LINO GUANCIALE è il primo attore a ricevere il Premio Ginesio Fest, istituito in occasione di questa III edizione.
Premio Ginesio Fest 2022 a Lino Guanciale
«Il peggio che può capitare a un talento è di essere compreso, recita un epigramma di un autore conterraneo di Lino Guanciale, e davvero non c’è rischio che questo artista intellettuale, eclettico e popolare vincitore del Premio San Ginesio all’Arte dell’Attore 2022 vanti una sola proverbiale identità, una stima a senso unico. In lui ci sono le giovanili doti shakespeariane su cui scommise Gigi Proietti, le affinità con Albert Camus che le regie di Claudio Longhi seppero valorizzare, il dna drammatico cui lo spinse Luca Ronconi dirigendolo nella terza parte di “Atti di guerra” di Bond, la sensibilità umana e conflittuale dei testi di Koltès in cui ancora Longhi (suo committente più volte) riuscì a coinvolgerlo, il volto che seppe rivelargli Placido. Sulla ribalta, in Guanciale abbiamo riconosciuto un umano compagno e narratore dei “Ragazzi di vita” da Pasolini con messinscena di Massimo Popolizio al Teatro di Roma, e mesi fa sul palcoscenico del Piccolo di Milano ci siamo imbattuti in lui nel ruolo di scrittore in “Zoo” scritto e diretto da Sergio Blanco. Da solo spazia molto a suo agio nella cultura di Ennio Flaiano, e in odissee d’acqua che vanno da Conrad a un ragazzino di Kabul. E ha firmato cinque regie. E cattura il pubblico della tv come avvocato, medico legale, commissario. Insieme alle platee dal vivo del teatro noi ne apprezziamo la forte dignità sfuggente, l’ironia segreta».
Lino Guanciale: intervista sul Ginesio Fest e sugli interrogativi rilanciati durante il festival
D: Partiamo dalla motivazione. Al di là di descrivere bene il tuo percorso così come l’indole artistica e non solo, mi ha molto colpita la conclusione: «Noi ne apprezziamo la forte dignità sfuggente, l’ironia segreta». Come ti sei sentito ascoltando queste ultime parole? (Che effettivamente ti rispecchiano) e quanto e quando pensi che le hai messe in campo consciamente?
«La motivazione è un capolavoro [lo dice col tono di chi è lusingato, orgoglioso e, al contempo, imbarazzato] dove si sentiva la penna in punta di fioretto di Rodolfo (si riferisce a di Gianmarco, nda), ovviamente coadiuvato dagli altri membri della giuria. Mi è piaciuto quanto venisse rispecchiata una qualità che mi riconosco: accanto alla trasparenza, la sobrietà, la discrezione. È un aspetto che fa sia da marchio rispetto alla mia vita privata che a quella scenica; non perché sia un attore ‘ben educato’, tutt’altro… ritengo che le cose migliori che ho fatto sono state quelle in cui si rappresentavano degli eccessi in chiave più o meno grottesca, da “La resistibile ascesa di Arturo UI” a “Carissimi Padri” o ancora “La classe operaia va in paradiso” e tanti altri progetti realizzati in proprio. La discrezione la intendo nel senso di avere sempre molto rispetto del materiale che porto in scena, di chi lo ha scritto, di chi lo ascolterà e lo recepirà. Sono molto cauto prima di dare un punto di vista sulla realtà perché credo che tutto abbia un valore politico talmente forte nel mio mestiere per cui bisogna essere molto puntuali nel costruire un’interpretazione e nel fare una dichiarazione. Detto questo, pur rispettando chiunque, cerco sempre di dire molto chiaramente cosa penso e chi mi conosce lo sa bene.
Mi sono sentito estremamente rappresentato da quelle parole e ritengo che effettivamente tanta parte del lavoro che ho fatto, soprattutto nella maggiore maturità (ormai sono più di vent’anni che porto avanti questo mestiere), abbia trasmesso la mia ricerca della puntualità, della lucidità nella configurazione di un punto di vista, anche parecchio segnato – su questo, ad esempio, “La classe operaia” è il modello su tutti: uno spettacolo estremamente ‘schierato’ e puntuale sia nella scrittura che dal punto di vista dell’interpretazione (e non mi riferisco solo alla mia)».
