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Artisticamente Magazine

Giorgio Colangeli e l’impresa fantastica: «La “Commedia” si fa carne davanti a chi di solito se la sente dire»

Giorgio Colangeli e l’impresa fantastica: «La “Commedia” si fa carne davanti a chi di solito se la sente dire»

Tempo di lettura: 15 minuti

 

Chi ha avuto modo di dialogare con GIORGIO COLANGELI, già dai primissimi minuti si è reso conto di un’umiltà – sempre più fuori dal comune – che gli è propria. Lo abbiamo incontrato in occasione de “L’impresa fantastica dell’attore Colangeli”, che ha debuttato al Teatro Argentina in prima assoluta dopo pochi giorni dalla riapertura dei teatri. Una vera e propria full immersion (da lunedì 10 a giovedì 13 maggio 2021) dove il capolavoro letterario italiano per eccellenza è stato recitato integralmente a memoria, nel corpo dello straordinario attore, il quale, in sette incontri, con un doppio appuntamento fra mattina e pomeriggio, si è immerso assieme al pubblico nel mistero linguistico delle terzine dantesche. «Avevo paura che questa iniziativa potesse sembrare auto-celebrativa, di peccare di hybris, di aver fatto il passo più lungo della gamba e che sarei stato punito. Sentivo che l’intenzione fosse un’altra: volevo aprire i teatri dopo la pandemia con questa impresa ed è stato colto che io volevo essere un tramite».

Abbiamo avuto la preziosa occasione di intervistare Giorgio Colangeli poco prima che questa impresa si concludesse, dopo aver iniziato, la mattina del 12 maggio, il viaggio nel Paradiso… ci tenevamo a condividere questo dialogo senza modificare nulla rispetto a quando abbiamo avuto modo di realizzarlo sia perché le sue risposte sono più attuali che mai sia perché in questi giorni “L’impresa fantastica dell’attore Colangeli” sta vivendo alla Iulm.

Giorgio Colangeli e l’impresa fantastica


D:
Cosa c’è di fantastico in Dante che non è stato ancora messo in risalto e che lei pensa, invece, di valorizzare con questa impresa?

«Potrebbe risultare ‘arrogante’ affermarlo, ma penso che, rispetto a quello che io tento di valorizzare, quello che si è fatto sino ad ora è molto poco dal punto di vista emotivo. Dante è studiato in tutto il mondo, dai filologi, dai dantisti, quindi da persone che giustamente hanno un’altra competenza e dalle quali non ci si può aspettare un’operazione del genere, che è propria del mio mestiere. Non voglio dire che non ci siano attori impegnati che abbiano fatto grandi cose, ma non su questo arco e cioè su tutta la “Commedia”: questa non è una differenza soltanto quantitativa, ma è, secondo me, una diversa impostazione che io avevo abbastanza chiara anche per gli studi di scuola secondaria superiore. Già negli anni in cui ho frequentato il liceo classico si parlava di Erich Auerbach, il quale, rispetto alla nostra critica idealista, desanctisiana e crociana, proponeva una lettura nuova. All’epoca da noi la critica dantesca privilegiava l’andamento antologico, un poema così lungo e di gusto così medievale – e cioè onnicomprensivo – scritto in un periodo storico in cui il poeta era anche un sapiente, uno scienziato, teologo e retore, andava capata la poesia da tutto il resto. Questa era l’impostazione; invece Auerbach e anche altri avevano interesse nel sottolineare proprio la struttura ideale, letteraria e creativa di tutta la “Commedia”: questo ho tenuto presente e mi è sempre rimasto impresso.

Giorgio Colangeli e ’impresa fantastica
Ph Alessandro Pensini

La scuola, compresa quella che ho frequentato, nonostante queste belle intenzioni, mi ha portato a conoscere solamente alcuni canti così come la frequentazione di grandi attori come Vittorio Gassmann o del dantista Vittorio Sermonti – dice molto bene i versi – o ancora di Roberto Benigni. Tutti gli artisti che si sono confrontati con questo testo hanno continuato a ribadire questo concetto antologico perciò la singolarità del progetto che propongo sta proprio nell’edizione integrale perché porta l’attenzione su qualcosa che è estremamente importante da valutare in questo poema e che poi diventa ugualmente poesia: è come se fosse un atteggiamento più rispettoso di quelle che erano la mentalità e la cultura di quel tempo. Oggi certe cose ci sembrano assurde: ad esempio in merito all’XI Canto del Paradiso in cui c’è la figura di San Francesco, io stesso mi chiedo: ma perché non si conclude quando finisce di parlare di lui, ma ci deve essere quella coda ‘tremenda’ sulla spiegazione, ma quello era il gusto di allora, una specie di ordine mentale. Quella perplessità che è in Dante e che è stata diagnosticata da Tommaso D’Aquino, la deve risolvere – una prima parte verrà sciolta nel cerchio di quel canto e nell’altro canto l’altra. Sono quelle simmetrie. Se Dante domanda a un personaggio tre cose, questi gli risponde a tutto, è uno stile, una maniera di ordinare il pensiero.
Ogni epoca ha la propria estetica del sapere e non solo…».

