IRENE PALOMA JONA è giovanissima e con le idee molto chiare. «Sono fermamente convinta che questo mestiere abbia bisogno di studio». È una scelta di vita, ma per un lavoro. Di origini torinesi, si è mossa (solitamente accade il contrario che dal Sud ci si sposti al Nord) per seguire la propria strada e mettersi in gioco. Lo rifarebbe mille volte e non ha timore di dirlo, anzi. Ha costantemente in mente che si è sempre in crescita per cui quando non lavora, si dedica allo studio e al perfezionamento.
Irene Paloma Jona: la formazione
D: Irene, provieni da una famiglia di artisti
«Ho avuto un imprinting col teatro grazie a mio padre perché nasce come cantante lirico e nel ’94, qualche anno prima che nascessi, ha fondato una compagnia di teatro d’ombre, Controluce, per cui non solo mi portavano a vedere spettacoli, ma già da bambina ho cominciato a lavorare con lui. Mia madre è una storica e ama moltissimo il teatro perciò anche lei è stata essenziale nel coltivare questa passione. Mio nonno è un etnomusicologo (si occupa di canti popolari) ed è anche un poeta per cui si può dire che respiro arte da sempre».
D: Hai cominciato col canto corale per poi cercare diversi input
«Fin da piccola ho studiato musica (prima pianoforte, poi sax) e dall’età di tre anni ho cantato in coro, che è come se fosse un sistema sociale democratico e perfetto. È sempre stato bellissimo perché tutti insieme si competeva per creare arte [si avverte la voce entusiasta con cui ne parla]. Ho studiato all’Accademia d’Arte del Dramma Antico (scuola di teatro della Fondazione Inda di Siracusa)… da un lato è stata pura casualità, dall’altro è stato un ritorno a dove volevo essere. Ero andata nel 2012 ad assistere alle tragedie coi miei genitori, avevo assistito al “Prometeo” diretto da Claudio Longhi, con Massimo Popolizio e Gaia Aprea nei panni di Io. Ricordo benissimo che quando è terminato lo spettacolo mi sono rivolta a mamma e papà e ho detto: voglio fare questo.
Quando ho concluso il liceo ho sostenuto i provini nelle accademie nazionali in cui si poteva provare, ero entrata in due, tra cui Siracusa».
D: Recentemente sei stata in scena anche al Teatro alla Scala di Milano
«È stato molto interessante lavorare con Davide Livermore perché puoi vedere come crea un regista. In più non avevo mai lavorato nell’opera lirica. Mi ha molto colpita la ‘macchina’ della Scala perché per “I racconti di Hoffmann” lavoravano circa duecento maestranze, quando si chiudeva il sipario, andavano sul palco e ognuno sapeva che cosa si dovesse fare e in pochissimo tempo c’era un’altra scena. Non si poteva non notare la devozione e la precisione da parte di tutti coloro che erano lì. Mi sono rapportata con persone deliziose: dal direttore di scena ai cantanti. È stata un’esperienza davvero faticosa trattandosi di quattro ore di spettacolo, io ho lavorato come ombrista – e le ombre sono importantissime in questa drammaturgia – e ho provato molto gioia».
D: Hai scelto di continuare anche con la compagnia di tuo padre
«Sì è come se facessi due lavori diversi: porto avanti la mia carriera di attrice mentre, quando lavoro con lui, concretamente proietto le ombre insieme a lui e, in tante circostanze, ho anche danzato. Due linguaggi diversi che si completano».
D: Cosa porti con te da “Casa degli Artisti”?
«Purtroppo l’Alta formazione a Parma l’ho fatta in un periodo di totale lockdown, tra novembre 2020 e maggio 2021. Avrebbero dovuto essere otto mesi di full immersion in loco, che si sono trasformati in quattro mesi e mezzo online e tre in presenza. Tanti registi con cui avremmo dovuto lavorare non li abbiamo potuti incontrare. Quando sono stata a Parma mi sono rapportata con Massimiliano Farau – un incontro meraviglioso, lo reputo uno dei miei maestri -, Valter Le Moli e Alessandro Nidi, un musicista-compositore che si occupa di drammaturgia per il teatro per cui con lui abbiamo fatto un percorso di interpretazione delle canzoni da attori, su cosa ciascuno di noi poteva raccontare con la propria voce. Al di là del periodo in cui è capitata, è stata un’esperienza positiva sia per questi incontri che lo stare in quel teatro che si ispira alla Schaubühne di Berlino, a livello di edificio c’è la parte legata al teatro barocco, quella al teatro-danza, la sala per la musica da camera».
D: Quali altri punti di riferimento ti vengono in mente a parte Farau e immagino tuo padre?
«Mauro Avogadro, Emiliano Bronzino, Dario La Ferla per teatro-danza. Flavia Giovannelli ci ha insegnato recitazione in versi e arte della parola – viene dal metodo di Orazio Costa. Lei mi ha trasmesso i valori di questa professione».
