Venerdì 16 luglio FEDERICA DI MARTINO porta in scena (nell’arena Cambelloti di Latina alle h 21, all’interno della rassegna Milagro) – dopo anni dal debutto (era il 2013) e ancora ci tiene (tanto da averne acquisito la produzione) – ed è importante che avvenga che teatri, festival, luoghi di cultura ed arte possano dare spazio al monologo “Cronaca di un amore rubato” tratto da “Cronaca di una violenza di gruppo”, uno degli 8 racconti scritti da Dacia Maraini e raccolti ne “L’amore rubato”.
Federica Di Martino racconta “Cronaca di un amore rubato”
D: Federica, partiamo subito dalla lingua che ha creato per questo monologo…
«La vicenda del racconto romanzato di Dacia riprende quella realmente avvenuta a Montalto di Castro nel 2006. Nel decidere di rappresentarlo (è scritto in italiano), ho sentito l’esigenza di una lingua che caratterizzasse una grettezza, un’ignoranza morale che mi sembrava molto più efficace, rendendo la storia, a mio avviso, più universale. Quindi ho creato questa lingua che è un po’ un mix tra laziale, umbro e abruzzese.
Anche oggi viviamo una degenerazione culturale non indifferente, difficilmente – ancor più tra i ragazzi – si sente usare il congiuntivo, invece ‘tutto il mondo è provincia’».
D: Ha deciso di rispettare la struttura con i punti di vista dei vari personaggi…
«Ciò che aumenta l’efficacia drammaturgica del racconto già di partenza e poi adattato da me per il teatro consiste nel fatto che la ragazzina non parli mai; bensì abbiamo il punto di vista del prete che la salva, degli aggressori, del padre (il quale afferma qualcosa di tremendo: “Io potevo capì se era un’estranea, una straniera, ma una del tuo paese… una che hai visto a crescere…” con una mentalità intrisa della crudeltà dominante) e della sua migliore amica.
Tutto ciò mi ha reso facile immaginare una favola nera, una specie di ‘girandola dell’orrore’ cioè io ho ipotizzato questa anima morta che riporta alla mente e sul corpo questi punti di vista. Lo spettacolo non ha nessun taglio naturalistico».
D: È mutato il testo dal 2013 a oggi? E come mai, tra gli otto racconti della Maraini, la scelta è caduta proprio su quello di Francesca?
«In questi giorni ne abbiamo parlato a lungo con le persone che sono venute ad assistere alle prove: purtroppo non è cambiato nulla, anzi. Non ci siamo evoluti – basti pensare anche ai recenti fatti di cronaca – ed è per questo che bisogna parlarne.
Questa vicenda, che avevo letto sul giornale nel 2006, mi colpì molto quando avvenne perché un sindaco prese 30.000€ dalle casse comunali per pagare le prime spese legali degli aggressori. Sono trascorsi 15 anni, cos’è cambiato? Nulla [lo dice con grande amarezza] ed è un peccato.
Stimo molto la Maraini e quando ho visto che lei aveva romanzato questo fatto perché ce l’avevo impressa nella mente a caratteri di fuoco».
D: Quale approccio ha scelto nel modo di stare in scena?
«La difficoltà di questa rappresentazione consiste nell’incarnare tutti i diversi personaggi cambiando solo di cappello. La mia ricerca interpretativa va sempre nella direzione della verità, cercando un’adesione completa del corpo. Ovviamente in questo specifoco monologo questa ricerca è più difficile in quanto passa per il grottesco, cercando sempre un effetto iper-realistico: ogni persona rappresentata ha un’andatura diversa, in scena ho un volto bianco e cambiando i cappelli muto postura fisica».
D: Il testo colpisce, in particolare, per alcune ‘sottigliezze’ come il fatto che il padre venga chiamato nel paese Agonia o che crei la cassa da morto..
«Ho apprezzato tanto questo racconto di Dacia perché, riflettendo pure nella prospettiva di uno spettacolo, si arriva a chiedersi: come la fai parlare una ragazzina che ha subito una cosa del genere a 13 anni? Non può parlare perciò è un’anima morta anche perché la violenza parte da colui che lei considerava come un suo fidanzato, a cui seguono coloro che pensava fossero suoi amici. Tutto il racconto prima e la sua rappresentazione dopo sono permeati da un senso di annientamento di pensiero e fisico, di chiusura della propria morale in una bara».
Federica Di Martino e i ruoli femminili
D: Federica, lei ha interpretato tante donne, dai grandi classici come Medea, Salomè, Andromaca, ecc… fino a quelle tratte dalla drammaturgia contemporanea tra cui “Kramer contro Kramer”. Esiste un filo conduttore nella raffigurazione della donna? E quanto questo può aver influito nell’approccio dell’uomo verso la donna?
«Certamente tutti i personaggi femminili citati presentano una donna che a suo modo ha sempre una contemporaneità e che, per forza di cose, si confronta col maschio. Riflettendo c’è una connessione con l’ultimo spettacolo che abbiamo finito di portare in scena a Torino a giugno (verrà ripreso, nda). Si intitola “Le leggi della gravità” ed è una ‘casualità’ interessante che affronti la stessa tematica, ma da un punto di vista ancora diverso. In quest’ultima pièce si mette in scena un maschicidio: la trama vede questa donna presentarsi in un commissariato per confessare che qualche anno prima il caso connesso a suo marito era stato archiviato come suicidio, in realtà asserisce di averlo spinto giù. Lei va esattamente dopo dieci anni, il giorno prima che cada in prescrizione e incontra un commissario che, di fatto, non vuole arrestarla una volta appurata la storia, tanto che arriva a dire: “in fondo suo marito ha suicidato lei e lei ha suicidato suo marito”. È un testo che offre notevoli spunti di riflessione come cosa sia realmente e/o moralmente giusto.