Il fantastico


D:
Se dovesse pensare al ‘fantastico’ nelle sue varie accezioni connesso all’impresa, cosa le viene in mente d’istinto?

«L’intenzione del titolo è nell’impegno materiale, fisico della resistenza e del tener duro. Il fantastico sta nel restituire il testo animato dando corpo ai personaggi che vengono coinvolti. Tutti coloro che parlano, compreso Dante, nell’impresa fantastica diventano delle presenze, prendono in prestito la mia voce, il mio corpo e i miei movimenti e, quindi, il testo si presentifica, si fa carne davanti a chi di solito se lo sente dire perché viene letto; qui, invece, viene agito. Lo spettatore lo vede vivere davanti: questo anche è fantastico, nel senso che muove la fantasia».

La messa in scena

D: Avete optato per una messa in scena molto semplice…

«Essendo qui in teatro – e cioè il contesto di quello che ci era dato a disposizione (luci, attrezzature, lo spazio grande) – abbiamo deciso di servirci di tutto questo; però siamo rimasti in una dimensione di essenzialità, anche perché non potevo sovraccaricarmi di una memoria di effetti luci e suono troppo dettagliati su un arco così lungo, con un tempo così breve delle prove».

Giorgio Colangeli e l’impresa fantastica
Ph Alessandro Pensini

La parola dantesca

D: La prima impressione è fisica e gestuale, però, alla fine di ogni parte, emergeva su tutto la parola dantesca, che è stata un po’ ‘fatta fuori’ a livello scolastico. Lei riesce a trasportarci in questo viaggio con naturalezza e la percezione avuta è che abbiate rimesso al centro, appunto, la parola

«È sicuramente l’aspetto più importante: è la parola non solo nella sua dimensione di senso, ma anche in quella materiale cioè di suono e di articolazione di suoni secondo certi ritmi e metri. La parola è la grande protagonista di un testo del genere, il resto viene evocato dalla parola. Io sono lì a proporre al pubblico già una prima lavorazione del testo perché lo spettatore è comunque facilitato rispetto a ciò che gli accadrebbe se fosse solo un lettore. Il lettore sono stato io e l’ho letto talmente tante volte a tal punto da impararlo a memoria, l’ho così interiorizzato che lo posso rappresentare e al pubblico arriva questo ‘aiuto’ d’interpretazione che lo porta un po’ più avanti rispetto alla lettura che avrebbe potuto fare: è come se gli consegnassi il risultato di una lettura evoluta, emancipata perché ripetuta e studiata. Gli faccio un regalo perché gli risparmio del lavoro e lo porto a godere di cose che, non essendo un tecnico del linguaggio, non avrebbe potuto nemmeno attingere – questo lo dico con beneficio d’inventario perché ognuno ha diritto di leggere la poesia come dice lui e trovarci liberamente ciò che vuole».

D: Pensando alle parole chiave della “Commedia”, mi piacerebbe che mi rispondesse d’istinto in merito al valore che hanno per il Sommo Poeta ed eventualmente per lei…

«Secondo me sono importanti tutte le parole che hanno a che vedere con la vista e con l’occhio – quest’ultima è una delle parole più ricorrenti. Maraviglia, sguardo, viso, vista che si collega con occhi (la risorsa del vedere), il vedere. La parola Cristo, per rispetto del termine, fa rima solo con se stessa e questo ricapita solo in un altro caso: con «vidi» nel Paradiso e questo la dice lunga su quanta importanza il poeta annetta a questo senso dell’uomo. La cosa è confermata anche da un gusto che rintraccio in Dante: oggi che esiste il cinema, lo avverto come un ottimo sceneggiatore, un grande narratore per immagini. All’epoca la Settima Arte non c’era, eppure, approcciandoci con gli strumenti di oggi, la evoca ad esempio quando parla, nel Purgatorio, di quelle sculture così reali e vere che, se ci sono due personaggi che stanno dialogando e sono rappresentati da queste sculture, le parole del dialogo, non le sentono le orecchie, ma gli occhi. Il vedere comporta anche l’ascoltare e questo è il cinema muto: quando non c’era la traccia sonora, le immagini facevano ipotizzare le parole che gli attori potevano scambiarsi e che noi non sentivamo con le orecchie».