D: Rispetto ai lavori citati, pensando ad “Atti di guerra” di Bond e al terzo capitolo, intitolato “Grande Pace”, in cui recitavi due ruoli: che ricordo hai istintivamente di allora?
«Non avevo avuto la possibilità di frequentare il Ronconi maestro perché negli anni in cui ho studiato alla Silvio d’Amico lui era già impegnato a dirigere il Piccolo e la scuola annessa. Non avevo ancora avuto modo di lavorarci, anche se, pur giovanissimo, avevo preso parte a degli spettacoli importanti per Gli Incamminati (la Compagnia di Branciaroli), avevo già incontrato Claudio Longhi – mio compagno di strada teatrale ancora oggi – per cui, in uno spazio molto breve, si erano già verificati dei progetti di valore.
Lavoravo da tre anni quando ho incontrato Ronconi e ringrazio ancora oggi la mia sorte che mi ha dato quest’opportunità, in più con un’esperienza intensa perché partecipavo all’allestimento sia di “Atti di guerra” che di “Biblioetica: istruzioni per l’uso”, due dei cinque spettacoli che mise in scena per i giochi invernali di Torino 2006, nominati da noi ‘ronconiadi’ in quanto il maestro era davvero impegnato in una sfida olimpionica. Quasi ogni attore era occupato su due produzioni. Per quel che mi riguarda è stata un’esperienza fondamentale perché arrivai lì con la fierezza di chi adempie a un preciso dovere deontologico. Quando sono uscito dall’Accademia erano ancora presenti nel nostro teatro i grandi maestri della scuola del dopoguerra – Ronconi, Castri, Cobelli – e uno, se poteva, doveva lavorarci con tutti quanti loro in quanto significava incontrare la tradizione o la non tradizione che ci aveva preceduti, di cui, pur non sapendolo, eravamo figli. Ho avuto la gioia e la fortuna di lavorare appunto con Ronconi, non con Castri né con Cobelli ahimè, però quest’esperienza è stata davvero decisiva perché considero questo maestro la grande invenzione italiana del Novecento e incontrarlo mi ha aiutato a mettere ulteriormente a fuoco cosa mi interessi di questa professione e in che maniera, col nostro lavoro, si possa incidere sulla realtà. È stato essenziale anche per via oppositiva poiché non sono d’accordo con tutto ciò che il maestro ha detto o fatto o considerato ideologicamente (nell’accezione teatrale) importante; ritengo, al contrario di Ronconi, che il teatro abbia un inevitabile senso politico forte e che, consci di questo, si debba consapevolmente utilizzare nel senso che uno vuole – ovviamente non propagandistico, ma intelligentemente comunitario – il lavoro che si fa. Pur insistendo il maestro sul fatto che il suo teatro non avesse messaggi politici da dare (quando sentiva parlare di messaggi o contenuto politico ‘gli venivano le bolle’, ma penso che fosse per il timore della banalizzazione… rischio che è sempre dietro l’angolo), in realtà le sue operazioni, sia quelle più riuscite che meno, avevano sempre un fortissimo significato e una grande ricaduta culturale a tutto tondo e, quindi, anche politica. “Atti di guerra” direi scopertamente perché questo Bond, apparentemente distopico, ma del tutto futuribile pur nella sua assoluta metafisicità di prospettiva, era più vicino a Ronconi di quanto lui stesso fosse pronto ad ammettere (in particolare mi riferisco al Ronconi di quella stagione). È stato un capolavoro, per molti versi perduto – in virtù degli infortuni incorsi al protagonista, Massimo Popolizio, fece poche repliche, ma sono sicuro che chi ha avuto modo di assistervi, lo consideri un’avventura della conoscenza indimenticabile. È stato emozionante vedere come, fino a un certo punto delle prove, il corpo a corpo con questo testo per Ronconi fosse faticosissimo; poi, a circa dieci giorni dal debutto, qualcosa si è sbloccato, e nelle ultime tornate di prove è riuscito a costruire uno spettacolo che non fosse solo ben delineato, ma potentissimo dal punto di vista del significato».
