Occhi verdi per cui basta entrare in empatia per scoprire la purezza e la profondità di sguardo di FEDERICA ROSELLINI. Una voce calda, bassa, che ha voglia di raccontarsi e che sa ascoltare. Questo e tanto altro è quest’attrice e chiamarla tale è riduttivo perché è un’artista curiosa, sempre alla ricerca di se stessa e di nuove scoperte per aumentare la propria versatilità, non per gloria o concorrenza, ma per il desiderio di conoscere e conoscersi.
L’abbiamo incontrata in occasione della programmazione di uno degli spettacoli più attesi (ormai da tempo e rimandato causa pandemia) “Hamlet” per la regia di Antonio Latella, dove è lei a incarnare il principe di Danimarca.
Federica Rosellini ci fa addentrare nell’“Hamlet” di Latella
D: Come hai reagito istintivamente alla proposta di essere tu Hamlet?
«Con un’infinita gioia, è un ruolo incredibile e una grande sorpresa e poi implicava tornare a lavorare con Antonio. L’ho saputo due anni prima rispetto all’inizio delle prove nel 2020.
Avevo interpretato Ofelia sotto la guida di Enrico D’Amato, il quale è stato il mio insegnante principale di recitazione mentre frequentavo la Scuola del Piccolo Teatro. Lui, al secondo anno, era solito affrontare Shakespeare e ho sempre avuto un rapporto difficoltoso con l’Amleto personaggio, probabilmente dovuto al fatto di mettermi dalla parte di Ofelia, in parte perché avevo delle questioni. Non mi stava simpaticissimo.
Con lo spettacolo “Hamlet”, attraversandolo, è stato davvero un viaggio incredibile e, seguendo la richiesta di Antonio di non pensare ad Amleto solo in quanto personaggio, ma come opera, ha spostato il mio sguardo. In più, la decisione di metterlo in forma integrale, mi ha dato l’opportunità di scoprire degli elementi che nelle solite versioni non leggevamo, restituendomi uno sguardo di ‘un’opera mondo’. Di conseguenza il mio atteggiamento non è stato più quello di dover impersonare un ruolo che era stato già così tanto cercato e ispezionato; ma è stato quello di avvicinarmi, come essere umano, a questa mappa dell’umano».
Il rapporto con lo sguardo
D: Nel corso della rappresentazione si sentono molte volte le parole occhi, sguardo e voi, tu in particolare, le sottolineate. Quale valore hanno per te sguardo e occhi in quest’opera (e in questa messa in scena)?
«È importantissimo. Partendo dal testo è interessante il rapporto con lo sguardo in quanto, come dice Amleto nel famoso monologo di Ecuba: “l’assassino, anche senza lingua, parlerà con il più miracoloso degli organi” riferendosi chiaramente agli occhi. Questa immagine degli occhi come disvelatori dell’animo, come se l’occhio fosse inevitabilmente una porta. Ci sono due porte: una – l’occhio – sembra più disvelatrice; l’altra – l’orecchio – più facile da ingannare e avvelenare.
Per citare un altro esempio connesso allo sguardo, in un momento in cui Amleto è con Rosencrantz e Guildenstern “c’è una specie di confessione nei vostri sguardi, che il vostro rossore non ha il mestiere di nascondere”. Antonio, in questo progetto e in virtù di tutto questo, ci ha chiesto di avere un rapporto 1:1 col pubblico – per quel che era possibile – nella gestione di una parola così complessa non è sempre semplice; noi tutti ci proviamo e io essendo nel mezzo, su quell’inginocchiatoio, lo porto più degli altri. Questo implica investigare lo sguardo degli spettatori, notare come esso cambi a seconda della messa in scena che avanza: il pubblico è in un primo momento la corte, poi diventa il popolo che appare favorevole ad Amleto, ma, al contempo, è lo stesso popolo che assiste alla scena di Laerte e di Claudio non reagisce. Il rapporto del mio sguardo verso gli spettatori e del loro nei confronti della rappresentazione viene fatto ‘esplodere’».