Giorgio Colangeli e l’impresa fantastica
Ph Alessandro Pensini 

D: Vorrei chiederle delle suggestioni anche in merito a «errare» e «vagheggiare»…

«Sono quelle più difficili da parafrasare oggi. “Vagheggiare” è un modo di vedere ma particolare, traendo diletto o insegnamento, lo usa in varie circostanze con diverse sfumature di significato.
A ondate, adesso, può succedere che ascoltiamo declinare, un termine che può significare tutto. Non voglio flagellare l’oggi, ma i motori di queste variazioni delle parole sono spesso indotti dalla moda; soprattutto con i social, è talmente facile che si condividano in tempi brevi delle modalità di utilizzo dei termini che, in un primo momento, sono impropri e poi diventano propri perché condivisi da un gran numero di persone e così entrano a far parte della comunicazione».

D: «Disio», «amor» e «dubbio», «amor l’etterno amore» cosa le suggeriscono?

«Eterno è già una parolona, poi con doppia t nel senso che gli conferisce la profondità storica e che rispetto ai tempi cosmici e a quel tipo di durata, anche i 700 anni trascorsi da quando è vissuto Dante diventano una piccola cosa. Dante è estremamente attuale, non mi riferisco tanto alla trilogia, ma a quelle domande che ci poniamo ancora e che restano senza risposta oppure ogni tanto sembra che si palesi.
Sono parole grosse. L’amore è una di quelle tre cose su cui ha costruito una vita, insieme alla politica e alla poesia; con la sofferenza provocata da loro: quella dell’amore è la solitudine, quella della politica è l’esilio e quella della poesia è l’anelito alla creazione, che può essere qualcosa di bello perché ti trascina, però può portare con sé anche la delusione, il fatto di non essere compreso e di non avere il consenso. Quando afferma quella cosa programmatica sullo Stil Novo “I’ mi son un che, quando Amor mi spira, noto”… c’è talmente un manifesto estetico, dove si comprende che un poeta con la consapevolezza di Dante può fare anche a meno del consenso degli altri perché va avanti per la propria strada. Nei primi Canti del Paradiso di nuovo c’è l’invocazione alle Muse e ad Apollo e la speranza che quest’ultima fatica gli valga l’alloro di poeta che purtroppo non ha avuto in vita. Nell’anno in cui avrebbe potuto prendere la corona di poeta in Campidoglio, questo riconoscimento fu dato a un certo Albertino Mussato, di cui non sappiamo nulla, perché aveva scritto una tragedia in latino che si chiamava “Ecerinis sul tiranno Ezzelino III da Romano (collocato fra i violenti contro il prossimo, dannati nel primo girone del VII cerchio dell’Inferno, nda), il fratello di quella Cunizza che abbiamo cantato oggi (la colloca tra gli spiriti amanti del III Cielo di Venere, facendone una dei protagonisti del IX Canto del Paradiso, nda), molto moderna e chiacchierata all’epoca perché molto disinvolta, libera però anche colta… di quelle donne che all’epoca spaventavano. Questo per dire come anche il Sommo Poeta abbia avuto le sue grandi soddisfazioni personali – quelle segrete, quando è contento di ciò che ha fatto – però gli è mancato il consenso dell’establishment dell’epoca».

Ph Alessandro Pensini

D: Cos’è per lei la «favella»?

«Nella parola ci vedo qualcosa di antico, che restituisce alla parola e al parlare, a questo atto che distingue l’uomo dall’animale. Identifico la componente magica. Non a caso il poeta era considerato un sapiente perché era uno che maneggiava le parole, spesso uno dei pochi che fosse in grado di scrivere e, per esempio, Virgilio nel Medioevo era considerato uno stregone questo la dice lunga su quanto la parola sia uno strumento che ha a che vedere con la magia.
Gli effetti della parola sono ancora rilevanti, nonostante oggi sia un concetto molto laico. Ai nostri tempi forse l’accezione stregonesca ce l’ha un po’ l’immagine e in una maniera manipolatoria – qualunque linguaggio può esserlo, ma l’immagine è più subdola. Un bambino di undici anni ha oggi la possibilità di costruire un piccolo racconto per immagini, riprendendo col suo smartphone: il fatto che questo linguaggio sia diventato disponibile per tutti, non solo per i competenti, forse potrà, piano piano, costruire un senso critico anche per le immagini. La mia generazione che questa disponibilità non l’ha avuta, fatalmente attribuisce all’immagine qualcosa di oggettivo, non c’è un commento, ma quello che è successo».

