“Fuga a tre voci” è uno spettacolo complesso per i fili messi in campo e per le sottotracce che ognuno di noi potrebbe rintracciare (comprese quelle soggettive); ma è, al contempo, di una semplicità disarmante per la potenza emotiva ed evocativa che rilancia dal palcoscenico.
Fuga a tre voci: sinossi
Hans Werner Henze e Ingeborg Bachmann si incontrano per la prima volta nell’autunno del 1952. Nati a pochi giorni l’uno dall’altra, non hanno che ventisei anni, entrambi stanno tentando di emergere nella scena artistica del dopoguerra, in una Germania ancora in macerie. Il compositore riconosce subito nella giovane scrittrice un’anima affine e una compagna di ricerca poetica: Inge sa dire con le parole ciò che Hans Werner vuole esprimere con i suoni. Inizia una collaborazione feconda e un’amicizia che si protrae per oltre due decenni, caratterizzata dall’entusiasmo, da una continua ebbrezza di vita, di lavoro e, presto, anche dalla disillusione e dall’infelicità. In una complessa partitura a due voci – nella quale se ne inserisce una terza costituita dalla musica di Henze – sfilano momenti di gioia e grande affetto e ogni collaborazione o scambio intellettuale fra i due lascia tracce ben più profonde di quanto il tono spesso svagato lasci supporre. Dove si sfidano i temi caratterizzanti l’opera e le ossessioni di entrambi: l’odio per la Germania nazista, la fuga verso il Sud e la libertà mediterranea, l’isolamento e l’impegno politico, l’ambivalenza della fama e del successo che avranno entrambi, la violenza degli istinti e la gioia della bellezza, la ricerca di un equilibrio tra opera, vita e amore.
Fuga a tre voci: recensione
Liberamente ispirato a Ingeborg Bachmann – Hans Werner Henze “Lettere da un’amicizia” (traduzione di Francesco Maione, a cura di Hans Holler, EDT, Torino 2008), Marco Tullio Giordana ha letteralmente impastato le mani in quelle parole per riuscire a creare una drammaturgia che restituisse allo spettatore l’appassionante relazione (non canonica) fra la poetessa austriaca Ingeborg Bachmann e il musicista tedesco Hans Werner Henze. Bisogna, però, da spettatori, immergersi completamente per andare oltre le frasi e le definizioni. La scrittura di partenza è una buona base, indubbiamente tortuosa – se si tiene conto anche degli estratti in lingua – ma a renderla materia plasmabile e viva per le voci e i corpi degli attori ci ha pensato lui (qui in qualità anche di regista) e immaginiamo anche un lavoro di prove con loro sulla credibilità di ciò che dovevano pronunciare a un orecchio che ascolta oggi.
Sarà stato un mix tra coincidenze e il frutto di lavoro di anni, ma ci è sembrato ovvio che il debutto assoluto di “Fuga a tre voci” (sabato 1° agosto 2020) avvenisse proprio presso il Cantiere Internazionale d’Arte di Montepulciano, [Giordana, nelle sue note ci tiene a ringraziare anche il direttore artistico Roland Böer e il coordinatore artistico Giovanni Oliva], ideato nel 1976 proprio dal compositore H. W. Henze, i cui scopi principali sono l’interazione tra artisti di prestigio internazionale e giovani talenti. È come se il musicista tedesco, innamorato dell’Italia, fosse rivissuto ancora per circa un’ora, grazie alla ‘magia’ che solo il teatro può compiere, mettendosi a nudo e senza mai perdere di vista la responsabilità di un artista. Ma addentriamoci ancora più nel dettaglio, ‘aprendo’ idealmente il sipario e ripercorrendo ciò che abbiamo vissuto.