Il suo primo set: “Il signore delle formiche”
D: Com’è arrivato?
«Ero a Parma ed è arrivato un bando per cui cercavano dei performer per fare una scena di teatro-danza all’interno del film. Ho mandato un’improvvisazione e mi hanno selezionata. Sono stata per una settimana in un agriturismo lavorando con Alessandra Vanzi sulla performance che doveva essere inserita all’interno del film; alla fine abbiamo realizzato una giornata di riprese in cui è stata girata la scena con Luigi Lo Cascio nei panni di Braibanti e ci interrompe. Per me è stato emozionante, anche perché stimo tantissimo Lo Cascio, uno dei film che ho visto e rivisto è “La meglio gioventù” per cui poter essere davanti a lui e soprattutto ricevere l’arte che stava facendo in quel momento è stato molto stimolante perché trovava la verità in ogni ciak… è stata scuola».
Irene Paloma Jona ci racconta il ruolo in “Luce dei tuoi occhi 2”
D: Si può dire che nella seconda stagione di “Luce dei tuoi occhi” (presente anche su Mediaset Infinity) vengano messe in campo diverse competenze dalla danza alla recitazione
«E non solo. Il mio personaggio Diana, in una scena, doveva montare una coreografia con Emma Conti (Anna Valle) e, visto che in un altro momento veniva detto che Diana avesse fatto arti marziali, ho proposto che venisse inserita come ispirazione tenendo conto che io sono cintura nera di aikido. Al regista è piaciuta l’idea ed è stata molto bello».
D: Tieni a dire qualcosa in particolare a riguardo?
«Sono stata ben cinque mesi sul set e, a parte quel momento ne “Il signore delle formiche”, non avevo mai recitato davanti a una telecamera e provenivo da una formazione prettamente teatrale. Quando mi hanno affidato questo ruolo da protagonista mi sono tremati un po’ i polsi, i primi giorni è stato complesso perché dovevo comprendere come dosare la mia voce, la gestualità, anche se fondamentalmente ritengo che il mestiere dell’attore è lo stesso che sia sul palcoscenico o per lo schermo. Devi sapere chi sei, cosa vuoi dire e a chi, cosa vuoi suscitare. Piano piano, anche ricevendo dei no, ho preso consapevolezza che la mia formazione teatrale mi è venuta sempre in supporto».
D: Com’è andata con un regista come Fabrizio Costa?
«Nonostante i tempi stretti della fiction, abbiamo potuto lavorare sul personaggio. Diana ha molti lati che tiene per sé e alcuni di questi, pensa che siano in un modo, ma non è così (parlo a livello di vissuto soggettivo). Si sente sempre sbagliata; quando è a tu per tu è diversa rispetto a ciò che mostra come ‘maschera’ pubblica. In più inizialmente è sempre arrabbiata e per me è stato un esercizio molto importante a livello attoriale. Non sorride mai, si veste sempre di nero ed è il mio opposto».
D: A proposito di donne, avresti voglia di raccontarci il rapporto con Anna Valle e Francesca Cavallin?
«Sono felicissima di aver incontrato Francesca, che interpreta mia madre per cui da subito abbiamo cercato di instaurare un rapporto tra persone. In diverse occasione ha messo a servizio la sua esperienza per aiutarmi e l’ho trovato un atto di altruismo non scontato. Con Francesca si è instaurato un rapporto anche extra set, ci sentiamo anche adesso, è simpaticissima e umanamente ha lasciato il segno. Sia lei che Anna Valle sono state molto generose».
Irene Paloma Jona e i prossimi progetti
D: Hai in uscita un film di produzione internazionale, ce ne parli?
«Devo dire grazie anche al mio agente, Jacopo De Luca, che mi segue benissimo, il quale desidera creare una carriera di qualità. Ho avuto quest’esperienza di un piccolo ruolo sul set di “Promised Land”, che affronta il periodo poco prima della costituzione dello Stato di Israele, focalizzandosi su Stern (uno scrittore e attivista israeliano in lotta per la libertà sionista, nda). Io interpreto Rony, la moglie che si vede poco perché hanno vite separate in quanto Avraham Stern doveva sempre nascondersi. Con Michael Winterbottom (sul set non voleva nessuno di extra) abbiamo creato una storia, anche coi movimenti. Si parlava con lui e con gli altri interpreti della scena che si doveva girare, poi a un tratto chiamava il nome dell’attore che aveva la prima battuta e quello coincideva col ciak. Mi sono resa conto cosa sia il Cinema».
D: Stiamo parlando anche di un film in costume e che affronta certe tematiche
«Sì, mi ha fatto capire che come attrice vorrei occuparmi di argomenti importanti. Ci sono arrivata perché desiderava attori che parlassero ebraico per cui sono stata selezionata per fare qualcosa che appartiene alle mie origini, alla mia cultura. Far parte di una comunità ha dei doveri e credo che tra questi ci sia quello di portare avanti la memoria».
Ph cover: Sibilla Galli