D: Secondo te, sia per la tua esperienza nel rapportarti coi più giovani coi corsi di formazione sia rispetto ai colleghi, è possibile che si metta da parte l’ego e San Ginesio diventi il borgo degli attori che si desidera sviluppare? Da attore, ormai con una determinata esperienza, quali pensi che dovrebbero essere i punti per cui si dovrebbe contraddistinguere?
«Ritengo assolutamente che sia possibile andare oltre gli interessi individuali e costruire spazi di riflessione comunitaria e categoriale, che siano di protesta e rivendicazione, oltre che funzionali all’interrogarsi insieme su quale sia il significato di fare il nostro mestiere. Facciamo un lavoro che ammette indirizzi poetici diversi: bisogna che ci sia accordo su quali sono i sistemi di tutela da rivendicare per tutti così come i diritti da difendere per tutti. È ciò che un po’ è mancato in questi anni: aggregarsi tra attrici e attori per difendere ciò che ci accomuna e deve accomunarci, lasciando spazio a chiunque di portare avanti questo mestiere nel modo che ritiene più opportuno e degno. Il sindacato, a mio parere, è il luogo ideale per fare tutto questo. Lo è stato negli anni Settanta, dove sono stati portati a casa notevoli risultati a seguito di grandi battaglie condotte da attori di fama insieme a coloro che di notorietà ne avevano meno. All’interno della categoria non è importante chi è più bravo e chi lo è meno, chi ha la poetica più peculiare e chi quella magari più tradizionale. Non devono interessare le capacità individuali, ma la difesa della specificità dei nostri diritti perché la nostra professione richiede un’attenzione precisa sotto molti aspetti. Bisogna essere capaci di mettere da parte l’universo professionale-artistico e pensare a quello professionale-umano, che deve configurarsi come un sostrato di difesa per tutti delle condizioni minime per svolgere questo lavoro, che poi ognuno possa estrinsecare come vuole. Parlo del sindacato perché penso che la storia della tutela del lavoro sia una storia da sindacato e non tanto da difesa corporativa della propria categoria. Quando eravamo dentro la pandemia, ho scelto di ritesserami dopo molti anni e riprendere un percorso che desse senso alla rappresentanza sindacale degli attori.
Credo che il Ginesio Fest abbia preso la direzione più giusta possibile per fare di San Ginesio il borgo degli attori, in qualche modo è già così, basti constatare con quanta capacità si sia voluto rappresentare le tante varietà di poetica, accomunate da un fattore fondamentale: l’eccellenza degli artisti coinvolti. Così com’è importante che si difenda la categoria al di là delle differenze di ceto, popolarità e di blasone; altrettanto essenziale è che il borgo degli attori deve passare da un lato anche dalla pubblicizzazione della necessità per gli attori e le attrici di fare gruppo, dall’altro attraverso l’eccellenza artistica della proposta. Onde generare equivoci, se veramente si vuole intervenire all’interno della città per rifunzionalizzarla completamente tramite il rapporto con il teatro, allora quest’ultimo che viene chiamato a mettere in atto questo difficile compito deve essere un teatro di altissimo livello».
D: Tu sai cosa vuol dire la ricostruzione, ma anche il rallentamento della burocrazia e come, talvolta, anche le persone che possono smuovere trascurino. Ti sei speso nel sensibilizzare rispetto a L’Aquila… qual è la percezione che hai avuto di San Ginesio in tal senso? Cosa risponderesti a chi dice o pensa che non può essere un festival di teatro a spostare l’attenzione sulla ricostruzione concreta di edifici e, in generale, di un paese?
