerlo produrre. A mio parere bisognerebbe dare più spazio e sviluppo a progetti che partono così. Oggi posso dire che quella domanda essenziale sull’eredità sia rimasto un interrogativo aperto che ci portiamo dietro nel tempo continuando a riflettere sull’esperienza e la tradizione di cui siamo figli.
D: Qual è stato l’apporto di questa ‘squadra’ di giovani interpreti?
«Credo che ogni attore abbia dato qualcosa di personale – e io parto sempre dal presupposto che un attore sia insostituibile. Soprattutto credo nell’unicità di uno spettacolo che nasce con quello specifico attore o attrice o ancor meglio con un gruppo di attori. Impossibile pensare ad un altro Bazarov che non fosse Matteo Cecchi, per citarne uno!
Abbiamo lavorato molto anche sulla coralità e la decisione che in scena ci fosse il prof. Malcovati è molto significativa, sia perché rappresenta l’autore che ha curato l’adattamento, sia perché è una figura autorevolissima e straordinaria con cui confrontarsi: la fortuna di poterlo ascoltare rappresenta senz’altro un accesso preziosissimo e illuminante al sapere. Attraverso la presenza del professor Malcovati Turgenev diventa il protagonista, colui che si cala in ognuno dei personaggi, mettendoli in relazione e provando a comprenderne le ragioni e le contraddizioni di ciascuno. La figura della lettrice invece (Marina Occhionero, nda) diventa un tramite. L’autore stesso nomina il lettore richiamandolo a mettere insieme i fatti e a decifrare. Ho voluto una lettrice perché le donne in questo testo hanno un peso enorme, sono molto più forti degli uomini. Attraverso il personaggio di una giovane lettrice, tramite la sua sensibilità dell’oggi, lo spettatore può fare un viaggio teatrale percorrendo tutto il romanzo, dove la scommessa consiste davvero nell’andare avanti insieme, col pubblico che resta in sala e torna dopo la pausa – in questa prospettiva assistervi come maratona permette una vera immersione totale».
D: In merito alla domanda: Qual è l’eredità dei padri e qual è il futuro dei figli? C’è stata una risposta che l’ha colpita particolarmente?
«Ne ho avute tante di risposte e, come dicevo prima, non sono mai esaustive perché sono nel presente quindi in divenire. Sicuramente i Padri ci lasciano un Tempo e luoghi che vanno nuovamente abitati alla luce della vita passata. Una risposta che mi sono dato con certezza, è che la condizione del lettore è rivoluzionaria per via della capacità di ascolto che deve avere. La stessa condizione dell’autore Turgenev è rivoluzionaria, ascoltare i propri personaggi nelle loro differenze è qualcosa di estremamente vivo. Per ciò che verrà, partiamo da qua!».
D: Pensa di riprendere “Padri e figli”?
«Me lo auguro con tutto il cuore perché credo che tutti gli spettacoli debbano avere una vita… siamo arrivati al paradosso della durata di due settimane (o peggio quattro giorni). Il teatro ha bisogno di essere ripetuto sia per crescere che per incontrare quanto più pubblico possibile. Non posso pensare che questo progetto, che ha avuto una genesi così lunga e approfondita, finisca in poche repliche: è un contro senso. E poi gli attori (Daria Pascal Attolini, Marial Bajma Riva, Giulia Bartolini, Alfredo Calicchio, Luca Carbone, Matteo Cecchi, Eletta Del Castillo, Cosimo Frascella, Stefano Guerrieri, Marta Mungo, Marina Occhionero, Luca Tanganelli, Zoe Zolferino)… bravissimi, hanno dato il massimo con grande partecipazione, implicazione e impegno».
Fausto Russo Alesi: la funzione della visione in maratona
D: Thierry Salmon afferma: «Il teatro è un luogo di resistenza, un luogo che ci permette di vivere diversamente»… Cosa ne pensa?