D: È molto interessante che a un tratto Amleto giri su se stesso…
«Ci sono dei momenti in cui lo spazio rotondo del Teatro Studio diventa l’interno del cervello e dell’immaginazione di Amleto. Non a caso il IV atto è così esplosivo e quasi parossistico: è come se, improvvisamente, ci trovassimo nella sua mente. Tutte le volte in cui l’inginocchiatoio gira è come se fosse un carillon nella sua mente e ciò avviene in momenti precisi. È come se lo sguardo vedesse a 360°, togliendo un ‘cliché’ di bidimensionalità ai personaggi che molto spesso ci sono stati restituiti così, anche per una questione di pregiudizi su di loro – in sé sono molto sfaccettati. Lo spettacolo cerca di suggerire di guardare tutti loro da angolature da cui, di solito, non ci siamo messi a osservarli».
D: Qual è, invece, il tuo rapporto con lo sguardo e con la gestualità tenendo conto di questa fase professionale?
«La mia relazione con lo sguardo è molto interessante: io sono molto miope e non uso le lenti in palcoscenico perché mi piace molto che accadano delle cose che, in realtà, non si verificano. È come se venissi immersa in uno strano acquario in cui, di tanto in tanto, ci sono delle visioni e questo, a mio parere, racconta molto del mio stare in scena, del tipo di attrice che sono e del percorso che sto cercando di fare. Ho un duplice rapporto con il corpo e con la visione. Provengo da una formazione di danzatrice (ho fatto un master), oltre all’accademia, per cui ho un rapporto molto performativo rispetto allo stare sulle tavole del palcoscenico. [Ci rivela che] la coreografia sull’inginocchiatoio è pensata da me; d’altra parte un corpo così fortemente carnale, ma che diventi una visione, qualcosa di astratto.
Questo spettacolo mi ha stimolata tantissimo. Antonio, tra le varie indicazioni, mi ha chiesto di cercare un pezzo di gregoriano, ho studiato molto e ho deciso che volevo uno scritto da una donna – sono molto rari – optando per quello composto da Ildegarda di Bingen perché fortissimamente desideravo il lavoro di una mistica poiché, per ciò che avevo intuito di questo grande maelstrom (“nome dato, soprattutto in opere letterarie – dov’è stato tratto anche a usi fig. -, a fenomeni vorticosi del Mare del Nord, che si verificano spec. nello stretto, perciò appunto così chiamato, di Malström, dove si formano delle fortissime correnti di marea: fenomeni – frequenti, del resto, anche in altre parti della Norvegia – cui si attribuiva il potere di risucchiare e distruggere ogni nave che si trovasse a passare entro un certo raggio di distanza”, definizione tratta dall’enciclopedia Treccani, nda) che è questo Amleto, essendoci l’elemento di turbine, fosse importante il lavoro di una mistica in quanto segue anche il mio percorso personale di studio, di costruzione della mia attorialità e autorialità in quell’autorialità».
D: In questo momento come ti senti guardata?
«Con Antonio è molto vera e viva la relazione dello sguardo, certo sempre all’interno dell’acquario che costruisce. Mi lascia una grande libertà di proporre, improvvisare, stare e portare il mio mondo in scena e contaminarla. Tendenzialmente lo faccio quasi sempre, credo che sia una delle ragioni per cui sto lavorando tanto in questo periodo, non sono mai passiva rispetto al lavoro che porta alla rappresentazione. Con Antonio e con Andrea De Rosa, che sono i due rapporti più importanti in questo periodo per la mia carriera come interprete, è un aspetto molto più forte. Di conseguenza mi immergo in grandi lavori di ricerca e scoperta. Nel caso di “Hamlet”, ad esempio, la coreografia nasce dallo studio su cosa fosse l’inginocchiatoio quando è nato e sul misticismo, non a caso ci sono delle gestualità che richiamano immagini di mistiche inginocchiate. Ho letto che nel Seicento l’inginocchiatoio era il deserto dentro la propria casa – era proprio uno slogan pubblicitario – e mi è risultato perfetto rispetto a ciò che dovevamo fare.
Enrico D’Amato mi diceva sempre: “Magari le cose non si vedono, ma se voi avete fatto quel percorso la gente lo sentirà anche se non lo vede” e io ci credo fortemente».
