“L’INGEGNER GADDA VA ALLA GUERRA (O DELLA TRAGICA ISTORIA DI AMLETO PIROBUTIRRO)”: recensione
Tra movimenti corporei, tonali e luministici si reincarnano gli spettri di un passato lacerante, in un presente intriso del male di vivere
Tracciando con un gessetto il fil rouge sulla lavagna della memoria delle tavole sceniche, Fabrizio Gifuni dà inizio al suo personalissimo itinerario alla ricerca dell’origine scatenante il dolore e la scrittura corrosiva – e corrosa dall’esistenza – in uno dei più grandi scrittori del Novecento, Carlo Emilio Gadda.
Con l’intelligenza di una drammaturgia magistralmente contaminata, “L’ingegner Gadda va alla guerra (o della tragica istoria di Amleto Pirobutirro)” rivela dall’esordio quale prospettiva dipanerà la narrazione. L’anima del principe di Danimarca funge da contraltare del Gadda del “Giornale di guerra e di prigionia” e del protagonista del suo romanzo testamento (“La cognizione del dolore”, 1963 – prima edizione completa, nda), Gonzalo Pirobutirro. All’interno dell’orizzonte amletico Gifuni ci fa attraversare le stazioni gaddiane, nel pieno rispetto dell’idea del gran lombardo che non esiste un progresso se non in misura cognitiva. La prima parte della pièce, grazie alla testimonianza dei diari di guerra, affronta il passato in trincea nel corso della I Guerra Mondiale, restituendo allo spettatore il suo «occhio acuto» contrapposto all’«occhio dei cortigiani», ora donato alla salvezza della patria in pieno spirito patriottico ora in preda alla malinconia della famiglia, della mamma ora irato per le condizioni in cui vessano i suoi soldati. Come un «automa sopravvissuto a se stesso» l’attore dà voce a quei pensieri viscerali, dopo aver sperimentato il fango, battagliato con la morte del nemico, dei compagni di reggimento e dell’amato fratello, Gadda cela la sua follia di metodo sotto l’aurea affabulatoria di una lingua sperimentale e vera. Avverte lo stesso imperativo morale che Amleto riceve dallo spettro del padre e da vero intellettuale cerca di assurgere alla missione di rimettere in sesto un mondo «fuor di squadra». (“Amleto” I, scena V, nda).
Così, vestito da buffone, il nostro viandante salta nella seconda stazione del viaggio nei meandri del cuore ferito del poeta, con lo scatenamento linguistico di “Eros e Priapo (da furore a cenere)” (1967). Il filo delle armi si riaggomitola con la Seconda Guerra Mondiale e la lama verbale affonda nei meccanismi del vortice ciclonico del Fascismo. Il libello assume una vis polemica contro il «kuce» (Mussolini, nda), dimostrando, con un fare da referto medico ed ironia satirica, come il popolo italiano ricada periodicamente sotto l’egida di un tiranno in preda a «delirio narcissico».
Guidato dalla regia di taglio cinematografico di Giuseppe Bertolucci, che ben si sposa con le dissolvenze incrociate, le pause ed il ritmo serrato di chi è in movimento, Fabrizio Gifuni è i personaggi in scena. Amleto, il Gadda interventista ed il Gadda che da vecchio riguarda a quel giovane tra le fila del plotone, è Gonzalo – diviso tra Eros e Priapo – ed è allo stesso tempo l’uomo-attore. «Nell’attore la sua arte è l’essere uomo. […] Ebbene uomini, ma con una coscienza particolarmente esagerata di ciò che ci fa uomini, di ciò che ci fa metri della natura» (Orazio Costa Giovangigli). Gifuni risponde a tutto tondo a questo insegnamento del suo maestro, unendo perfettamente nella resa interpretativa il suo io, la sua formazione mimesica con l’inchiostro di una vita sopravvissuta.
Dopo “‘Na specie de cadavere lunghissimo” (2004), questi traccia un’ideale continuazione con il cineasta vate, qual era Pasolini. «Tanto Pasolini quanto Gadda arrivano alla grande invettiva pubblica solo dopo aver fatto a pezzi se stessi» – spiega l’interprete. Proprio nel suo ruolo di attore interpella il pubblico, come fosse un ‘a parte’ preso in prestito da Godard, servendosi delle parole shakespeariane. Denuda la finzione del recitare e richiama la platea a prendere coscienza non solo della verità sacrale di un autore, ma anche della funzione di ciò a cui ha assistito – il teatro.
«Il teatro ci rende consapevoli del bene e del male detergendo dal suo belletto il volto della menzogna, smascherando la vita» (recensione di Gadda dell’“Amleto” al Teatro Valle, 1952).
Tra riso, sorriso, lacrime, commozione e rabbia non si può non entrare in empatia col ‘Gaddus gifuniano’, presi per mano verso la conoscenza del privato, che si scioglie in universale in una vita «senza stagione».
Visto al Teatro Franco Parenti di Milano il 14 gennaio 2010
[Questa recensione è stata pubblicata su Teatro&Spettacolo.org, creato da Federico Pontiero, che mi ha dato per primo la possibilità di scrivere di teatro e con cui ho collaborato per diversi anni].
Ph cover: Marco Caselli Nirmal