«Mi ha colpito vedere come, in virtù di un’attività culturale tanto pervasiva per il paese qual è il festival, si assiste a una specie di miracolo. Veramente la sera le impalcature e le travature dei palazzi sembravano rifunzionalizzate e parte di una scenografia perché una potente iniezione di vita comunitaria com’è il Ginesio Fest significa dare prova, ogni giorno, riempiendo quelle vie e quei posti di gente che costruisce senso… Significa fare la barba del tutto contropelo alla distruzione che il terremoto porta e ai segni che lascia, significa dire: noi continuiamo, anzi, siamo vivi più di prima. Quella sera ho percepito nitidamente come questa euforia del fare teatrale riuscisse a far guardare tutti non con lo sgomento terrorizzato di chi attraversa un paesaggio desolato, ma con lo stupore di chi si accorge soltanto dopo un po’ che le travature ci sono. La capacità che l’arte ha non è quella di distrarre, ma di farci accedere a un’altra dimensione della parola costruire per cui la gerarchia delle priorità cambia e così, anche se ci si trova in un posto in cui c’è da fare e i segni della furia della natura sono ancora evidenti, passa miracolosamente in secondo piano rispetto a quello che stai facendo.
A chi dice che un festival non importa per ricostruire, dico che mi dispiace per lui o per lei perché vuol dire vivere la vita da una prospettiva estremamente ribassata, in cui dei tanti bisogni che gli uomini e le donne hanno, se ne calcolano un paio per vivere rispetto a tutti quanti gli altri. La cultura, l’arte ci ricordano che siamo molto più della nostra sopravvivenza e quindi ci aiutano a vivere anche in condizioni disastrose… Guardiamo a quello che accade in Paesi meno fortunati del nostro; poi, quando arriva un terremoto, ci rendiamo conto che, quelle scene di vitalità – con quest’ultima che salva in posti distrutti da guerre o enormi calamità naturali – sono ripetibili anche da noi nel momento in cui un sisma distrugge, ad esempio, le città che siamo abituati a pensare perfettamente delineate. La vita è più forte e la voce della vita, in generale, è proprio questa: l’arte, che è quello che ci rende gli esseri, per certi versi, disastrosamente padroni di questo pianeta».
D: Al di là del tuo amore e della tua conoscenza di Flaiano, come mai hai pensato che fosse ‘giusto’ questo pezzo (“Riflessioni sull’essere italiani” da “La solitudine del satiro”) per questa occasione?
È forte la conclusione: «Si consoli pensando che per molti, l’italiana, non è una nazionalità ma una professione». Flaiano allora e tu con la cassa di risonanza che hai, su cosa pensi che dovremmo riflettere e ‘lottare’ nell’essere italiani?
«Ho pensato di citarlo quella sera – e lo ammetto senza nessun problema – perché siamo in campagna elettorale, che implica l’interrogarsi su cosa significhi essere italiani ripensando al rapporto con le nostre istituzioni, con la nostra cultura e con la nostra identità.. un grande tema di questi anni. Cos’è l’identità? Un orizzonte mobile e liquido oppure un monolite a cui aggrapparsi per non perdersi. Il tono di Flaiano mi sembra che rispecchi il mio punto di vista sull’identità e, allo stesso tempo, ho cercato di invitare chi mi stava di fronte a riflettere su quanto problematico sia il tema dell’identità e su quanto sia sciocco dare delle risposte banali e semplificatorie.
Subito dopo ho letto l’incipit dell’“Eneide”, traducibile omettendo o affrontando il fatto che Virgilio chiaramente definisce Enea per quello che è: un profugo e il grande fondatore della nostra civiltà latino-occidentale. Ho deciso di leggerli in dittico per offrire alle persone che mi stavano ascoltando dell’altro materiale di riflessione in vista dell’impegno che avremo tutti quanti il 25 settembre».