Il legame con l’attualità


D:
Gli abiti di scena sono sia in linea con le Cantiche, ma viene  spontaneo pensare che ci sia un aggancio con l’attualità…

«Certo. Come dice Dante: “e che la mente nostra, peregrina/ più da la carne e men da’ pensier presa” (Purgatorio, IX Canto, vv.16-17), il che significa che la mattina, quando la mente nostra è peregrina più dei pensieri, vengono i presagi… Ecco, erano le cinque del mattino, fantasticavo a letto e mi è venuta questa idea dei tre costumi. Già tanti anni fa – e lo dico per rendergliene atto – in una delle primissime edizioni di uno spettacolo fortunatissimo, “Dignità autonome di prostituzione” con la regia di Luciano Melchionna, feci i primi diciannove canti dell’Inferno perché, all’epoca, ero arrivato a imparare a memoria fino a quel punto. Avevo una specie di bussolotto, con dei numeri da I a XIX, facevo estrarre a sorte allo spettatore e dicevo il canto ed ero vestito da pompiere.
Mi è venuto in mente in seguito che, scegliendo il pompiere per l’Inferno, quasi citavo l’intuizione avuta da Luciano. La scelta sia del pompiere che della protezione civile ha a che vedere con ciò che stiamo vivendo: l’emergenza della pandemia; dall’altro lato sono divise di gente del popolo, quella bianca, ad esempio, è dell’infermiere e non del medico/chirurgo.

Ci interessava che fossero ‘i soldati’ di questa emergenza e non gli ufficiali, non per un populismo di facile maniera, ma per sottolineare che “La Divina Commedia” è una cosa popolare, è un messaggio di grande complessità e di articolazione ideale, etica e religiosa, che si rivolge alla gente semplice, che spesso è protagonista nell’opera. Le stesse similitudini hanno spesso a che vedere con la gente che va per mare, che coltiva la campagna – nel Purgatorio per esprimere che la strada che porta a salire il monte viene indicata da delle anime tra le quali c’è anche Manfredi (nel III Canto del Purgatorio) è talmente stretta, si afferma: “Maggiore aperta molte volte impruna/ con una forcatella di sue spine/ l’uom de la villa quando l’uva imbruna,/ che non era la calla onde saline/ lo duca mio, e io appresso, soli (Purgatorio, IV, vv. 19-23)… sono squarci di vita semplice semplice. O ancora le lucciole che vede il contadino che si riposa un attimo la sera: “Quante ‘l villan ch’al poggio si riposa,
/ nel tempo che colui che ‘l mondo schiara/ la faccia sua a noi tien meno ascosa,/ come la mosca cede a la zanzara,/
 vede lucciole giù per la vallea,
/ forse colà dov’ e’ vendemmia e ara:” (Inferno, XXVI, vv. 25-29). Lui frequentemente cita i mestieri semplici proprio per avvicinare i sensi alti di quello che dice all’esperienza di vita della gente comune – e questa è anche la struttura portante del Cristianesimo, quel messaggio inusitato all’epoca (quando ancora c’erano gli schiavi) che siamo tutti uguali».

Come dovrebbe veicolare la scuola


D:
Lei ha insegnato materie scientifiche prima di essere attore, a suo parere cosa manca o c’è di sbagliato nel veicolare Dante?

«Non insegno da tanto tempo quindi non posso dire di conoscere il mondo della scuola, anche se lo sento sempre vicino per questa mia esperienza e per come faccio l’attore: il palcoscenico lo interpreto come una ‘cattedra’, non perché devo dire delle verità, ma in quanto mi pongo la responsabilità di ciò che faccio.
Secondo me il grande torto della scuola, non solo per quanto concerne Dante o la poesia, ma in generale, consiste nel fatto che non riesce a comunicare il piacere delle cose che propone. Di conseguenza nel momento in cui il ragazzo dovrebbe individuare il fine, non gli rimane niente, se non l’interrogazione e tutta una serie di cose ‘contabili’ che non hanno senso.
Non mi sto riferendo agli insegnanti, ma al ‘fatturato’ medio, all’impostazione… non è tanto il nozionismo perché le nozioni servono così come l’apprendimento mnemonico e aggiungerei che la mia impresa fantastica è un ‘grande spot’ della memoria, che oggi sembra che non serva più perché è tutto contenuto nello smartphone, ma sarà diverso avere una memoria interna al proprio sistema psicosomatico?
Sarebbe interessante almeno simulare dei percorsi didattici che diano all’allievo di esserci arrivato lui a certe cose perché ciò stimola la creatività, non comunicare come qualcosa di noto da mille anni… così lo studente non si incuriosisce».