Nelle scelte che opero e anche nel mio modo interpretativo penso sempre e molto alla donna che c’è dietro il personaggio che rappresento e se posso faccio delle scelte che inducano a pensare e a parlare intorno al ruolo del femminile nella società di oggi».
La responsabilità pedagogica del teatro
D: Avverte, quindi, una responsabilità pedagogica?
«Il teatro ce l’ha. Non mi sento all’altezza di portare ‘programmi educativi’; ma certamente mi auguro che ciò che metto in scena risvegli nello spettatore degli interrogativi, a conoscere e a ricordare certi episodi. Io, da teatrante, nel mio piccolo, se posso suscitare una luce su quella che è una piaga sociale che possa portare pure qualche donna a ‘osservare’ la propria esistenza e darle il coraggio di denunciare, lo ritengo importante».
D: Se dovesse dire qual è la sua spiegazione sul fatto che alcune donne non riescano a reagire e alcuni uomini non riescano a non oltrepassare il limite?
«Lo capisco molto bene perché le donne non reagiscono perché quando ero molto giovane ho avuto un’esperienza che si avvicina a tutto ciò: non si reagisce per amore. Per citare Diane Lagarde de ‘Le leggi della gravità’: “Io speravo sempre che Jimmy potesse cambiare e non volevo che i miei figli crescessero senza un padre com’è successo a me”. Una donna spera sempre che, con la forza del proprio amore, riuscirà a cambiare l’uomo. Per ciò che riguarda la figura maschile, non sono mai stata uomo né un un uomo violento, ma Dacia lo trasmette benissimo: il senso del possesso, come se il corpo e la testa della figura femminile siano suoi, che tutto debba essere controllabile e dominabile; quando questo non avviene sopperisce con la forza e la violenza perché non ha altri strumenti».
D: Ripensando ai grandi classici, Medea ha avuto una reazione di emancipazione…
«Ha una reazione ovviamente non condivisibile in quanto ammazza i suoi figli però certamente nella sua lotta di straniera sposata a un greco subisce il suo essere donna in una terra che non è la sua. Lei porta con sé una modernità sconvolgente… c’è una sua battuta iniziale stupenda: “Donne di Corinto sono venuta perché non parliate male di me, in molti, per il loro essere solidali e schivi si guadagnano la fama di persone superbe, ma non è giusto giudicare un uomo senza prima conoscere il fondo del suo cuore”. E poi aggiunge a proposito dello straniero: “Io non amo quel cittadino arrogante che si comportano in modo odioso con lo straniero”».
D: Pensare che allora sia stato fatto un ritratto di donna così… Immagino che la sua Medea toccasse proprio questi punti.
«Sì e nell’adattamento che abbiamo realizzato con Gabriele (Lavia, suo marito e spesso compagno di lavoro, nda) – abbiamo debuttato nell’estate 2020 a Taormina – ci sono soltanto lei e Giasone, in una stanza con un letto, quindi è proprio riportato tutto allo scontro tra il maschile e femminile ed è incredibile quanto questo funzioni. Sembra Strindberg, tanto che molti spettatche non fosse Euripide. In realtà è Euripide parola per parola: tutta la drammaturgia è stata ingoiata da Medea e Giasone, ognuno di loro ha dei pezzi del coro. Mi auguro che riprenderemo presto questa messa in scena».
Federica Di Martino e l’emancipazione in quanto donna e artista
D: Quanto si sente emancipata e quanto è stato difficile emanciparsi come donna e come artista?
«La condizione della donna nel teatro contemporaneo è sempre difficile, come lo è in tutte le realtà professionali, arrivare a incarichi importanti è più faticoso. In più, drammaturgicamente, il numero di ruoli sono inferiori. Nella mia esperienza professionale inseguo l’attore consapevole. Ritengo che sia finita l’epoca del teatro di regia e che oggi viviamo dominati da quella di un teatro di burocrazia, che, in qualche modo, ho o sta schiacciando l’artista. Di conseguenza credo nell’artista completo, che ha coscienza, consapevolezza del suo percorso, delle proprie idee e dei progetti che vorrebbe fare, ma, al contempo, una percezione del mondo. Ad esempio bisogna sapere quali sono i mezzi che servono per realizzare un certo tipo di operazione o, a seconda del territorio in cui si opera, comprendere le necessità. In virtù di questo l’attore/l’attrice consapevole penso che debba riprendersi la scena e imporsi nel teatro contemporaneo».
D: E rispetto all’essersi emancipata come donna?
«Ho un’anima maschile quindi empatizzo anche con gli uomini. Mi sento emancipata e al pari di un uomo, ma è ancora difficile avere le stesse opportunità e i medesimi diritti.
D: Cosa pensa di poter fare per scardinare, per quanto la riguarda, tutto questo?
«Studiare, lavorare, informarmi ed essere super preparata. Realizzare gli spettacoli come quelli che mi accingo a fare è un passo verso…
D: Se dovesse adoperare degli aggettivi per descriversi in quanto donna e artista?
«Userei quelli che si utilizzano per descrivere gli abruzzesi: forte e gentile.