Il volto di GUIDO CAPRINO comincia a comunicare ancor prima di iniziare la conversazione. Qualcuno penserà che sia normale trattandosi di un attore, ma non è affatto scontato, anche perché – dovremmo ricordarcelo più spesso – è in primis un incontro tra esseri umani. Non è sempre semplice parlare dei progetti a cui si è preso parte, c’è chi preferisce che ‘basti’ lo spettacolo o il lavoro sullo schermo, ma è ben consapevole, come altri suoi colleghi, che, ancor più in questo momento, bisogna ‘promuovere’, accompagnare i film in sala e incontrare il pubblico.
Al di là di questo, si avverte anche quanto tenga a quest’ultima opera “Per niente al mondo”, secondo lungometraggio di Ciro D’Emilio, regista di “Un giorno all’improvviso” (presentato a Venezia nel 2018) con Anna Foglietta insignita del Nastro D’Argento per la Migliore Interpretazione Femminile.
Guido Caprino protagonista di “Per niente al mondo”
D: Senza spoilerare, si può riscontrare una certa circolarità tra lo sguardo in macchina (quasi iniziale) del suo personaggio, Bernardo, e quello finale, che ti porta a ripensare alla vita…
«Il film gioca su queste tre linee, da una ti porta all’altra in maniera violenta».
D: Quando ha letto la sceneggiatura, che tipo di lavoro ha compiuto per ‘metterselo addosso’? Cosa ha apportato di suo?
«Ciò che è nero su bianco è una ‘bibbia’ poiché mette in comune le varie parti e permette di arrivare a parlare la stessa lingua. È un processo che avviene insieme, Ciro è un tipo di regista che si mette anche in ascolto, è un grande piacere lavorare con lui perché nulla è scontato. In più questo ruolo di Bernardo l’ha scritto immaginandolo per me senza che ci conoscessimo già».
D: Esiste un momento o una scena in cui hai compreso che lo avevi completamente addosso?
«Non lo senti mai addosso al 100% nel senso che è sempre in evoluzione, non è mai finito. Lo scopri vivendo, chiaramente ci sono dei paletti precisi, bisogna trovare una suggestione che porti a un lavoro organico. In questo caso era una grande opportunità seguire il trascorso di Bernardo perché, nel frattempo, si verifica un’evoluzione importante».
D: Pensando alla scena iniziale, dove, bendato, il protagonista deve indovinare il vino. Metaforicamente, se dovesse mettere a fuoco, ad occhi chiusi, i (veri) amici (ricollegando ciò che accade dopo)?
«È una tua idea, personalmente non l’ho vissuta così, ma è bello che il pubblico possa dare una chiave di lettura propria».
D: Uno dei punti importanti è il rapporto con la figlia Giuditta (immaginiamo che non sia un caso che si chiami così), con cui è, in parte protettivo; dall’altro lato mostra le proprie fragilità – è diventato quasi un tabù esprimere questo aspetto, in particolare maschili.
«Quando sei contento di un ruolo ti ritrovi dentro senza giudicare, è qualcosa che da fuori definisci. Mi sembra normale che fosse in quello stato. Ammetto che per me sia difficile parlarne perché c’è zero giudizio, quindi dovrei creare un pensiero dietro».
D: Quanto sapeva prima degli errori giudiziari e cosa l’ha scandalizzata di più?
«Mi sono documentato. Se ci si ferma un attimo, penso che non sia così difficile ipotizzare come ci si possa sentire se si riflette sugli aspetti terribili che ci sono in una condanna ingiusta come questa. Credo che si possa impazzire dopo pochi minuti: o esplodi o implodi, qui avvengono entrambe le reazioni, a scaglioni».
D: «Vivi nel presente, anche se fatto di poco o di nulla». Quanto ti appartiene?
«È la cosa più difficile che esista, però può salvarti in certe circostanze. Ci stiamo riferendo a una scena molto importante del film e quel suggerimento, anticipato da “Non ricordare”, in quel momento», gli salva la vita.
Senza di Elia (il compagno di cella, con cui stringe un legame, interpretato da Boris Isakovic, nda) mi chiedevo spesso cosa ne sarebbe stato di Bernardo, è una specie di Caronte…».
D: «Non mi hanno tolto un anno, ma mi hanno tolto l’anima». Come si entra in empatia rispetto a qualcosa del genere, che tu non hai provato direttamente? Quale tipo di corda è andato a scandagliare?
«Dirlo sminuirebbe il lavoro in quanto, a mio parere, gli attori non dovrebbero mai svelare fino in fondo perché il pubblico non deve sapere troppo da questo punto di vista. Si rovinerebbe la magia.
Se una storia ti suggestiona, devi renderla attiva, visibile e viva».