D: Sul palco non hai mancato di manifestare l’impegno che porti avanti da tempo, parlando della figura dell’attore oggi…
«Ho ribadito quello che è stato il mio impegno: combattere per il riconoscimento della natura intermittente del nostro mestiere, che quindi richiede forme di tutela non da privilegiati, ma ad hoc. La normalità di una persona che fa l’attrice o l’attore in Italia è quella di lavorare un tot piuttosto basso di giorni l’anno, con grandi pause tra un progetto e l’altro – in questo lasso di tempo si fa formazione nel senso che si studia o si insegna come succede a tanti artisti. Mi sono fatto latore, insieme ai relatori Grimaudo e Carbone, di una proposta di legge che riconoscesse la natura intermittente che richiede, come detto, un sistema di tutele precise – è passata in parlamento e si attendono i decreti attuativi. Non si deve più consentire a un accidente del tutto dirompente, pervasivo e inaspettato come una pandemia di fare piazza pulita del lavoro quasi di tutti. Quando la pandemia ha interrotto il lavoro, ancor più per i lavoratori dello spettacolo, non si capiva come riuscire a sostenerci perché, in questi anni, noi in primis abbiamo tirato a bivaccare, senza combattere per l’organizzazione di un sistema integrato e complesso di tutele nei nostri confronti come avviene per tutte le categorie di lavoratori, ma attraverso un’eccezione o un ‘provvedimentino’ si è mandata avanti la baracca. Non è più quell’epoca, bisogna costruire sistemi solidi di difesa da accidenti sempre possibili come quello che abbiamo attraversato. Va salvaguardato il tempo in cui non si lavora di persone che chiaramente fanno questo mestiere, con un cv di tante ore di prove, di spettacolo, ecc. che, quando si ritrovano senza progetti, hanno bisogno per sé e per la propria famiglia. Il sistema che è stato pensato non regala nulla, anzi va comprovato di essere capaci di saper fare questa professione nel senso di avere molte ore alle spalle che giustifichino che venga erogato un reddito parziale per il tempo in cui non si lavora. È la stessa base che, in Belgio, Germania, Francia (per citarne alcuni), ha fatto sì che attori e attrici fossero protetti da regole puntuali così da poter lavorare e creare meglio e con maggiore tranquillità.
L’altra costola del mio intervento è stata tesa a constatare come, alla riapertura delle sale teatrali e cinematografiche, le persone abbiano disertato le seconde in virtù della presenza in molte case di grandi schermi e delle piattaforme che consentono di intercettare grandi film senza uscire da casa – di qui la necessità di chiedersi su come riproporre alla nostra società il piacere e la necessità di andare a frequentare il cinema [ci tiene a precisare che crede che sia un’esperienza imperdibile nella vita di ognuno]. La cultura cinematografica va ricostruita, bisogna studiare come attrarre il fruitore, il quale deve trovare ciò che non trova guardando il film a casa propria. I teatri, dal canto loro, sono stati affollati e, quindi, è evidente che c’è bisogno di comunicazione fisica, diretta e alcune di queste persone non andavano a teatro prima della pandemia. Chi fa teatro non può perdere questa occasione: vanno ricostruite la relazione e la fidelizzazione. Per farlo gli attori non possono accontentarsi di fare soltanto gli attori, aspettando in palcoscenico che il pubblico riempia le sale, devono andare incontro agli spettatori, uscire dalle mura del teatro e questo nella politica del Ginesio Fest è evidente sia come intenzione che come risultato».
D: Leonardo Lidi, durante la nostra intervista pre-festival, mi ha detto questo: «Dopo una pandemia e con una guerra ancora in corso (e non solo in Ucraina), sono convinto che l’aspetto più importante nei festival – che, secondo me, sono stati creati per porre degli interrogativi anche sul linguaggio, sulla drammaturgia – debba essere quello di ricostruire un alfabeto con lo spettatore e, magari talvolta forzando la vena artistica, mettere sempre dei perché all’inizio di un processo creativo. Penso sia doveroso pensando pure a un pubblico che, nonostante le mascherine e la fatica di uscire di casa, è rimasto fedele al teatro; il che non significa accontentare sempre le richieste, ma cercare di effettuare un progetto in condivisione». Cosa ne pensi?