«La scena è concepita come la buca di un’orchestra: leggii, sedie… Entrano i tre interpreti e prendono posto… Inizia lo scambio di corrispondenza – scandito o interrotto dalla musica» (dalle note esplicative). L’incipit, “Drei Tentos, I” (da “Kammermusik 1958”) eseguito con encomiabile precisione da Giacomo Palazzesi (terza voce), già aiuta il pubblico nel cominciare il viaggio in un’altra dimensione, costituita da Artisti, con le proprie debolezze, con gli slanci e con tutta quell’umanità e creatività straboccanti che per loro diventano quasi ‘incontenibilI’, a tal punto da doverci fare i conti. Il modo di pizzicare le corde della chitarra sembra quasi farci sentire il fremito di due anime che si incontrano su un piano in comune – il lirismo – declinato dall’uno in note, dall’altra in versi.
Michela Cescon/Bachmann (a destra, guardando dalla platea – prima voce) legge le lettere ricevute da Hans Werner; Alessio Boni/Werner (a sinistra – seconda voce) quelle ricevute da Inge, quasi ribaltando i ruoli. Ed è così che tra pause, accelerazioni, sospiri (mai caricati, il tutto in una dimensione contenuta) ascoltiamo parole che suonerebbero di un romanzo ottocentesco per l’amore che traspare, con eleganza anche quando lo si esplicita.
A ‘interromperli’ nel ‘duetto/duello’ ci pensano gli intermezzi che contrappuntano la lettura (indiscutibilmente leggono, però c’è molto di più in “Fuga a tre voci”, non pensiate mai che si tratti di un mero reading, tanto più asettico) dove – non a caso – è stato scelto “Mad Lady Macbeth”, il terzo movimento da “Royal Winter Music – Second Sonata on Shakespearean Characters”.
Fuga a tre voci: le declinazioni della fuga
Potremmo andare fino in fondo e dirvi come si conclude questa storia, ma a parte il nostro rinnovato desiderio di non spoilerare – augurando allo spettacolo di girare e a voi di parteciparvi dal vivo – vorremmo soffermarci su altri aspetti che, forse, non sono rintracciabili in un’enciclopedia.
La chiave della fuga, scelta da Giordana, non è solo un omaggio al fatto che uno dei protagonisti sia un musicista, ma sta nel cavalcarla come rappresentazione scenica. Dalla definizione della Treccani apprendiamo che «si tratta di una forma musicale contrappuntistica in stile imitativo, in cui un tema principale (soggetto) viene esposto dalle varie voci, accompagnato da temi secondari (controsoggetti), e ripreso, sia nel suo disegno originario sia in altri derivati lungo un logico giro di tonalità, entro uno schema che comprende: esposizione (dedicata al soggetto), svolgimento (ove emergono gli altri temi), divertimento (con ulteriori divisioni dei temi) e stretto (le entrate delle varie voci sono ravvicinate)». La nostra “Fuga a tre voci” presenta giustamente le dovute differenze e libertà artistiche di non seguire pedissequamente lo schema previsto in musica, ma lo richiama.
La parola fuga viene pronunciata da Inge, mentre legge già la seconda lettera di Hans: «Cara Ingeborg Bachmann, poche ore prima di partire mi sono giunte le Sue poesie e, cosa strana, sono proprio come le avevo immaginate. Una grande gioia per me, mi è piaciuta in particolare quella che parla della fuga verso il sud». Ed è qui che si cela un altro punto: entrambi, in un modo o nell’altro, fuggono dalla propria città, in cerca di un altro posto che li faccia sentire più accolti (e talvolta corrisponde, anche perché l’uno ‘sorregge’ l’altro, forte di un sentimento che va oltre l’amore). Con convinzione Inge legge: «Una cosa è importante da sapere e ce la dobbiamo ripetere in continuazione: noi non possiamo permetterci di tornare in quel paese di assassini, neo-fascisti, neo-nazisti, neo-neurotici. Possiamo solo vivere qui, dove la parola ‘tedesco’ fa pensare a Goethe, Heine, Bach, Beethoven e non al maledetto imbianchino, allo psicopatico assassino su scala industriale». Eppure il termine fuga tornerà quasi verso la conclusione di questo percorso, rievocando quella mentale (ne aveva parlato anche Freud). Quando qualcosa diventa più grande di noi o le domande sono troppe e si affastellano nella mente, si tenta di fuggire, pure da se stessi (la poetessa subirà anche dei ricoveri). Per chi non conosce ancora la loro storia, la percezione è che sia lui che lei siano a?etti proprio da questo. «Si puniscono i sogni ma essi tornano sempre, come vecchi desideri. Quando, e a quali condizioni, sarà ancora possibile vivere in accordo con il mondo? Quali compromessi accettare, quali restrizioni o libertà, quanto dovrebbe essere provvisoria questa imperfezione? Quanto dovrebbe durare, prima che libertà e realtà coincidano così che la realtà non debba più essere una questione di sogni e vie di fuga?», si interroga il compositore.
