Esistono attori che sono molto conosciuti nel cosiddetto ‘giro teatrale’, che hanno conquistato – e continuano a farlo – il proprio posto nel mondo artistico – e nella vita – con la sana gavetta, mettendo in gioco tutto, prendendo anche difficili decisioni come quella di andar via dal ‘bozzolo famigliare’ per provare a inseguire un sogno per cui si sentono suonare le proprie corde interiori. VINCENZO ZAMPA è tra questi. I più attenti e affezionati alla rete ammiraglia lo avranno visto nel film tv “In arte Nino” nei panni di Gianni Bonagura, compagno di Accademia di Nino Manfredi. Dal 10 giugno è, invece, sul grande schermo (alcuni lo avranno visto anche in precedenza, ad esempio in “Diaz” di Daniele Vicari, nda) come co-protagonista di “Comedians”, l’ultima regia di Gabriele Salvatores, tratta dall’opera teatrale di Trevor Griffiths. Lo abbiamo incontrato insieme ad un altro co-protagonista del film, Marco Bonadei, col quale ha condiviso diverse volte la scena e si è creato un vero sodalizio artistico, oltre che una sincera amicizia. Per dare a entrambi il meritato spazio abbiamo deciso di realizzare due articoli separati, in cui, però, potrete cogliere il fil rouge che li lega. La parola ora a Vincenzo Zampa, di cui scoprirete sensibilità e background, partendo – per onor di cronaca – proprio dal film uscito di cui vi stavamo parlando.

D: L’approccio al lavoro si può dire che sia stato quasi teatrale, essendoci stati dieci giorni di lettura a tavolino. Quando siete andati ‘sul campo’, quanta improvvisazione c’è stata?
«Direi tanta, basata sul testo scritto, quindi canalizzata. Per citarne una (che ci auguriamo che gli spettatori possano ascoltare andando in sala, nda), quando il maestro/Natalino Balasso mi lancia la palla da tennis nel momento proprio delle improvvisazioni, la mia battuta è arrivata spontaneamente» [l’attore con tenerezza e quasi con un senso di nostalgia positivo, sottolinea come ricordi proprio queste ‘creazioni’ d’emblée e meno il copione ‘standard’].

D: Da ciò che racconti sembra proprio che al di là della complicità già esistente con Bonadei, si sia creata sul set con tutti, in particolare con voi che incarnavate gli aspiranti attori e il maestro…
«Effettivamente è andata così: hanno ricreato l’aula prima in una stanza d’albergo, poi in un teatro e alla fine siamo stati sul set. Nel corso della prima settimana eravamo solo noi attori, mentre gli ultimi giorni sono arrivati anche gli operatori per studiare il tutto con Gabriele. Quando siamo passati alla fase in cui dovevamo girare, in realtà, ci sentivamo già a casa tanto che gli operatori dicevano: se noi non diamo lo stop, continuano ad andare avanti perché ormai il testo ci apparteneva».
D: Vincenzo, avevi avuto modo di leggere l’opera originaria?
«No, ho visto degli spezzoni della messa in scena che aveva curato sempre Salvatores da giovane. Ho visto “Kamikazen” ma tratta di altro. Ciò che colpisce di “Comedians” è che il film non è comico, ma il lato più oscuro, emerge tutta la tragicità dei personaggi, che non sono per nulla comici».

D: Come Salvatores ha scelto di guardare il tuo personaggio?
«Il mio Michele Cacace è romantico, un ‘povero cristo’; Gabriele se lo immaginava chapliniano. Abbiamo deciso insieme di caratterizzarlo col pugliese, non potevo farlo napoletano com’era quello interpretato da Silvio Orlando; ho dovuto anche adattare della battute al pugliese. Mi sembra importante evidenziare come Gabriele fosse dentro la classe, costantemente in dialogo con noi».
D: Visto che tu hai origini pugliesi (proviene da Monopoli – BA, nda), quanto hai sentito vicine le sue domande?
«Abbastanza, ma più che sul piano personale, ho ‘reso miei’ dei vissuti di persone del Sud che vivevano il background di Cacace».
D: Un elemento interessante che viene evidenziato dal maestro Barnie/Balasso consiste nello scardinare gli stereotipi. Nel tuo percorso quanto sei stato stimolato a lavorare su questo aspetto?
«Per citare una circostanza concreta, Elio De Capitani nella pièce “Morte di un commesso viaggiatore” ha deciso di farmi interpretare un personaggio completamente diverso da ciò che sono io oppure spesso ho lavorato in ruoli vicini a me: se penso a “The History Boys” incarnavo un ebreo omosessuale basso, non sono ebreo né omosessuale, ma sono basso e se devo dire: “vengo da college di Sheffield (nel centro dell’Inghilterra tradizionalista degli anni ’80, nda)” penso alla mia provenienza da un piccolo paese di provincia, trovando così dei correlativi».