D: Il monologo per eccellenza di quest’opera lo hai interpretato nel primo cambio di scena molto importante, una sorta di ring, ma anche nascondiglio, dove Amleto può non essere visto da tutto il pubblico. L’ho recepita da un lato come una scelta coraggiosa; dall’altro che andava nella linea di direzione evidenziata da Latella di riascoltare “Hamlet” per la prima volta.
«Ho sposato subito questa idea di Antonio perché, ancor più quando affronti dei personaggi del genere, ti devi un po’ spogliare del protagonismo. Io non mi sono proprio posta la questione, poi leggendo le critiche mi sono accorta che c’era un punto (positivo) sul fatto che non mi si vedesse. Siamo dei corpi e degli esseri umani in funzione di qualcosa di più grande del nostro ego e quando ti relazioni con un testo del genere, non puoi metterlo davanti. C’è talmente tanto materiale umano che, infilarmi dentro quel pozzo/cuore nero, l’ho trovato di una bellezza. Ogni sera che attraverso quelle parole mi rendo conto di una sfumatura del mio esistere che non avevo ancora colto, pur pensando che “essere o non essere” sia il monologo meno bello di Amleto».
D: Avresti voglia di condividere una delle sfumature che hai colto, magari anche che ti ha sconvolta?
«Quel monologo è stato tra i più interessanti a cui tornare rispetto a quando abbiamo interrotto le prove per via del covid. Ritengo che la vita di tutti noi sia stata mutata da ciò che è successo, per me è stato un anno particolarmente difficile e tornare a quel monologo mi ha fatto proprio pensare all’essere o non essere, come anche alla battaglia tra l’affermazione della propria esistenza e il non essere anche nell’accezione del lasciar andare, nell’accettare di essere una creatura, l’abbandonarsi anche al nostro essere una piccola cosa dentro questo mondo… Hamlet dice: “affrontare le frecce e i sassi” fra queste due istanze. Credo che questo anno ce lo abbia insegnato moltissimo, forse anche dolorosamente. Per chi ha attraversato la pandemia con una capacità di sguardo, ha senza dubbio ridimensionato l’ego di ciascuno di noi nell’accezione positiva del termine. Il bello di poter tornare a fare teatro e di poter avere queste parole da dire è anche provare a farsi veicolo di qualcosa che si è visto, osservato e qualcuno di noi ha saputo dire con parole così eccelse».
“Hamlet” e la traduzione di Federico Bellini
D: A proposito di questo, cosa ne pensi della traduzione curata da Federico Bellini appositamente per questa messa in scena?
«È bellissima! Federico ha compiuto un lavoro incredibile perché è riuscito a portare la varietà linguistica che molto spesso nelle traduzioni non veniva percorsa. “Hamlet” è un’opera mondo sia dal punto di vista dei contenuti che del linguaggio, Amleto stesso bestemmia in maniera anche in modo molto creativo. È interessante avvicinare questa lingua così bassa in un testo che ha un rapporto così forte con dio, che spesso viene pronunciato dallo stesso Amleto. D’altra parte ci sono dei momenti altissimi sul piano della parola. Incuriosisce ed è da cogliere il percorso che fa il linguaggio: gradualmente è come se si spogliasse degli intellettualismi, nel V Atto c’è qualcosa di molto carnale – nell’accezione più basica del termine -, è come se fosse andato oltre il dolore, oltre la morte verso questa consapevolezza della fine, di questo suicidio-strage, come se diventasse una sorta di ‘angelo vendicatore’ ma con una purezza».
D: Tu riesci a reggere il registro di quella scena con i teschi. Qualcuno potrebbe dire che sia quasi blasfema, invece richiami Yorick col mix del gioco dell’attore…
«È come se ci fosse un elemento di infanzia: sembra quasi la sabbia di quando eravamo bambini e c’è questo gioco della creazione pura con la morte. Nel IV atto c’era stata la disperazione per la morte, con quell’atto di acqua e lacrime».
“Hamlet”, l’udito e il sapersi ascoltare tra attori
D: Passando all’udito, spesso si ‘denuncia’ che tra attori non ci si ascolta come si dovrebbe; da voi, invece, arriva che vi ascoltate molto. Quanto questo percorso dalla lettura a tavolino, tramite questa nuova traduzione, vi ha supportato nell’ascoltarvi?