«Sono pienamente d’accordo con Leonardo e, d’altra parte, la mia storia lo dimostra: non faccio solo l’attore, vado nelle scuole, col mio gruppo storico abbiamo lavorato sia a ERT (Emilia Romagna Teatro Fondazione) che quando abbiamo collaborato col Teatro di Roma per costruire più contesti di aggregazione sociali, dalle squadre sportive fino ai centri sociali, ai gruppi di lettura nelle biblioteche e ai sindacati. Ritengo profondamente che gli attori dovrebbero andare a incontrare il pubblico in ogni contesto di aggregazione sociale e culturale perché lì dove la gente si lega insieme, il teatro può germinare come bisogno. Il nostro alfabeto si ricostruisce soltanto negoziandolo con lo spettatore: ogni scrittura è frutto di un patto tra gli scriventi e chi fruisce, il nostro si costruisce insieme a loro, altrimenti continuiamo a parlare una lingua che chi ci guarda non capisce più».
D: C’è qualcosa che tieni a dire, in particolare, sul Ginesio Fest anche come prospettiva?
«Sono ammirato e felice che esistano luoghi che provano quanto l’investimento culturale sia costruttivo per le comunità perché quest’ultima non passa soltanto per l’edificazione di palazzi, ma è significativa la rifunzionalizzazione dei luoghi… e solo la cultura può riuscire a trasformare una piazza in un teatro. Solo ‘quella cosa’ che è il gioco dei bambini iperstrutturato che amiamo fare riesce a farti guardare in un modo diverso i luoghi che hai davanti tutti i giorni. Non serve ricostruire la piazza di San Ginesio da un’altra parte, serve provare che, nonostante tutto, quel luogo è vivo perché può far nascere storie».
D: Sabato 10 settembre, nella cornice particolare della Casa della Carità e dell’iniziativa milanese in cui si inserisce, hai proposto “Fuggi la terra e l’onde”…
«È stato importante tanto quanto farlo ai Bagni Misteriosi, dove lo avevo portato due anni fa. Sia che reciti per due persone che per ventimila il tuo lavoro è lo stesso e, sotto certi aspetti, per quello che racconta “Fuggi la terra e l’onde”, proporlo alla Casa della Carità a Crescenzago hai la consapevolezza che si è in un luogo dove determinati contenuti risuonano in maniera diversa per te che lo stai facendo e per chi lo sta ascoltando. È stato utile che chi lo aveva già visto, lo vedesse lì perché è stato testimone che un teatro – il più importante d’Italia – organizza questo tipo di spettacolo in quel luogo. In più è giusto e significativo che chi abita in zona abbia accesso a questo tipo di occasioni; parallelamente tutto ciò non si deve trasformare in una fiera dell’happening, in sporadici eventi che manifestino un’attenzione estemporanea. Sono testimone più di ogni altro di quanto Claudio Longhi abbia a cuore tutto questo per i temi che abbiamo trattato durante l’intervista, tra cui l’idea che il teatro vada fuori da sé per reincontrare il pubblico e dia prova di quanto vera sia la vocazione del teatro d’arte per tutti, che è quella su cui si è costruita sin dall’inizio la storia del Piccolo. Bisogna, quindi, portarlo in ogni luogo della città, non soltanto attraverso gli allestimenti, ma anche con progetti integrati verso i poli più decentrati. A Modena abbiamo fatto tanto col gruppo storico. Tutto ciò si riesce a realizzare se il lodevolissimo e salvifico impegno del comune, si trasforma in un affiancamento al teatro anche in questa dimensione continuativa. Sono le istituzioni le prime a doverci credere, poi i teatri devono giocare la loro parte – mi sembra che l’orientamento dell’assessorato alla cultura di Tommaso Sacchi sia decisamente incline a non cadere nel rischio degli happening e a costruire relazione con i luoghi più lontani dal centro».
Ph Ester Rieti