«L’Arte non si fa solo per se stessi, credo che si faccia perché si ha il bisogno di essere insieme agli altri. Mi piace quando, tramite il lavoro che compio, si può collaborare, ci si può riconoscere in altre persone o si può imparare da chi è completamente diverso da te. Indipendentemente dal fatto che si abbia la capacità di costruire durata e di approfondire, questa professione ci dà la possibilità, nel presente, in quel momento, di fare degli incontri straordinari e di incontrarsi su un territorio stra-ordinario che non è la quotidianità. Non è scontato. Quando si ha la fortuna di entrare in intimità con persone che quasi non conosci è qualcosa di molto bello perché abbatte tante sovrastrutture che, invece, nella vita ordinaria, mettono tanti limiti. Mi ritengo molto fortunato nell’essere appassionato di questo mestiere, io lo concepisco così e spero che nulla possa contaminarlo o che io stesso non lo contamini. È una professione che permette di fare conoscenza di sé e degli altri, nello specifico teatrale avviene nel qui e ora per cui senza filtri, dando vita a qualcosa di autentico che nella finzione della messa in scena trova una relazione diretta. Nei casi migliori ciascuno si porterà a casa una piantina in erba che deciderà se e come far crescere.
La stessa cosa si può fare, anche se in maniera diversa, quando lavori in un certo modo per lo schermo… è un’attitudine».
D: Anche nella visione di “Esterno notte”, forse, la maratona aiuta ulteriormente il senso di catarsi… penso che solo Bellocchio avrebbe potuto creare quello che arriva con questa serie.
«Assolutamente si! È incredibile: un grandissimo maestro e artista, una persona meravigliosa, un autore che si confronta profondamente con ciò che sceglie di affrontare».
L’incontro e il rapporto con Marco Bellocchio
D: “Vincere”, “Sangue del mio sangue”, “Fai bei sogni”, “Il traditore”, il corto “Se posso permettermi” e “Esterno notte”. A proposito di relazioni, si è creato un filo tra di voi…
«E mi sento molto fortunato! Non posso che essere onorato per essere stato coinvolto con continuità nei suoi progetti da “Vincere” in poi.
Coltivare un rapporto, amare l’approfondimento e la durata, affidarsi a Marco Bellocchio è una grande gioia ed è scoprire un regista che ha a cuore non solo che tu riesca a restituire bene quel personaggio, ma anche che tu possa fare qualcosa che ti permetta di crescere – che sia vicina o molto lontana da te. Viviamo in un’epoca dove la maggior parte delle volte si viene scelti perché servi, invece, andare anche oltre questo, guardare le persone e le loro capacità è una predisposizione e visionarietà dei grandi».
D: Cos’ha visto in lei?
«Provando a rispondere in maniera molto concreta: credo che quando sceglie un attore per un personaggio non si muova per somiglianza fisica, non è la sua priorità, ma perché legge in te qualcosa del personaggio o del percorso che il personaggio deve fare».
Fausto Russo Alesi in “Esterno Notte”
D: Sin da subito avrebbe dovuto interpretare Cossiga?
«Ho sostenuto un provino com’è giusto che sia: sono ruoli estremamente complessi. È già importante per me la fiducia di poter rientrare in una rosa ristretta di persone che possano accedere alla potenza di quel personaggio; ancor più in questo caso quella che mi è stata data nel decidere di assegnarmelo. Ci vuole anche intuito nel sentire che quell’interprete può ‘arrivarci’: nei suoi film bisogna arrivare a raggiungere una vetta».
D: La mia percezione è stata che ci fosse tantissimo lavoro da parte vostra, ma senza il confronto con lui non sareste arrivati a quel livello…
«Con una sceneggiatura incredibile di partenza e il suo sguardo d’artista lucido e libero: siamo stati in mani d’oro. C’è un dialogo costante, profondo e misterioso con Marco e un’indicazione di partenza molto chiara».