«Ci tengo a dire che questo è possibile perché è un gruppo di lavoro meraviglioso [desidera che vengano citati tutti i suoi colleghi: Anna Coppola, Michelangelo Dalisi, Francesca Cutolo, Fabio Pasquini, Francesco Manetti, Ludovico Fededegni, Stefano Patti, Andrea Sorrentino, Flaminia Cuzzoli], in cui c’è un grandissimo rispetto e sostegno verso il lavoro dell’altro – ed è un approccio raro. Non abbiamo mai provato per un istante la paura che il nostro compagno giudicasse il nostro lavoro, che non stessimo remando tutti insieme; possiamo così tanto giocare perché siamo tutti lì a combattere per questo spettacolo. Chiaramente Antonio, in questo, è capace di creare dei gruppi che abbiano una grande amalgama; anche in “Santa Estasi”, in cui eravamo in sedici, c’è stata la grande abilità di costruire un gruppo che fosse molto capace di ascoltarsi. In progetti così è fondamentale… in fondo noi siamo nudi di fronte al pubblico soprattutto nella prima parte in cui la regia c’è, ma dobbiamo molto sostenerla perché siamo soli con le parole e davanti agli spettatori. Lì l’unico modo è ascoltare e chiedere di cambiare prospettiva rispetto a quello che il pubblico pensava che avrebbe potuto vedere. Non è casuale che lo spettro ripeta più volte: “Ascolta, ascolta” così come non lo è che il veleno venga messo attraverso l’orecchio. Antonio dice sempre che una delle ragioni per cui ha chiesto il Teatro Studio non è legata solo alla visione a 360°, ma anche perché a lui suggeriva la forma di un grande orecchio… è come se fossimo tutti parte di diversi piccoli organi che sono nel nostro orecchio. A ciò si aggiunge la condivisione della parola come se fosse una ‘messa’, un atto sacro».
D: Latella durante la conferenza stampa su “Hamlet” ha dichiarato che è stato come ascoltarlo per la prima volta, anche per te è stato così?
«Sì, a tutti noi come gruppo di lavoro è sembrato di ascoltarlo per la prima volta. Abbiamo fatto un lunghissimo tavolino in cui abbiamo cercato di togliere qualsiasi idea precostituita che avevamo sul testo, sui personaggi, sulla trama. Siamo abbastanza convinti che se chiedessero a ciascuno di noi di riassumere la storia dell’“Amleto” saremmo in grado di ricostruire il plot; riascoltando attentamente ci si rende conto che è un testo che slitta completamente, è continuamente in dubbio, rispetto all’intrigo della trama non è chiaro per nulla, così come non si sa se lo spettro sia reale o meno. Lo stesso avviene per i personaggi, siamo abituati a conferirgli delle connotazioni precise, invece, noi siamo andati a scardinarli partendo da come è strutturata la loro lingua».
“Hamlet” e la relazione con il pubblico
D: Si percepisce anche dal tuo essere in scena diversi minuti prima, mentre il pubblico prende posto…
«Io che non vedo, ho molti altri modi per farlo. In quel momento guardo chiunque entra e inizio a farmi la mia mappa, quali sono le indoli delle persone, capisco tanto dalle energie dei corpi. Ho chiesto io ad Antonio di essere messa lì venti minuti prima, avevo bisogno di conoscere gli spettatori».
D: Non ci si sente ‘giudicati’ da quella tua presenza…
«La prima volta in cui mi rivolgo direttamente agli spettatori è quando faccio questa ‘povera richiesta’: “voi tutti se avete taciuto questa visione”…è quasi un voler cercare la complicità con la platea, un abbraccio, una richiesta di sostegno in questo grande viaggio anche rispetto a ciò che abbiamo appena vissuto. In alcuni punti è come se il pubblico diventasse il corpo di Hamlet se pensiamo a quando dice “nervi sorreggetemi”, “cuore mio tienimi”».
D: Forse questo spettacolo è ancora più sentito partecipandovi dopo l’anno e mezzo di covid (e ancora ne dobbiamo uscire)…
«Secondo me sì perché ci siamo trovati di fronte a qualcosa di molto più grande di noi è inevitabilmente ci siamo posti una domanda su cos’è l’essere umano, sulla nostra hybris per cui, trovarsi di fronte a un testo del genere, ora, ha un suo forte significato».
