Confrontarsi con FRANCESCO MONTANARI significa aprire tante porticine sul mondo, attraverso innanzitutto il suo amore per il mestiere dell’attore e la cultura di cui è intriso (anche come ‘semplice’ lettore), che emerge con grande spontaneità (senza alcuna intenzione di farne sfoggio). Abbiamo voluto dialogare con lui in occasione dell’iniziativa della lettura scenica de “La metamorfosi” di Kafka in occasione del centenario della morte dello scrittore boemo (prodotto e distribuito in esclusiva da AidaStudio Produzioni). Ad accompagnarlo Maurizio Camardi (sax, duduk, elettronica) e Jacopo Conoci (violoncello). L’appuntamento è per il 20 ottobre al Centro Culturale Candiani di Venezia Mestre.
D: Francesco, qual è stato il suo impatto con l’adattamento curato da Debora Pioli?
«Credo che abbia fatto un grande lavoro. “La metamorfosi” non è molto lungo, però stare entro un’oretta di lettura orale è complicato perché sembra essere tutto fondamentale e non è semplice decidere cosa tagliare. È abbastanza fedele, si vuole consegnare il testo così com’è in modo tale che quel processo di preferenza lo compia il fruitore. Io lo condivido come approccio; se fosse stato fatto un adattamento per uno spettacolo agito, in quel caso la regia può assumersi la responsabilità di un punto di vista. Con questo progetto si vuole restituire l’autore così com’è, anche perché parliamo di Kafka, ma temo che purtroppo in molti non l’abbiano letto, non siamo più ai tempi di Calvino che scriveva che kafkiano è un termine ormai obsoleto perché usato ogni quarto d’ora. Si conosce Kafka perché a scuola qualcuno ti ha detto che è stato un grandissimo autore, magari ti ha imposto la lettura di qualche libro, però – in particolare le nuove generazioni – non hanno questa conoscenza effettiva dello scrittore. Alla luce di questo penso che ci sia necessaria una riscoperta».
D: Rispetto alle ossessioni che emergono in questo romanzo, quali sono i punti di contatto con il nostro presente?
«Sicuramente un elemento essenziale, che parla molto a me, è questa tremenda sensazione di solitudine. Nel romanzo di Kafka c’è il parossismo: lui è diventato quasi un alieno, uno scarafaggione gigante. Ecco, a mio parere, c’è un grande senso di solitudine oggi perché forse c’è troppo rumore intorno. Mi pongo sempre mille domande, forse anche troppe… Riscontro un senso di incertezza del quotidiano proprio. Non mi riferisco al precariato, all’economica – quelle sono tutte conseguenze. Ormai viviamo in questa società del profitto, del reddito, quindi quello ci rende forse schiavi di una corsa reale. Mi rendo conto che c’è un’esigenza reale di condivisione. Dopo il Covid il teatro ha vissuto un momento molto proficuo così come tutte le manifestazioni live».
D: Quale spiegazione si è dato?
«L’uomo è un animale da branco, compreso l’eremita che sa che da qualche parte c’è un branco, nel momento in cui lui volesse potrebbe andarci. Penso che si stia verificando l’ineluttabile fine della crescita dell’età adulta in questa società. Se ci pensiamo a vent’anni magari sono avvenuti tanti incontri che si denominano addirittura come amici, un po’ con speranza, un po’ con illusione, perché si pensa che quella sarà la propria dimensione. Poi più si cresce, più c’è una scrematura naturale dei rapporti e, volente o no, ci si ritrova veramente con pochi punti di riferimento nel quotidiano. Tornando alle ossessioni presenti nell’opera di Kafka direi che c’è un’ossessione quasi del bisogno di un contatto. Il romanzo si apre con lui che ha questa difficoltà comunicativa, questa paura di mostrarsi per quello che è, è confuso: è avvincente nella misura in cui è estremamente contemporaneo».

D: Rispetto alla questione dei rapporti umani, si affronta anche il conflitto padre e figlio (un padre che lo voleva inserito nella vita borghese). Pensando anche agli ultimi spettacoli che ha fatto, tra cui “Amleto” all’Estate Teatrale Veronese, dove si è sentito maggiormente messo in crisi?
«La crisi fa parte del processo creativo. Quello purtroppo è un momento che sai che arriverà, lo temi e anche avendo fatto tante ore di palcoscenico, continui ad avere l’ansia, la trasformi in altri modi… Come dice Amleto: l’abitudine cambia persino la natura delle cose o delle persone (come si vuole a seconda delle traduzioni del momento). Ci credo molto in questo. Detti ciò, quando si affronta un testo, soprattutto questi mostri sacri (che si avvertono così perché l’eredità culturale ce li ha consegnati come tali), ci si chiede: “Ma oggi serve rappresentarla? Oppure è solo un obiettivo individuale?” (esistono quegli obiettivi che nella carriera di un artista di questo settore sembrerebbero immancabili). Nell’Amleto di cui si parlava (regia di Davide Sacco, nda), avendolo fatto e avendo visto quello che è accaduto a Verona, c’è sempre una necessità se ci si approccia in maniera onesta; a prescindere dal tuo bisogno di attraversare quell’avventura e dalla tematica che può avere un regista – il quale mette più luce su un testo -, è talmente ricca la questione che il pubblico comunque trova la propria necessità.