D: A un tratto Elia afferma: «Ci sono due tipi di persone: quelle che temono di soffrire e quelle che temono di morire»
«Estrapolando il sentimento e come ragionamento direi che, nel momento in cui si accetta il concetto di morte, si vive; quando lo si lascia sempre latente, si è soggetti a questo terrore, come se ci fosse qualcosa che inconsciamente ci perseguita. Se si toglie la paura, si vive».
D: Quando Bernardo parla della ristrutturazione che vorrebbe fare del proprio ristorante afferma: «Deve essere come un teatro»… è particolare come paragone.
«Serviva a dare l’idea di un uomo molto concentrato su se stesso, un istrione molto sicuro di sé soprattutto rispetto alla figlia, infatti, in questa fase, sembra che lei lo debba inseguire. Come capita spesso quando si è presi dal successo, gli affetti vengono dopo: il film affronta proprio questo».
D: Per la forma mentis del Nord Est il lavoro viene prima di tutto, (questo emerge soprattutto nella prima parte del film). Anche tu vivi questo mestiere in questa maniera così assoluta?
«Il lavoro dell’attore è assoluto: non fai altro che lavorare con e su te stesso. La mia professione non è generalizzabile. Quando lavoro è così; altrimenti sono molto in apertura, penso di essere un buon amico. Non ho mai avuto il pensiero del successo a tutti i costi, forse solo in una fase in quanto bisogna ‘combattere’ e sgomitare e, quindi, vanno concentrate le energie, però, per quanto mi riguarda, non può durare tutta la vita».
D: Ti sei dato una risposta su come mai, dopo le riaperture, ci sia stata poca affluenze nelle sale cinematografiche?
«Non so perché si sia arrivati a questo. Senz’altro il mondo è cambiato negli ultimi due anni. Il cinema non è più un luogo di incontri e di condivisione e, a proposito di quest’ultima, mi sembra che la tendenza sia a farlo sempre meno… sono molto più preoccupato di questo. Il film è un fatto, quando lo vedi in sala, ne hai condiviso la visione magari con sconosciuti, porta con sé delle riflessioni che magicamente diventano più forti. Per me il cinema è qualcosa di sacro… purtroppo se continua così chiuderanno e ho il terrore che torneremo indietro di 100 anni. Temo che il pubblico si sia dimenticato della potenza e della grande opportunità che è andare al cinema. È la più bella industria che esiste perché fabbrica pensieri, coscienze, crea cultura. Sarebbe bello che si tornasse a viverla così».
D: Hai intenzione di tornare a teatro?
«Sì ogni tot di tempo ne avverto la necessità, è il posto dove si cresce maggiormente come attore».
D: Hai lavorato con registi importanti, tra cui Bellocchio e Martone; parallelamente sei stato molto aperto verso opere prime e secondo, come nel caso di “Una relazione” di Stefano Sardo e di questo lavoro di D’Emilio…
«Entrambi mi hanno offerto due ruoli bellissimi, quest’ultimo ogni attore se lo sognerebbe la notte di farlo, quindi sono stato io fortunato».
D: Nel film di Sardo, nel cast era presente anche Libero De Rienzo. Vorresti condividere un suo ricordo?
«L’ho conosciuto sul set ed è stato un ottimo compagno di avventura. L’ho sempre stimato tantissimo, è stato mal usato, aveva un talento enorme ed era una persona estremamente sensibile e intelligente».
D: Da appassionato di cinema cosa ti fa pensare istintivamente a Godard (recentemente scomparso)?
«Se non vedi gli Avengers di turno il cinema non ha senso per la maggior parte del pubblico, come se si trattasse solo di una spettacolarizzazione di storie e io non la penso così. Se Godard fosse vivo adesso lo manderesti in tv o al cinema?
Re di M. L. T.: «Al cinema».
Replica di G. C: «Sei tu a pensarla così. Se nascesse oggi rispetto al cinema che fa lui?
Sarebbe di nicchia e questo è un gran peccato. Mi viene la nostalgia pensando alla libertà che non c’è più…».
D: Si riferisce alla libertà di espressione artistica?
«Sì, anche perché ci mostrava la vita da un’altra angolazione, e, al contempo, c’era un pubblico maggiormente in ascolto. Erano più cinematografiche le storie o erano gli spettatori più interessati? Onestamente mi viene più da pormi degli interrogativi che darti delle risposte».
D: Tornando a Bernardo di “Per niente al mondo”, visti gli attacchi di panico – e non solo – di cui a un tratto soffre, quanto il ruolo di Dario nella serie “In Treatment” ti ha aiutato ad affrontarlo dal punto di vista psicologico?
«È sempre una trasformazione di qualcosa che devi rendere visibile, è più complesso, non mi piace rivelare i trucchi delle magie e questo lavoro è una sorta di magia. Spesso è molto più istintivo che pensato».
Ph cover e dal film “Per niente al mondo”: Andrea Pirrello