Il tempo in “Hamlet” e per Latella
D: Uno dei punti caratteristici di Latella e anche di “Hamlet” sta nel tempo/durata (da alcuni criticato perché ‘troppo lungo’)…
«Quel tempo è fondamentale per staccarsi da un approccio razionale alla visione ed entrarne in uno emotivo, che, fra l’altro, è ciò che accade nell’opera stessa. Chi vuole compiere questo viaggio deve farlo esattamente in quel modo ed è questo il viaggio di cui abbiamo bisogno. Siamo stati chiusi con i nostri pensieri e forse abbiamo bisogno di liberare qualcos’altro. È un tempo dedicato anche a noi stessi – tutte le piattaforme ci hanno abituati anche a mettere in pausa il film o la s. Abbiamo bisogno di tempo e concentrazione, i quali servono a liberare l’emotivo e noi abbiamo bisogno di uno spazio emotivo che si apra, come direbbe Amleto: “si sgeli e si dissolva in rugiada”».
L’omaggio e il rapporto coi maestri
D: Uno dei momenti più belli e commoventi è quando ti rivolgi, in quanto Hamlet, ai maestri affinché proteggano la compagnia degli attori che dovrà servire da svelamento. Ricordo che in una nostra precedente conversazione Ronconi ti aveva detto: «vai via» in un’ottica di lasciarti andare…
«Erano state parole da maestro che, secondo me, c’è stato in quell’atto. Penso sia stato una delle prese di posizione più importanti della mia vita. Ho un rapporto molto stretto con il Piccolo Teatro e soprattutto con lo Studio perché è il teatro interno alla mia scuola, ho fatto i saggi con Enrico D’Amato e ho debuttato lì con “I beati anni del castigo” per la regia di Ronconi. Ci siamo tornati con “Santa Estasi” e ci siamo con “Hamlet”, forse dei tre è il mio teatro del cuore. Per me, quindi, dentro quelle mura rotonde ci sono tanti maestri, quel momento è sempre emozionante perché è un po’ come se li salutassi – gran parte dei miei insegnanti sono scomparsi essendo di una certa età… penso a Marise Flach (curava i movimenti per Strehler), Claudia Giannotti – e, dall’altro lato se chiedessi di essere vicini a me. A proposito del rapporto con Dio, Hamlet in quel monologo afferma: “quando il buon clown, Dio lo sa, può fare uno scherzo solo se c’è l’occasione”. Quel Dio lo sa per quanto mi riguarda è struggente, è come se dicesse che c’è qualcosa tra quello che facciamo e un ordine superiore nel senso di quell’umano troppo umano che è il teatro. Lui chiude, nella fossa, dicendo: “maestri, vi prego, parlategli di questo”, è come se si riferisse a Dio, a chi ci sarà dopo».
D: È come se ti sentissi ‘accerchiato’ in un abbraccio… (quando entrano i vestiti di scena dei più importanti spettacoli diretti da Strehler e Ronconi)
«Lo vivo così come la ragazzina che sono stata per cui ho iniziato a pensare di fare questo lavoro a dodici anni e non ho più smesso, non ho avuto quasi reale al di fuori dal palcoscenico. Quello è un momento che riconosco molto perché c’è quella parte di me che ha trovato in quei fantasmi, che costituiscono il teatro, i suoi più onesti compagni di vita. Hamlet si rivolge ad Orazio con queste parole: “tu sei l’unico uomo col quale ho avuto a che fare” c’è, in fondo, quel mio aspetto del relazionarmi più facilmente coi fantasmi che abitano il teatro piuttosto che con gli altri esseri umani e con la paura che possono trasmetterti. Antonio dice che da un lato è un abbraccio, dall’altro è come se i maestri creassero una cappa che, a volte, va fatta esplodere. [In tal senso richiama due battute:] Amleto afferma: “devo essere vuoto” e ancora “come una fucina di un vulcano”».
