FRANCESCO CENTORAME ha avuto un exploit grazie a un film italiano che ha segnato la stagione cinematografica 2023-24, conquistando anche l’estero. Ci riferiamo a “C’è ancora domani” di Paola Cortellesi. Alle spalle il giovane attore ha una solida formazione iniziata con la Scuola di Recitazione S.M.O di Giampiero Mancini (Dizione, breaking emozionali, biomeccanica, movimento scenico, espressione mimica, straniamento, metodo Stanislavskij, Checov), arricchitasi con il metodo mimico di Orazio Costa appreso da Boni e Prayer e tanti stage anche con casting Director. In questi giorni è in scena con uno spettacolo da Gaber e Luporini che gli è particolarmente caro e domenica 6 ottobre debutta in prima assoluta al Centro Candiani di Venezia con un lavoro su Marco Polo (ricorrono i 700 anni dalla scomparsa).
Francesco Centorame: Io quella volta lì avevo 25 anni
D: Francesco, hai lavorato con Alessio Boni e Marcello Prayer, che hanno proposto uno spettacolo con le parole di Gaber, è una coincidenza?
«Stando insieme ho scoperto che anche loro erano dei grandi appassionati. Io avevo 16 anni quando ho scoperto Gaber, è capitato casualmente in terapia attraverso un pezzo che si intitola “L’elastico”. Da lì ho iniziato a ricercare sempre di più nei i suoi testi e pensieri per ritrovarmi vicino a lui».
D: Qual è il link che vuoi creare col pubblico attraverso “Io quella volta lì avevo 25 anni”?
«Il link è presente nel testo stesso, soprattutto nell’epilogo che vorrei non svelare augurandomi che possano esserci nuove date (ci sta lavorando Elena Marazzita su AidaStudioProduzioni). In più è uno spettacolo che Gaber e Luporini non hanno mai potuto mettere in scena quindi è come in qualche modo farsi portavoce di alcuni pensieri. Vengono rilanciati tanti dubbi e interrogativi: sul perché sia stata ammazzata la Resistenza, non ci sia stata una lotta contro l’intervento dell’individuo, contro l’oggetto che è diventato più importante».
D: Riesci a intercettare anche i giovani?
«Fortunatamente trovo sempre un pubblico molto eterogeneo e mi fa davvero piacere perché questi interrogativi muovono un po’ le coscienze perciò è bello arrivare al sedicenne così come al sessantenne. Adoro rivolgermi anche ai ragazzi della mia età o ancora più giovani e presentargli due uomini che hanno scritto e detto cose che per me sono state un grande spunto».
Francesco Centorame: Marco Polo. L’immaginabile, il viaggio e il sogno
D: Dialogando con Debora Pioli, autrice di “Marco Polo. L’immaginabile, il viaggio e il sogno”, è emerso come sia con lei che con Elena Marazzita vi siate trovati proprio su una comunione di intenti: il richiamo (nel senso più propositivo del termine) anche all’ascolto. Tu come vivi il recital?
«Oltre che con la Fondazione Gaber, anche con Debora si è creato un legame molto forte in cui, prima di trovarsi d’accordo su cosa e come farlo, c’è un legame umano. Si sceglie di raccontare personaggi che sono state persone. Penso che dal punto di vista dell’ascolto, il lavoro dell’attore consista nello sparire dietro alcune parole così come nel renderle carne, vive, soprattutto attraverso il metodo mimico».
D: Qual è lo spunto che desideriate arrivi nel caso di Marco Polo?
«Il viaggio che accomuna ognuno di noi, un viaggio che non per forza deve essere fisico in un luogo, può essere anche un viaggio che ti spinge ad attraversare un’emozione, un sentimento, un periodo di vita. Con Debora abbiamo lavorato tanto su questo.
