LEONARDO LIDI è il direttore artistico più giovane di un festival: ha soli trentatré ed è stato chiamato a dirigere la terza edizione del Ginesio Fest, che si svolge dal 18 al 25 agosto in quello che vuole essere il borgo degli attori dato che San Ginesio ne è proprio il protettore.
Abbiamo voluto approfondire con lui (il grande pubblico potrebbe aver imparato a conoscerlo nei panni di Teo nella serie televisiva “Noi”) il programma pensato e le linee che lo hanno guidato, con la fiducia e il confronto con la direzione generale curata da Isabella Parrucci.
D: Partendo dalle tue esperienze, mi ha colpita la scelta di non inserire nulla di tuo…
«Sì così come non mi dirigo. In questi anni ho ricevuto tanta fiducia da parte di Teatri Stabili come quello dell’Umbria, di Torino e, dopo questa ultima nomina di diventare direttore artistico del Ginesio Fest a 33 anni (il che è abbastanza insolito per l’Italia), cerco di canalizzare le energie in maniera precisa per fare al meglio il mio lavoro e non per fomentare la mia riconoscibilità, anzi mi preme far conoscere, nella circostanza del festival, qualche realtà altrettanto meritevole di uno spazio.
D’altro canto, il non essermi mai auto-diretto per me è stata una fortuna poiché ho potuto essere maggiormente lucido nelle scelte».
D: Il Ginesio Fest conferisce un premio ‘all’arte dell’attore’. Quale valore ha per te e cosa ti ha regalato da regista?
«Sono anche coordinatore didattico della Scuola del Teatro Stabile di Torino per cui ogni giorno mi confronto su questo quesito: cercare di comprendere pure cosa fosse l’attore ieri e cosa sia oggi. Ritengo sia essenziale essere attori intelligenti. Come tutta la mia generazione, sono nato in un contesto di precariato, perciò è davvero importante riuscire a essere indipendenti, forti delle proprie idee e avere delle idee rispetto a un mondo teatrale, ancor più in questo momento dove arrivano tanti candidature alle scuole specializzate. Molti ragazzi vogliono fare questo mestiere. Ciò che mi affascina maggiormente è l’attore che ha un pensiero rispetto al pubblico e al suo essere attore. In merito al Ginesio Fest, rispetto al ruolo che ricopro, ho cercato di valorizzare sì i grandi attori, ma soprattutto coloro che lavorano ‘con le mani nella marmellata’, sul proprio territorio, costruendo un linguaggio ad hoc e sono attenti al pubblico di oggi. Ad esempio Baglioni e Bellani è una compagnia che lavora in particolare in Umbria, partendo dall’attualità; Malfitano/Mazza operano da vent’anni sul territorio di Bologna o ancora Sotterraneo Teatro sulla Toscana. Sono artisti che, in parte, non hanno ricevuto tutta questa riconoscibilità (intende a livello nazionale, nda), ma che lavorano quotidianamente e, quindi, hanno la misura rispetto allo spettatore. Dopo una pandemia e con una guerra ancora in corso (e non solo in Ucraina), sono convinto che l’aspetto più importante nei festival – che, secondo me, sono stati creati per porre degli interrogativi anche sul linguaggio, sulla drammaturgia – debba essere quello di ricostruire un alfabeto con lo spettatore e, magari talvolta forzando la vena artistica, mettere sempre dei perché all’inizio di un processo creativo. Penso sia doveroso pensando pure a un pubblico che, nonostante le mascherine e la fatica di uscire di casa, è rimasto fedele al teatro; il che non significa accontentare sempre le richieste, ma cercare di effettuare un progetto in condivisione. Le compagnie e gli artisti invitati sono in grado di ascoltare gli spettatori e non hanno paura di raccontare anche l’oggi – ciò che cerco di fare quando mi approccio alla messa in scena dei classici. Svolgeremo un laboratorio che tenterà di costruire un testo su ciò che è ed è stata la pandemia. Al Ginesio Fest si potrà assistere e interagire con realtà diverse, tutte accomunate dall’amore per il teatro».
D: È bello che abbia voluto mettere insieme differenti realtà, sempre nell’ottica che San Ginesio diventi il borgo degli attori…
«Abbiamo un territorio che conosce cosa significhi il termine ‘ricostruire’ avendo vissuto tragicamente, sulla propria pelle, il terremoto e, quando ho compreso che la ricostruzione fisica debba andare di pari passo con quella culturale, ho chiamato all’appello le persone che hanno il potenziale nella loro esperienza poiché partono dal proprio territorio. Non volevo soltanto ‘ospiti’, ma desidererei costruire un gruppo di persone che si mettono insieme a ragionare su cosa sia un luogo per un attore e quale possa essere, oggi, la funzione dell’attore».
D: Possiamo approfondire l’elemento dei laboratori?
«Porto la mia classe dallo Stabile di Torino – composta da 20 ragazzi tra 18 e 24 anni – avendo iniziato con loro un percorso di formazione da ottobre e credo possa essere una bella risorsa anche per San Ginesio (MC) avere, di fatto, coloro che saranno i protagonisti del futuro, con l’opportunità di dialogare con loro per avere occhi, menti e considerazioni derivanti dalla loro età.
Durante il mio percorso ho ricevuto molta fiducia per cui cerco sempre di restituirla alle generazioni più giovani della mia – lo ritengo un dovere.
Nel corso del laboratorio avranno la possibilità di rapportarsi con autori che scrivono sul presente e, ogni giorno, tramite un testo che parte dalla cronaca, si faranno delle considerazioni per dar vita a ‘un nuovo alfabeto teatrale’. Per mia formazione ed esperienza il teatro è prosa per cui si muoveranno su questo binario».