D: Ho avvertito degli accenti diversi nel tuo modo di essere Hamlet…
«C’era un grande punto: non volendo fare un Amleto en travesti, sono la persona e la donna che sono, ho un rapporto interessante con entrambe le nature. Non mi sono posta la questione di dover performare un maschio; ma di come molte parole e azioni stessero sul mio corpo e sulla mia bocca. È molto evidente nella scena con la madre, che ha un forte elemento di misoginia, abbiamo tentato di interrogarci – e lo facciamo ogni volta – su quelle parole dette da una donna a un’altra donna. “Vergogna, vergogna, dov’è il tuo rossore?” o ancora “Inferno ribelle” sono battute che indicano una ripresa di possesso in quanto donna di quel linguaggio e di quelle cose che erano figlie di un’epoca e che, oggi, possiamo vedere per fortuna con altri occhi. Il conflitto viene mantenuto, ma è quasi un tentativo di risollevamento e riqualificazione del femminile, al contrario di com’è stata spesso visto e messo in scena».
D: Orazio Costa Giovangigli stava provando “Amleto” prima di venire a mancare e nel libro di Maricla Baggio si leggono alcune sue indicazioni come questa: «… no, non esiste sembra, le cose che sembrano si possono provare a recitare», cosa ne pensi?
«Sono molto d’accordo. Penso che il mestiere dell’attore va fatto con grande onestà, oltre a essere un mestiere bellissimo. Quando sei un po’ più piccolo pensi che sia necessario costruirsi delle maschere, anche in scena; poi impari che è un lavoro di costruzione, ma nel lasciarsi attraversare. Non può sembrare: deve essere e devi essere. Credo che uno dei momenti più importanti, che è un inizio di maturità, è quando tu in scena stai, con le tue fragilità e le tue forze, ti fai attraversare da chi ti viene a guardare. In questo il teatro è com’era alle origini: una forma di sacrificio perché permetti allo spettatore che il tuo corpo e il tuo sguardo siano il veicolo di quel viaggio. Ogni sera devi ricordartelo e trovare le forze per stare lì ed essere e non proteggerti e non difenderti. All’inizio sono quella ragazzina timida che dice: “aiuto, aiuto, devo lasciarvi entrare” (si riferisce a quando fa il proprio ingresso il pubblico, nda); però poi col tempo si impara».
Lo stare in scena
D: Sempre nello stesso testo, mi ha colpita quest’altra affermazione: «chi interpreta non sia soltanto un individuo geniale, simpatico, ricco di fantasia, ma anche un artigiano capace di esercitare la sua voce, consapevole che egli è lo strumento di se stesso». Quanto senti vicine queste parole?
«È assolutamente così e si ricollega al discorso precedente. Tendenzialmente io cerco sempre di prepararmi e studiare circa sei mesi prima di un progetto. Quest’anno in cui sono stata a casa ho studiato illustrazione e ho fatto paul dance; due anni fa sei mesi di master di danza, da cui mi arrivò la consapevolezza che se posavo la pianta del piede in un modo diverso la mia emotività cambiava. Ho imparato a suonare nuovi strumenti. Questa è una forma di artigianato ed è anche la ragione per cui sono molto rigida rispetto alle abitudini degli attori: noi siamo uno strumento, è come un violinista che cura il suo violino. In più noi siamo uno strumento sia come anima che come corpo. È un viaggio andata e ritorno: tu educhi la tua anima per il teatro e quest’ultimo ti insegna delle cose per la tua anima e uno degli aspetti è proprio la mancanza di giudizio».
D: In passato ci sono state grandi attrici che hanno incarnato Amleto; vista la fluidità di generi, tu non hai visto le precedenti versioni?
«So che l’ha fatto Elisabetta Pozzi, ma io ero veramente molto giovane. Ricordo, però, che a diciotto anni, a Treviso, ho assistito alla versione di Lella Costa, in cui lei faceva il suo teatro, io già volevo fare questo mestiere, e in quell’istante ho pensato: vorrei diventare brava come lei. Non mi sono fatta influenzare dai precedenti. Com’è successo per “Baccanti” mi sono domandata su cosa il mio essere una donna che lo faceva avrebbe potuto aggiungere – in quel caso avevo pensato che poteva portare in Dioniso uno specchio di sua madre Semele e che quel bambino morto e fatto resuscitare avesse in sé quella traccia della madre.