Vincenzo Zampa e l’esperienza di “Comedians”
D: Altro aspetto da sottolineare di “Comedians” è il suo essere politicamente scorretto, in particolare in alcuni punti, non avete avuto timore dei benpensanti?
«Se pensiamo al film “Lenny” diretto da Bob Fosse sulla vita del comico statunitense Lenny Bruce, interpretato da Dustin Hoffman, è memorabile il suo numero: “Cos’abbiamo qui? Un ebreo, un italiano, un negro. Un italiano mangia spaghetti. Negro, negro…». Se ripeto tante volte una parola, questa perderebbe di forza. Il comico diventa sgradevole se portato in una modalità. Nel nostro film vengono presi in giro anche i meridionali per poi portare lo spettatore a pensare a tutto questo. “Comedians” porta con sé la riflessione sulle parole (infatti bisogna essere concentrati su questo, nda)».
D: Citando dal lungometraggio: «Una vera battuta deve aver voglia di cambiare la situazione». Quanto sei d’accordo con questo?
«Potrei dire di applicarlo anche nella vita: cambiare la situazione per quanto mi riguarda non vuol dire portare alla semplice risata, ma a riflettere, sdrammatizzare, esorcizzare o ad andare fino in fondo di una condizione. Ad esempio a un funerale posso anche fare una battuta per alleggerire il cuore dei cari del defunto. Il potere dell’ironia, della battuta ironica può davvero essere di supporto nella quotidianità dell’esistenza. Paolo Rossi una volta disse: “I nostri politici sono diventati dei comici e i comici si sono messi a fare politica” e, in quel periodo, c’era l’esempio concreto di Berlusconi che nei suoi anni è riuscito a mutare una situazione».
D: Tornando sui cliché: quale sarebbe la tua definizione tra comico e attore di commedia?
«La commedia, per me, è un genere; il comico lo posso trovare anche nella tragedia. Un bravo attore può essere anche un bravo comico; tutti i più grandi comici che ho conosciuto, da Paolo Rossi a De Sica, sono degli interpreti straordinari che hanno dato vita anche a dei ruoli drammatici in modo molto credibile. Rispetto a “Comedians” non bisogna aspettarsi un film comico, ma delle storie di vita di questi personaggi, di cui spesso non sai il background e sarebbe bello che la gente si chiedesse: queste ‘persone’ di cui sto assistendo sullo schermo, nel loro privato, come sono?»
D: Qual è il ‘lato oscuro’ del tuo Michele Cacace?
«La sua ambizione. Tutti vogliamo essere famosi».

D: Ribaltandola su di te?
«Ho in comune con lui la timidezza, è come se avessi rivisto alcuni aspetti superati e mi son detto: ridiventerei così se mi comportassi in quella maniera. Affrontarlo mi ha aiutato a non essere così nella vita».
D: Sembra quasi terapeutico…
«Il nostro mestiere è una ‘psicoterapia’. Tutti dovrebbero fare questa professione così come tanti attori dovrebbero fare i musicisti e viceversa per imparare l’armonia, l’ascolto. Gli attori tendenzialmente ahimè ascoltano poco, in scena e nella vita, ed è un paradosso perché dovrebbero assorbire dall’esistenza per fare al meglio questa professione».
“La variante umana”: scoprite cos’è
Proprio come i migliori assist, dopo l’annuncio di Marco Bonadei della creazione di una loro compagnia intitolata “La variante umana”, è Vincenzo Zampa a raccontarci che sarà costituita da «Noi due, Chiara Amelio (compagnia di vita di Bonadei, nonché danzatrice), Alessandro Frigerio, il quale è diplomato in sceneggiatura alla Civica di Milano e adesso lavora come assistente alla regia per le produzioni dell’Elfo, e il drammaturgo molto bravo Aureliano Delisi. Stiamo già pensando e preparando dei nostri progetti, in realtà ne abbiamo in cantiere già tre. A breve rimetteremo in prova la prima regia “Happle Banana” e posso aggiungere che ci saranno delle regie collettive».