Un ‘richiamo’ allo spettatore


D:
Prima accennava alla responsabilità; mi ha colpito molto anche il termine «diligenza» che utilizza a inizio spettacolo…

«Ci siamo confrontati con Marco (si riferisce a Maltauro, co-ideatore, nda): abbiamo deciso di fare un po’ la voce grossa. Solitamente in un programma di sala si è più accoglienti; ci confortava in questo atteggiamento un po’ strano Dante, il fatto di trattare un testo fondamentale e di una sfida inusuale – sia quantitativa che qualitativa – di farlo tutto e di cercare di farlo capire visto che non dico neanche una parola di commento. La gente torna a casa con due cose che si integrano l’una con l’altra: da una parte dovrebbe aver capito qualcosa; dall’altra dovrebbe aver compreso che certe cose si capiscono in un altro modo. Quindi si porta con sé la conoscenza e l’esperienza di un’altra conoscenza, che è quella artistica. Ad esempio, un film è veramente bello quando non è facile raccontarlo perché ci si dovrebbe far supportare dalle immagini per rendere l’idea».

Ph Alessandro Pensini

Il buon maestro di Colangeli


D:
Spesso sentiamo «lo buon maestro», se lei dovesse dire qual è stato il suo buon maestro?

«Un mio buon maestro è stato Ferdinando Taviani, uno storico e critico teatrale che abbiamo perso abbastanza recentemente, coetaneo di mio fratello maggiore – anche lui scomparso durante questa pandemia e forse sarà anche per questo. Taviani è stato il mio prof. di lettere durante il primo anno di liceo e solo per un anno – questo dimostra come per lasciare un’impronta non servano gli anni, basta poco e, al contempo, tanto. Se ho avuto questo interesse per Dante lo devo a lui, questa idea della globalità deriva dal fatto che lui ci parlò di Auerbach in maniera del tutto inusitata…lo aveva studiato all’università, parlarne a noi nel 1967 non stava né in cielo né in terra… si è comportato così perché era neolaureato e gli faceva piacere comunicarci ciò che sapeva lui, per generosità, anche per temerarietà, non si era ancora deformato sui programmi.
La scintilla che, rispetto a quanto è durata, non ti aspetti che possa essere stata così importante, invece è stata essenziale».

Giorgio Colangeli e l’impresa fantastica
Ph Alessandro Pensini

La poesia

D: Citando il verso 7 del I Canto del Purgatorio «Ma qui la morta poesì resurga», crede che si possa sperare in questo oggi?

«Sì. A mio parere abbiamo tante opportunità di creare qualcosa, di mettere in circolo proprie opinioni, senza sapere di preciso a chi le stai dando… è come lanciare una bottiglia in mare di cui non conosci il destinatario. La poesia, più di altre cose, ha bisogno di uno scambio; i poeti sono anche grandi fruitori di poesia. Scrivere versi poetici non significa farsi travolgere dall’emozione e su quell’onda scrivere ciò che viene in mente; è una disciplina, l’acquisizione lenta e faticosa di una tecnica, leggendo anche ciò che hanno realizzato gli altri. Dante stesso è una citazione continua, un esempio è quando si accinge a descrivere le metamorfosi dei ladri nel XXV Canto dell’Inferno si mette in lizza con Lucano, Ovidio perché li ha letti. La materia prima della poesia non è l’emozione – quella è il risultato nel lettore – ma la poesia stessa, altre cose che sono state scritte e lette. In un’epoca in cui si legge poco e si scrive molto, non c’è propensione verso questo approccio perché purtroppo si annette il valore della creatività solo ad una attività della comunicazione e non si tiene presente quanto sia attivo e creativo anche il lettore. Un libro, in mancanza di un lettore, è un mucchietto di carta con delle macchiette nere su bianco, qualche figura – se c’è».