Questa proposta nasce per celebrare Marco Polo, ma, se vogliamo anche noi perché ognuno di noi è un piccolo grande, uomo nel proprio viaggio. Il testo prevede dei brani brani tratti da “Il Milione”, il finale è assolutamente affidato a Italo Calvino perché c’è un passaggio ne “Le città invisibili”.
D: Un bel connubio
Il concetto è questo…
[e ci offre la lettura di un passo]:
Restituisci gratitudine e meraviglia, tu ne sei l’attore.
Reagisci, soprattutto quando sentirai la vita come un sopruso, intrappolato negli ingorghi, negli sconforti, nelle abitudini fredde, davanti ai muri nelle sale di aspetto e sui treni pendolari.
Ascoltami, cosa sono i più estremi confini del mondo? Le loro città, gli idoli che ho portato con me dentro gli occhi? Cosa sono rispetto all’infinito che conservi nel tuo abisso?
Tu lo sai?
Sono lì, io li vedo…luci e ombre, un vortice, tutte le meraviglie… le meraviglie del mondo.
Questi sono un po’ i temi su cui abbiamo lavorato.
E continua:
Tu puoi “scrivere” il tuo racconto e renderlo leggendario perché ognuno è uno, ed è leggenda. Vogliamo ricordartelo e a nostra volta ricordarci che la letteratura questo fa: memoria di noi.
Questo è il “Marco Polo: l’immaginabile, il viaggio, il sogno” che sto scrivendo, e che attraverso le variopinte impressioni rapite dagli occhi del viaggiatore veneziano ci ricorda di non tralasciare il sublime e l’inferno del nostro quotidiano.
Ma non era “solo” l’Oriente.
De “Il Milione perduto”, trascritto con cura dal buon Rustichello da Pisa nelle carceri di Genova, facciamo tesoro di un distillato archetipico così intenso e vivo che è Maestro attraverso il tempo.
Quel viaggio siamo noi, e il distillato è simbolo della complessità e del disordine della realtà. Le parole di Marco Polo, come le nostre, sono un tentativo di trovare un ordine, un senso, un perché: il coraggio di vivere, malgrado la morte e la vita.
Si torna proprio da dove siamo partiti all’inizio di questa intervista: gli interrogativi che vengono rilanciati».
D: La percezione che ho avuto parlando con Debora e ascoltando adesso te, è che l’intento sia quello quello di voler evocare qualcosa di ‘grande’ per toccare intimamente ognuno di noi.
«Si cerca di arrivare a tutti senza esclusioni perché quando si reagisce si lasciano tracce del proprio viaggio, anche la lumaca lo fa, che pur silenziosa si sposta lenta».
D: La responsabilità che senti in quanto artista sta nel fatto che portare in teatro questa letteratura voglia dire lasciare un’ulteriore traccia?
«Sì, io lo vivo e l’ho sempre vissuto così. L’unico senso che continuo a trovare nel mio lavoro è quello di essere al servizio di qualcos’altro. Come un portatore della parola, essere un tramite che cerca di incarnare e mettere il fuoco su alcuni temi.
D: Facendo mente locale su quello che hai attraversato come viaggio, cosa pensi di aver costruito fino ad ora?
«Un viaggio sicuramente molto complesso che non ti rende facile fare delle scelte. Per me non è semplicemente un lavoro, è qualcosa che un po’ va oltre. Faccio fatica a rispondere in maniera lucida perché lo sto vivendo e sto imparando a muovermi dentro la vita, dentro gli imprevisti.
Forse questo è anche il senso del viaggio di Marco Polo. Imparare a stare nelle cose che si vive e apprendere il significato che poi, spesso, è la vita. Il tutto cercando di esserne in qualche modo il capitano, di guidare in autonomia senza farsi influenzare più di tanto da tutto ciò che ci circonda, soprattutto oggi con questo bombardamento mediatico, con social network, con tutti questi stimoli che non fanno altro che allontanarti dal proprio sentire, dall’ascoltarsi.