D: Ce n’è stata una in particolare che le ha fatto sentire la chiave di volta per riuscire ad entrare ulteriormente in un ruolo così?
«È stato un grande viaggio e abbiamo abitato ogni singolo dettaglio. E poi mi ha chiesto un dimagrimento importante, che ha significato un percorso preparatorio molto denso, faticoso e immersivo. Avevo in mente il Cossiga successivo, colui che era diventato Presidente, sapevo molto poco di quello di quegli anni per cui sono andato a recuperare e studiare anche il Cossiga precedente al rapimento di Aldo Moro. Poi ho cercato di attraversare quei 55 giorni in cui lui perde tutto: il suo amico, il suo maestro, si dimette, perde la testa. Il personaggio è estremamente complesso e sfaccettato: è stato intelligentissimo, coltissimo, possedeva un sarcasmo che lo caratterizzava. Riusciva ad essere al contempo scoperto e coperto, palese e non. Questa bipolarità di cui si parla nella serie – credo che se ne sapesse poco allora – è una condizione estremamente umana e dolorosa; parallelamente è metaforica. Si tratta di un personaggio che si muove tra la realtà e l’immaginazione; si dibatte tra la ragione umana e quella di Stato, tra differenti e opposte forze in campo, la ‘fermezza’ da un lato e l’incapacità di uscire dal recinto claustrofobico della propria gabbia. In Cossiga una lettura doppia: da un lato ci sono i fatti, dall’altro i demoni».
[Sotto, nella clip tratta dalla serie, Fausto Russo Alesi e Fabrizio Gifuni in una scena tra Aldo Moro e Cossiga]
D: A un tratto, pensando anche alle parole di Moro (tra cui «C’è qualcosa di guasto e di arrugginito nella vita pubblica italiana»), ho avvertito quasi una suggestione shakespeariana…
«I personaggi di “Esterno Notte” lo sono e quella battuta da te citata è molto forte, così come le ombre e le contraddizioni che convivono nell’essere umano».
D: Viene anche detto: «Se non sei d’accordo, sei pazzo» e in questo punto non si può non pensare al Bardo
«Ma il fool è quello che cerca di dire la verità! L’idea che mi sono fatto è che le forze in campo erano davvero tante e come diceva Sciascia: “È un mare sconfinato l’affaire Moro e manca la mappa per attraversarlo tutto”. Non è semplice mettersi in quei panni e attraversare quella che è stata – ed è – anche una terribile tragedia collettiva. Senz’altro quei 55 giorni sono una ferita aperta che ci riguarda e che fa appello alla coscienza politica e al bisogno di umanità: sulla morte di Moro restano molti interrogativi e le lettere del Memoriale sono un materiale ancora incandescente.
L’opera potentissima di Marco Bellocchio non è mai ideologica e scende negli abissi dei personaggi. Il percorso di Cossiga nel film/serie, per esempio, è quello di un uomo in piena crisi di coscienza e il suo è un percorso umano molto doloroso, c’è un’immersione nella complessità dell’essere umano, che è l’unico che può provare a cambiare le cose, decidendo di fare o non fare. Sono stati inseriti squarci, immagini, suggestioni, finestre, sguardi a partire già dalla sceneggiatura che sviluppa il racconto da più punti di vista e soprattutto durante l’intero processo di lavorazione. In ogni episodio si entra con forza dentro il punto di vista di un personaggio e così ci si immerge in quelle ferite ancora vive».
D: Non so come lei, in quanto Fausto, abbia vissuto la scena del ritrovamento del corpo…
«In modo molto forte… ma non me la sento di aggiungere altro. È stato un viaggio molto intenso e preferisco tenere alcune sensazioni nel mio piccolo scrigno. Ci tengo a sottolineare l’orgoglio di aver potuto lavorare con un cast gigantesco e meraviglioso e una produzione straordinaria».