Il mio corpo è un ‘passero’ ma anche con un’energia e forza importante e poi, ammetto, ho pensato: finalmente! Perché amo avere una carriera parallela d’attore e d’attrice. Dal punto di vista del teatro performativo abbiamo dei corpi che raccontano da molto questo aspetto; ma in quello di prosa forse meno e penso che sia arrivato il momento di poter attraversare ruoli che sono sempre stati maschili, portando una luce diversa, mischiando le nature perché viviamo in un mondo che lo fa, che fluisce da un genere all’altro. Ritengo che siamo fuori tempo massimo ma che possa essere una nuova possibilità».
“Carne blu”: in uscita dall’8 luglio
D: Se dovessi pensare a un altro ruolo come attore?
«Non lo so [è molto concentrata su “Hamlet”], ma spero che arrivi. Posso dire che, durante la pandemia, ho dato vita a un libro, “Carne blu” con la supervisione di Nadia Terranova e Fiona Sansone (in uscita l’8 luglio con Giulio Perrone Editore): si tratta della riscrittura dell’Orlando dal Furioso a quello di Virginia Woolf. Una fiaba nera con un piccolo protagonista maschile, ma che poi si scopre in continua metamorfosi tra maschile, femminile e l’interspecie. Credo che il nostro mondo stia andando oltre la dicotomia maschile-femminile».
D: Come dicevi prima, probabilmente siamo fuori tempo massimo, ci sono ancora tanti pregiudizi, ma forse voi artisti riuscirete a veicolare tutto questo…
«Quando abbiamo fatto “Nella solitudine dei campi di cotone” con Andrea De Rosa a un certo punto qualcuno scrisse: il problema di questo spettacolo è che è una donna, ma vengono mantenute le desinenze maschili. È una lotta che porto sul mio corpo e sono felice di farla».
D: Come hai preso consapevolezza di tutto ciò?
«Chiaramente è legato al mio percorso. Per me è iniziato con “Testo Tossico”, una co-regia con Francesca Manieri e poi ho fortemente voluto realizzare “Baccanti” con Andrea (De Rosa, nda) perché ho intuito che quello sarebbe stato l’inizio di una parte del mio percorso. Il punto è porre la questione e credo che, alla lunga, libererà uno spazio».
D: Hai studiato musica, prima accennavi alla tua ricerca in merito al canto gregoriano, se dovessi dire qual è il brano che più ti rappresenta in questa fase?
«Non so dirne uno nello specifico. Sono molto legata a un momento pop come “Voce” di Madame perché ho trovato anche molto bella la sua performance. Io ascolto tantissima musica, da Patrizia Laquidara a quella classica da cui provengo. Un altro pezzo che amo molto è “Girl With One Eye” di Florence + The Machine – a proposito del discorso dello sguardo. Per me la musica è una delle parti dell’anima. In più sono convinta che più discipline si conoscono, più mondi si attraversano, ad esempio durante il lockdown mi sono diplomata illustratrice».
D: Pensando al periodo covid e, parallelamente, alla responsabilità artistica, concludiamo con un’altra riflessione di Costa: «il teatro è una delle poche strade rimaste all’uomo per salvarsi». Cosa ne pensi?
«L’ho sempre pensato, anche prima della pandemia perché è la mia storia. Il teatro è stata la mia salvezza e sopravvivenza. Credo che sia molto vero e, in fondo, in questo infinito anno abbiamo attraversato un’infinita solitudine perciò ritengo che sia un posto dove incontrare altri esseri umani e condividere un attimo di bellezza».
Federica Rosellini e i prossimi progetti
D: Dove potremo vederti prossimamente?
«Il 5 settembre debutto ad Asolo con una fiaba nera (mi sto interessando molto all’infanzia), per ora in forma di reading, “Ivan e i Cani” di H. Naylor (traduzione di Monica Capuani) ed è un testo dell’anima con l’idea di farlo crescere. È uno spettacolo molto commovente che, a mio parere, ci parla dell’oggi.
“Solaris” di David Grieg (trad. di M. Capuani) l’ho fortemente voluto e verrà ripreso verso novembre; così come sarà ripreso presumibilmente a febbraio “Nella solitudine dei campi di cotone” diretti entrambi da Andrea De Rosa».
Ph cover: Attilio Marasco