D: Si può dire che si crei un cortocircuito con lo spettatore?
«Ci sono cose che quando provi magari in una sala vuota suonano in maniera completamente diversa rispetto a quando un teatro è pieno e ci sono anche delle energie che si uniscono. Sicuramente s’innesca un nutrimento reciproco, che aiuta la parola a diventare realtà».
Francesco Centorame: Ho paura torero
D: Riprenderai “Ho paura torero” di Lemebel, diretto da Claudio Longhi, che ha ottenuto un grande riscontro nel corso della scorsa stagione (in scena al Piccolo – che lo produce – dall’8 al 23 marzo 2025 e poi all’Argentina di Roma). Cosa ha smosso un testo/uno spettacolo così?
«Senza dubbio è andato ad alzare il volume dell’ascolto sociale in una responsabilità sociale e politica. Si toccano corde di un teatro politico che raramente ho visto per cui fare poterlo vivere e soprattutto metterlo in pratica nel quotidiano mi ha dato tanto, mi ha arricchito dal punto di vista umano. Ti spinge anche ad avere molta più attenzione nelle scelte che fai. Ritengo che questo mestiere si possa fare in due modi: il primo è imparare alcune tecniche e semplicemente metterle in pratica senza farsi influenzare troppo, il secondo è andando in profondità nella ricerca, nel mettersi in gioco, nel diventare parola, nell’incarnare un messaggio. Questa seconda strada comporta veramente delle responsabilità perché nella propria vita rimbomba tanto, cambia prospettive, offre punti di vista diversi».
D: È un teatro politico, non solo per il periodo storico in cui è ambientato (siamo nella Santiago del 1986 schiacciata dai pattugliamenti, con da una parte il Fronte patriottico Manuel Rodríguez e dall’altra il generale Augusto José Ramón Pinochet), ma anche per quanto ci parla ancora oggi di questioni che ci riguardano…
«È come rendersi conto, a un certo punto, che la coscienza può essere allargata ancora di più e lì allora c’è una crescita, credo, dell’individuo e di conseguenza della collettività. Io credo che questa professione, almeno per come lo intendo io, abbia questo scopo qui: se io posso in qualche modo essere un veicolo attraverso il quale una persona rivede se stessa e si mette in discussione, allora il mio lavoro ha un senso. Anche semplicemente portando un messaggio facendo sentire una persona che non è sola nella sua guerra, un po’ come in un viaggio di Marco Polo».
D: È importante che andiate in tournée. La nuova legge ha creato delle questioni distributive e il pubblico non è abituato a muoversi per uno spettacolo teatrale così come lo fa per un concertop».
«Io e Lino (Guanciale, nda) rimanevamo spesso dopo lo spettacolo a salutare il pubblico, a ringraziarlo. C’era gente che veniva veramente da tutte le parti, dalla Sicilia anche e questo mi ha colpito. Si è creato un gran movimento, però mi preoccupa più che non siano le istituzioni e i teatri ad andare dalle persone in un momento di vita così complicato nella pratica quotidiana per tutti. L’iniziativa di Teatro Fuori Porta del Piccolo Teatro è un esempio lampante del teatro che nutre la città nutrendo il singolo. Se non parte da chi ne fa uno scopo di vita, da chi dovrebbe partire? E si ha una risposta del pubblico molto gratificante, è un pubblico puro, attento, che non viene perché non sa cosa fare quella sera, lo fa perché c’è quella sera, altrimenti poi non c’è più niente.
Quando vai nei posti dove, secondo me in maniera molto sbagliata, non si alimentano più le coscienze attraverso i teatri, ti rendi conto che c’è una risposta attiva e presente, c’è il desiderio che spinge poi a muoversi».
D: In “Ho paura torero” c’è anche il sogno così come in Marco Polo, seppur con declinazioni diverse.
«Sì, sono punti di vista sul mondo che cambiano da occhio a occhio».