D: Qual è la percezione che sta avendo rispetto al pubblico?

«Una grande conferma che non era scontata e cioè che arriva, comunica anche messaggi ed emozioni di un certo rilievo, apre delle strade. Mi colpisce che la gente ringrazi per ciò che ha ricevuto».

“Chiamami ancora amore” regia di G. M. Tavarelli

D: Il pubblico televisivo è stato molto coinvolto dalla serie diretta da Tavarelli Chiamami ancora amore, dove appunto torna l’amore. Quali domande si è posto rispetto all’analisi che compie il regista di questo sentimento?

«Gianluca è di una discrezione e, al contempo, di forte presenza e mi auguro di tornare a lavorare con lui. Ho sentito una forte intesa, ho come una certezza interiore che si tratta di una persona con cui si può lavorare bene perché sensibile e discreto. La storia è molto bella – sono un grande estimatore dello sceneggiatore Giacomo Bendottipotrebbe sembrare come ce ne sono tante, eppure è stata raccontata in un modo così dettagliato che ha deragliato anche rispetto al genere, divenendo un giallo pieno di suspence… quasi a voler dire che quando due persone che si vogliono bene cominciano a pensare di dividersi corrisponde a compiere un ‘crimine’.

Chiamami ancora amore
Giorgio Colangeli e Simone Liberati – Ph Fabrizio de Blasio

È come un suicidio di una iper-persona che sarebbe l’insieme dei due e va trattato come un giallo – questo aspetto l’ho apprezzato tanto. È tutto il contrario di ciò che è la fiction, che solitamente butta il carico sulla complessità del racconto, sulla grande quantità dei fatti che accadono, con colpi di scena strumentali che devono tener desta l’attenzione anche a scapito della credibilità. Qui non succede molto, è una specie di giallo interiore, dove la complessità è nelle possibili interpretazioni di quello che sta accadendo e da cui dipende il fatto che ci si possa salvare o, invece, naufragare».

L’impresa fantastica dell’attore Colangeli: prossime date

Segnatevi queste date in agenda: dal 15 novembre al 13 dicembre presso il Teatro Argentina di Roma (Produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale).

NOVEMBRE

– Lunedì 15 h 19: INFERNO – I parte – Canti I – XIII
durata 2h 15′

– Domenica 21 h 21: INFERNO – II parte – Canti XIV – XX
durata 1h 15′

– Lunedì 22 h 19: INFERNO – III parte – Canti XXI – XXXIV
durata 2h 30′

– Domenica 28 h 21: PURGATORIO – I parte Canti I – IX
durata 1h 30′

– Lunedì 29 h 19: PURGATORIO – II parte Canti X – XXIV
durata 2h 30′

DICEMBRE

– Domenica 5 h 21: PURGATORIO III parte Canti XXV – XXXIII
durata 1h 30′

– Lunedì 6 h 19: PARADISO – I parte Canti I – XIV
durata 2h 30′

– Domenica 12 h 21: PARADISO – II parte Canti XV-XXII
durata 1h 20′

– Lunedì 13 h 19: PARADISO – III parte Canti XXIII – XXXIII
durata 1h 50′

biglietti (posto unico con assegnazione):
– singolo appuntamento 10€
– abbonamenti: intera cantica tre appuntamenti, biglietti acquistati insieme 21€; intero abbonamento 49€

L’impresa fantastica dell’attore Colangeli: augurio e appello di lungimiranza

In conclusione, rievocando uno dei punti toccati con l’artista, ci sentiamo di affermare, con convinzione e trasporto, che “L’impresa fantastica dell’attore Colangeli” dovrebbe calcare più palcoscenici possibili, entrare nelle aule scolastiche (con gli studenti adeguatamente preparati all’ascolto) e magari anche in luoghi non canonici, portando la potenza di questo viaggio.

Giorgio Colangeli e gli impegni per lo schermo

Attualmente l’attore è nei cinema con “Bentornato papà” diretto da Domenico Fortunato, presentato in anteprima al Bif&st – Bari International Film Festival 2021.

Giorgio Colangeli Bentornato papà
Giorgio Colangeli e Giuliana Simeone

Prossimamente si spera di poterlo vedere nel film “Sorelle” di Nana Neul. Ha cominciato la lavorazione della nuova opera di Aureliano Amadei – attualmente in stand-by. Per il piccolo schermo ha partecipato al primo prison drama italiano, “Il re” (produzione Sky Original), accanto a Luca Zingaretti, regia di Giuseppe Gagliardi.

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