E lei, poco dopo, ammette: «Non so cosa fare di me, mi sento perduta, oggi ho visto brevemente un carissimo amico, ma dopo appena un’ora ho capito che non sto ancora bene con gli altri, è troppo, non riesco. Me ne andrei subito in qualsiasi luogo lontano da qui, ma neppure questo posso fare per via delle correzioni ecc…».
«Lo dico non solo perché SO che non ci sono altre difese contro l’infelicità, lo dico perché l’artista, magari indifeso, ha da opporre alla mutabilità delle cose, alle sofferenze, alla solitudine, una cosa che gli altri non hanno: il trionfo della creazione. Quel trionfo che nei momenti più neri, è il suo rifugio». Sono le parole che Hans rivolge a Ingeborg e che riescono a toccare tutti noi. In fondo la via di fuga, il rifugio dell’artista è proprio creare e questo arriva con tutta la sua potenza dall’interpretazione di due attori che con incisività si sono posti al servizio di una storia in cui si impara anche ad amare, andando oltre le etichette, oltre gli schemi, ma solo lasciandosi andare, facendo sgorgare le parole e le note dal cuore e di pancia, fino a quando, di fronte alla dura realtà si è costretti a meditare, leccandosi le ferite (l’ultimo quadro è esplicativo in questo, ma anche lancinante per quel pubblico che non ha staccato gli occhi dalle tavole del palcoscenico dove sono riapparse queste due anime).
Se «l’Italia, in qualsiasi suo posto, invita sempre ad aprire gli occhi» e Inge asserisce «io non voglio aprirli. Non voglio vedere altro che la mia carta, la mia macchina da scrivere e un muro davanti che non mi distragga, che non mi porti lontano». Se per lei il nostro Paese la ‘costringeva’ ad aprire gli occhi, noi ci rendiamo conto che è il teatro a farlo (mentre l’Italia, in generale, ‘latita’).
«Se una parola confina con me, la lascio fare.
Se la Boemia ancora è sul mare, nei mari torno a credere
E se ancora credo al mare, anche nella terra io spero.
Se sono io, lo è un altro ed è a me uguale
Più nulla per me voglio. Io voglio naufragare.
Al fondo, sì, sino al mare, lì la Boemia ritrovo Sul fondo sospinta, sereno è il risveglio.
Ora so fino in fondo e perduta più non sono».
Ingeborg Bachmann
Fuga a tre voci: tournée
Lo spettacolo è previsto sabato 12 settembre h 21, al Teatro Romano di Verona, nell’ambito dell’Estate teatrale veronese.
Fuga a tre voci: scheda
Drammaturgia e regia Marco Tullio Giordana liberamente ispirato a Ingeborg Bachmann – Hans Werner Henze “Lettere da un’amicizia” (traduzione di Francesco Maione, a cura di Hans Holler, EDT, Torino 2008). Edizione originale: Ingeborg Bachmann- Hans Werner Henze: Briefe einer Freundschaft Herausgegeben von Hans Holler. © 2004 Piper Verlag GmbH, München/Berlin
con (in o.a.) Alessio Boni e Michela Cescon
Musiche di Hans Werner Henze eseguite dal vivo da Giacomo Palazzesi (chitarra)
Scena e luci Gianni Carluccio
Produzione Teatro di Dioniso in collaborazione con 45°Cantiere Internazionale d’Arte di Montepulciano