D: Mi auguro che venga visto pure da tanti giovani; è stato accolto benissimo al Festival di Cannes e nelle sale… chissà come siamo visti noi all’estero rispetto a quel momento storico
«L’occhio registico va fino in fondo dentro la narrazione di luoghi che sono scottanti. Anche all’estero è stato accolto con grandissimo entusiasmo come un capolavoro. Dopo il Festival di Cannes, ho avuto la fortuna di presentare la serie al New York Film Festival e al London Film Festival insieme a Fabrizio Gifuni. “Esterno Notte” ha avuto una vita prima al cinema, poi in tv in prima serata Rai e poi sulle piattaforme… un grande fermento, tantissimo pubblico e tante possibilità di incontro anche con le nuove generazioni!».
Fausto Russo Alesi nei panni di Nisticò in “Solo per passione – Letizia Battaglia”
D: A proposito della ricerca della verità, ha interpretato Vittorio Nisticò nella miniserie per Rai1 “Solo per passione – Letizia Battaglia” per la regia di Roberto Andò. A maggio 2022 ricorrevano i trent’anni dalla strage di Capaci e a luglio via d’Amelio; a suo parere come si fa a far perdurare nel tempo l’effetto degli anniversari – senza ridurli a quella sola giornata?
«Raccontando i fatti a chi non c’era e per non dimenticare mai per cosa sono morte queste persone. Dimenticarlo sarebbe un ulteriore delitto. Le date sono importantissime, ma non si può relegare solo ad esse; è essenziale non abbassare mai la guardia e, in questo, cercare di passare delle cose a chi non le ha vissute e/o non le conosce è un modo per tenerle in vita».
D: Lei conosceva Nisticò?
«Nel 2012 ho portato in scena “Cuore di Cactus” di Antonio Calabrò che è stato un giornalista de “L’Ora” e allievo di Vittorio Nisticò. Nel suo libro racconta, tramite una narrazione sotto forma di diario, gli anni dalla nascita del giornale fino alla chiusura della redazione, quindi restituendo anche la figura e il ruolo del suo direttore Vittorio Nisticò. La domanda che emerge e viene rilanciata maggiormente consiste nel chiedersi quanto sia necessario andare via dalla propria terra, quanto quest’ultima possa soffocare e quanto andar via possa dare la possibilità di esprimersi realmente. Quanto sia necessario vedere il proprio luogo di provenienza da lontano – in questo caso da Milano – o quanto sia giusta una lenta lotta quotidiana dall’interno, restando lì (infatti c’è una antica differenza tra i siciliani di mare e quelli di terra, questi ultimi rimangono aggrappati e ‘muoiono’ lottando o mollando il colpo; gli altri, invece, hanno bisogno di andare, magari per ritornare).
L’occasione di quello spettacolo (l’idea di coinvolgermi è stata di Andrée Ruth Shammah – era prodotto dal Franco Parenti di Milano) è stata un confronto potente e molto emozionante con le mie radici, sentivo il bisogno di dialogare con i luoghi protagonisti di quella narrazione e con le loro istanze. Così, tornando a “Solo per passione”, quando Roberto Andò mi ha chiesto di partecipare al suo progetto per il piccolo schermo interpretando Nisticò, ne sono stato emozionato, anche perché credo sia meraviglioso raccontare e portare in tv una figura come Letizia Battaglia. Purtroppo se n’è andata; ma quando abbiamo girato c’era e ha collaborato insieme a Roberto Andò.
Non era scontato che una figura come la sua – una donna così libera e fuori dalle convenzioni – venisse rappresentata in prima serata Rai1. È stato davvero emozionante e ancor più vedere le sue scene e sentire alla fine la sua voce: una voce semplicemente autentica».