Fa piacere avvertire questa propositività e la voglia di creare; parallelamente ci sembra essenziale farvi conoscere meglio un interprete che rientra ancora tra ‘i giovani attori’ ma che di gavetta ne ha fatta…
Vincenzo Zampa e il coup de foudre per la recitazione
D: Partiamo da dove tutto è cominciato: l’innamoramento verso questo mondo…
«Presso la Parrocchia del Sacro Cuore di Monopoli interpretavo un contadino cantando: “Andiam nei campi a lavorare”».
D: Hai lavorato nel “Così fan tutte” per la regia di Strehler…
«Sì ripresa da Gianpaolo Corti, figlio del mimo Angelo Corti e di Marise Flach. Facevo la comparsa per l’opera lirica ed è stata la prima esperienza professionale in assoluto, ancor prima di essere ammesso in Accademia. Ho avuto l’opportunità di fare tournée in Egitto, a Pamplona, a Bilbao – era una co-produzione Piccolo Teatro con il Petruzzelli di Bari. Quell’esperienza lavorativa mi ha portato a volerne fare una professione. Di quella regia mi porto la precisione e la bellezza, era un orologio incredibile, un ingranaggio fantastico. Tutto doveva essere fatto a tempo con la musica. Era talmente semplice da essere grande».

La formazione di Vincenzo Zampa
D: Cosa ti porti dalla Scuola del Teatro Stabile di Genova?
«La concretezza della recitazione e l’importanza della verità in scena, che può essere anche finzione, ma deve essere funzionale a ciò che rappresenti. Genova è stata la mia seconda adolescenza, mi ha insegnato a crescere da solo – rispetto alla famiglia – e non è un caso che questa città si trovi alla parte opposta della Puglia».
D: Vincenzo tu hai frequentato diversi laboratori, anche molto differenti tra loro…
«I laboratori danno degli stimoli e ti fanno comprendere anche ciò che non vuoi fare. Non posso avere la presunzione, ad esempio, di dire di conoscere il modo di lavorare di Gabriele. La cosa importante è prendere ciò che c’è di buono del maestro, non copiare, ma ‘rubare’; quindi ogni incontro che sia nella vita, sul set o sul palco, inevitabilmente ce lo si porta con sé. I bravi attori sono delle spugne: assorbono, si gonfiano, poi le strizzi e tirano fuori tutto ciò che hanno incamerato e proprio in quest’ottica devo dire che la mia comicità l’ho appresa molto da papà. Da ragazzino oltre ai grandi d’Oltreoceano, apprezzavo anche Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, i cartoni animati come “Gigi la trottola” e, ultimamente, ho rivisto una serie meravigliosa, “Death Note”, un anime giapponese, che mi ha fatto comprendere tanti aspetti».

Chi è Vincenzo Zampa oggi
D: Se dovessi definire oggi, avendo attraversato l’anno e mezzo di Covid – e non è ancora finita -, chi sei sul piano umano e artistico, cosa diresti?
«Una persona più sicura delle proprie insicurezze, in continuo ascolto e ricerca e in messa in discussione attiva. Non mi sento per nulla arrivato; ci sono delle situazioni relative a questo mestiere che possono portarti ad allontanarti, invece oggi più che mai voglio farlo. Per me è importante non perdere l’onestà nei confronti di questo mestiere e dei colleghi».
D: Hai avuto delle esperienze anche importanti per il piccolo e grande schermo, ci sono ancora dei muri da dover abbattere affinché i vari ambiti siano più permeabili. Cosa pensi che si possa fare?

«Continuare a studiare, arrivando preparato sulle cose, in maniera serena e col sorriso e non con ansia da prestazione. Ho avuto il mio anno di disoccupazione, ho detto dei no ed è proprio vero che chiudendo una porta si è, poi, aperto un portone con l’esperienza di “Comedians”».
D: Concludiamo con uno spettacolo che è valso il Premio Ubu a tutta la compagnia, “The History Boys”…
«È stato lo spettacolo che con Marco ci ha uniti ancora di più».