Riconosco di essere fortunato perché ormai sono tanti anni che faccio teatro e ho anche un pubblico fidelizzato che torna più volte a vedere lo stesso spettacolo, anche in luoghi diversi, e ogni volta c’è un’attenzione a degli elementi che magari la prima volta non l’aveva toccato, invece la seconda sì, oppure c’è una delusione perché magari la prima volta aveva sentito più suonare dentro di sé delle voci rispetto a quest’altra volta. È tutto dovuto all’esperienza del condividere, che rimane immortale e prezioso. È una conferma che l’uomo, con tutte le caratteristiche individuali e le difficoltà che si presentano nel corso della vita (dai traumi alle delusioni, la paura, la voglia di non soffrire), è una calamita che mette in luce un aspetto di te».
D: A ideare il recital “La metamorfosi” è Elena Marazzita (cura anche il coordinamento artistico). La percezione che ho avuto è che lei voglia usare questa ‘forma di spettacolo’ nella speranza di riabituare chi viene ad assistere anche all’ascolto.
«Sicuramente. Elena è una donna estremamente colta, amante della poesia e della letteratura e la sua necessità è condividere ciò che la appassiona. È il suo investimento di vita. Lo fa da tantissimi anni ormai, ci tiene a scegliere l’autore, l’adattatore, il ‘lettore’/interprete, i musicisti, la location. Condivido con lei il fatto che l’essere umano si nutre di storie, poi ci sono pochi fortunati che hanno delle attitudini a raccontare queste storie, ma anche chi lo fa è in primis bisognoso di storie a sua volta e quindi diventano esperienze. Questi spettacoli sono delle chicche, nel senso che non hanno una struttura scenografica imponente, c’è una voce e c’è un corpo e ci sono i corpi che portano anche una musica, la musica si intreccia con le parole e con quella storia, quindi è effettivamente un’esperienza sensoriale».
D: Com’è caduta la proposta proprio su “La metamorfosi”?
«Con lei ho fatto “Processo a Shylock”, in cui Shylock racconta tutta la vicenda de “Il mercante di Venezia” dal suo punto di vista. Lei sa che sono un grande lettore, c’era questa ricorrenza e io ho accolto la proposta perché è stata anche una riscoperta. Avevo letto questo romanzo tantissimi anni fa, penso addirittura al liceo. Queste sono occasioni, anche gli audiolibri che incido, per riscoprire o scoprire storie che non avevo mai affrontato o con cui mi ero rapportato tempo fa, ma con un’altra crescita e un’altra mentalità. Sono sempre opportunità che mi piace sposare perché ci si nutre con una consapevolezza diversa.
D: Diventa un’occasione non solo di rilanciare la questione dell’ascolto della parola, ma anche di prendersi del tempo – forse anche per questo si trascura la lettura…
«Quando cominci a leggere un libro hai la sensazione di perdere tempo all’inizio, infatti si relega ai momenti di svago quando si è in spiaggia. Se ci si sofferma, però, a pensare in cosa sia stato investito quel tempo non riservato alla lettura… Questo con la visione di serie o film su piattaforme non accade perché si delega; è chiaro che la lettura è uno sforzo rispetto a una fruizione ‘passiva’ dell’audiovisivo o rispetto all’audiolibro o al podcast magari che si ascoltano quando si è in in viaggio, quindi è sempre di contorno a un’attività primaria. Nel nostro Paese è un fatto. Quando si propone un recital, chi lo porta in scena è responsabilizzato, ma anche lo spettatore sente che sta investendo del tempo in un’economia (anche blanda se vogliamo) per vivere quest’esperienza e questo fa parte di una ricchezza comunicativa».
D: Francesco, concludiamo coi prossimi impegni teatrali?
«Riprendo da gennaio con Lino Guanciale “L’uomo più crudele del mondo” (scritto e diretto da Davide Sacco, nda). Dopo il debutto al Campania Teatro Festival, andrò in tournée con “Il medico dei maiali” (tra le tappe anche il Carcano di Milano dall’8 al 13 aprile, il Quirino di Roma dal 22 al 27 aprile, il Gioiello di Torino dal 2 al 4 maggio per concludere al Celebrazioni di Bologna 9-10 maggio, nda) e a marzo 2025 debutto con uno spettacolo prodotto dal Piccolo di Milano, sono molto felice di questo monologo – sono stato scelto dal regista».