D: Nel film tv la Battaglia afferma: «Siamo in guerra e dobbiamo fare la nostra parte» ed è molto bello il rapporto che si crea con Nisticò, in quanto è come se lui, allora, riuscisse ad andare oltre la questione del ‘ruolo’, dandole la possibilità…
«Ho letto di lui, ho dialogato con chi è entrato profondamente in contatto con lui e credo davvero sia stato un vero maestro per tanti giornalisti. Sono convinto che il maestro sia colui che valorizza l’allievo e che sa scoprire in lui un altro maestro.
In questo caso ha intuito il talento di Letizia Battaglia: la capacità di avere uno sguardo personale sulle cose, che andava oltre ciò che le richiedevano andasse compiuto. È anche quello che racconta la sceneggiatura: una donna devoluta alla passione, agli altri, alle minoranze. E che potenza le sue fotografie!».
D: Certo è partito tutto dalla possibilità che Nisticò dà nel riceverla…
«Nisticò era una figura autorevole nel senso più alto del termine: splendido il ritratto che ne fa Giuliana Saladino. Da ciò che ho studiato era anche irascibile, pretendeva tantissimo da se stesso e dagli altri, capace di rivedere le proprie posizioni e questo nel film tv emerge. Un uomo che ha ‘buttato il sangue’ per un’idea di giornalismo e di consapevolezza che questo mestiere abbia la forza di cambiare le cose se fatto in un determinato modo. Può buttarlo giù il potere se hai la forza di denunciarlo e se non vieni lasciato solo. Nisticò è stata una figura forse poco conosciuta, ma che ha dato moltissimo a Palermo e a quell’incredibile giornale che è stato “L’Ora”. Lasciami dire: bravissima Isabella Ragonese nel ruolo di Letizia Battaglia!».
Fausto Russo Alesi è il Padre dei “Sei personaggi in cerca d’autore” nel film “La stranezza”
D: Altra interpretazione e sempre con Roberto Andò è stato il ruolo del Padre ne “La Stranezza”, insignito del “Nastro dell’Anno” 2023 (riconoscimento che il Direttivo dei Giornalisti Cinematografici assegna ogni anno scegliendo tradizionalmente un’opera che merita una particolare attenzione per l’eccellenza e la novità).
«Con Roberto Andò ci conosciamo da moltissimo tempo e io lo seguo con ammirazione e stima da quando dirigeva quell’appuntamento importantissimo per Palermo che è stato il Festival sul Novecento. In questi ultimi anni abbiamo collaborato in tv, al cinema e soprattutto in teatro e io lo ringrazio e ne sono davvero onorato: un incontro che si arricchisce nel tempo e nelle diverse esperienze lavorative. Roberto Andò ci ha regalato un film bellissimo e commovente che racconta con dirompenza, attraverso il Cinema, la forza del Teatro. Una grande festa!
All’interno di un film sul tormento creativo di Pirandello che lo porterà a scrivere quel capolavoro che è “Sei Personaggi in cerca d’autore”, ogni personaggio anche minore è il tassello di un puzzle sul rapporto tra l’arte e la vita e sul bisogno di comunicare e di raccontarsi. Sono stato felicissimo di partecipare alla magia di quest’opera d’autore che arriva dritta al cuore della gente. E Toni Servillo, Salvatore Ficarra e Valentino Picone… strepitosi!».
Il prossimo progetto: “L’Arte della Commedia” come regista e interprete
D: In quali progetti la vedremo?
«Ne parleremo appena vedranno la luce, ma in breve posso dire che a metà febbraio debutterò finalmente al Teatro San Ferdinando di Napoli con un testo particolarissimo di Eduardo De Filippo “L’Arte della Commedia” di cui sono regista e interprete insieme a una compagnia bellissima e speciale. Un testo necessario, politico e poetico, sul ruolo dell’arte e degli artisti nella nostra società e sulla funzione del teatro di farsi veicolo delle istanze dell’essere umano.
Non vedo l’ora di poter restituire le parole di Eduardo, da cui emerge con forza che l’arte non può e non deve, come dicevamo all’inizio, essere censurata o ignorata».
Ph cover: Adolfo Franzò