D: A proposito del teatro di parola: Luca Ronconi, durante la conferenza stampa (27 gennaio 2015) di presentazione di “Lehman Trilogy” ha affermato: «Sono abbastanza convinto che prima o poi un ritorno al teatro di parola nel modo più alto del termine – ossia non soltanto di lingua, ma di lingua, di significato, di appartenenza – sarà presto necessario». Cosa ne pensa?
«Probabilmente non ha mai smesso di esserlo, ogni tanto – anche oggi – ci diamo l’illusione di trovare altri mezzi di comunicazione più immediati della parola; in realtà la parola e il suo uso sono la freccia più efficace che abbiamo nel nostro arco. Pensare di poterla sostituire con i social o di poter stare nelle nostre camere a pensare di dialogare con qualcuno, illudendoci di questo, è un errore. L’invito che faccio sempre ai giovani registi e attori è quello di non cercare uno strumento nuovo per mettere in scena uno spettacolo, ma di affidarsi alla parola perché se ha resistito per tutti questi secoli un motivo c’è. Ovviamente ciascuno ha le proprie peculiarità: io amo il teatro di figura e anche tutto ciò che non rientra nel ‘teatro di parola’, però mi occupo del teatro di parola anche perché lo Stabile di Torino è fondato su questo. Non dobbiamo per forza fare tutti tutto. Attualmente bisognerebbe interrogarsi sulle nuove parole tanto che Ronconi questo pensiero l’ha espresso alla conferenza di “Lehman Trilogy”, dove parliamo di drammaturgia contemporanea. La produzione dello Stabile che dirigerò la prossima stagione è scritta da un ragazzo di ventitré anni ed è stata una scelta che va anche contro la mia comfort zone, ma sento la necessità di affrontarla».
D: Come l’arte e, nello specifico, il teatro possono trasmettere un senso concreto di ricostruzione alle persone che vivono a San Ginesio?
«Ho invitato spettacoli per tutti e non elitari, che hanno il pregio di essere semplici – il che non equivale a dire ‘facili’ e dovremmo porci quesiti pure su questo in quanto il ‘teatro facile’ va contro un’idea di costruzione, può essere intrattenimento nell’immediato. Il teatro semplice pone le basi per qualcosa, il tutto passando per divertimento e/o riflessioni.
Il racconto e la condivisione delle emozioni sono il segno più concreto che possiamo dare. Dobbiamo avere il coraggio di non chiuderci nelle nostre consapevolezze perciò bisognerebbe fare un cambio di marcia. Non è un caso che questo festival sia stato voluto da Remo Girone, il quale è un attore che vive di curiosità e di teatro – certo sostenuto e in accordo col sindaco».
D: A tuo parere il teatro può lenire la ferita condivisa del ‘covid’ o del terremoto?
«Credo che l’esternazione possa farlo. Ho imparato sulla mia pelle che la condivisione è la più grande ancora di salvezza che abbiamo e la chiusura è il peggiore nemico. In un momento in cui siamo stati obbligati a una chiusura, a proteggerci e a vivere l’altro con distanza e come una minaccia, la cosa migliore è raccontare ciò che abbiamo provato. Il teatro serve a questo e ha vissuto i suoi più grandi momenti intrecciandosi con la Storia e le tragedie che l’attraversano – se si pensa a cosa sia stata la peste per Shakespeare o a cosa ci sia prima e dopo Čechov. Dobbiamo, con fiducia e con coraggio, avere voglia di incontrare l’altro e devono essere in primis gli artisti a farlo. Un artista, ancor più adesso, è tenuto a incontrare, magari a fare dei passi indietro ricercando quella semplicità, ma andando alla ricerca del pubblico, anche nuovo, senza ‘accomodarsi’ sugli spettatori fidelizzati – va detto che è molto difficile e fa paura».
D: Hai avuto modo di incontrare Vitaliano Trevisan (prematuramente scomparso)?
«Purtroppo no, ma è il primo pensiero che ho avuto quando mi hanno chiesto di ricoprire la carica di direttore artistico. Essendo uno studioso di testi, l’ho sempre stimato molto da lettore e penso che diventerà classico tra qualche anno – forse adesso non si è ancora così lucidi per capire la grandezza di questo autore. A proposito di alto e basso, grazie al suo talento riesce a parlare a tutti: i due monologhi (“Oscillazioni” e “Solo RH”) sono, probabilmente, le sue opere che amo maggiormente, hanno davvero la capacità di parlare sia allo spettatore abituato al teatro che al neofita. Mi è venuto in mente subito Michele Di Mauro che, con la sua professionalità, potesse far suonare la musica presente all’interno di Trevisan insieme a Franco Visioli.
Questa è la nostra produzione a cui teniamo molto – siamo già ‘in ritardo’ in quanto è un autore che è stato poco riconosciuto»
D: Un aspetto fondante sin dall’inizio è il laboratorio per bambini e adolescenti…
«Non ho studiato per il teatro per l’infanzia, non ci si può improvvisare per cui mi sono fatto affiancare da Vera Vaiano, la quale aveva compiuto già un ottimo lavoro in precedenza e a cui ho lasciato molta libertà e fiducia. È molto importante non dimenticare la parte dell’infanzia e dell’adolescenza perché se si parla di ricostruzione bisogna ricostruire per tutti, non solo per chi ha l’età per votare».
Date queste premesse, sorge spontaneo pensare che non si può mancare all’edizione 2022 del Ginesio Fest, organizzata sempre con tanta passione, dedizione e professionalità, cercando di far fronte alle difficoltà che un evento culturale – ancor più in una zona terremotata – possa presentare.