LINO MUSELLA ha un fare riservato (nell’accezione più positiva del termine), questo, però, non gli impedisce di essere molto generoso durante la conversazione, anzi.
Premio UBU nel 2019 come miglior attore per “The Night Writer – Giornale notturno”, uno spettacolo scritto e diretto da Jan Fabre, in cui l’artista belga unisce in un’autobiografia intima e provocatoria alcune pagine dei diari personali.
Sta diventando sempre più – e meritatamente – un volto per progetti di qualità per piccolo e grande schermo; ma la scena è da dove è partito e non ha alcuna intenzione di lasciarla.
Lo abbiamo voluto incontrare dopo essere rimasti colpiti dall’ultimo lavoro che ha cucito su di sé, omaggiando Eduardo, facendo rivivere le sue parole e risuonare le tavole del palcoscenico. Ci riferiamo a “Tavola tavola, chiodo chiodo…” visto al Piccolo Teatro Grassi di Milano.
Lino Musella: “Tavola tavola, chiodo chiodo…”
D: Quanto del discorso che ha inserito nel finale è condivisibile oggi?
«È sicuramente condivisibile nella nostra attualità, però va tenuto presente che affronta una situazione del ’59, che noi sentiamo nostro. Se ci soffermiamo a riflettere scopriamo che la sua era una profezia, che poi si è avverata. Lui scongiura il fatidico anno zero del teatro italiano – noi siamo nati nel sotto zero. A un tratto Eduardo, parlando dei teatri nazionali, afferma: “Ho sentito che aleggia questa possibilità folle” e noi ci viviamo dentro. Allora qualcuno già diceva che bisognava conferire più potere alle maggiori città e il paradosso si è realizzato e è non avvenuto chissà quanto tempo fa».
D: Secondo lei sarebbe da portarlo davanti ai nostri governanti, dato che è difficile che vengano loro in teatro?
«Sui referenti ‘politici’ non saprei… anche perché questo spettacolo è rivolto innanzitutto agli spettatori, è con loro che vuole condividere questa riflessione sul teatro e gli chiede di assumersi la responsabilità di salvarlo. Certo invoca le istituzioni».
D: Le parole iniziali sono una riflessione che ci richiama: sono tutte parole tratte da scritti di De Filippo?
«Sì, non c’è niente scritto di mio pugno, se non piccoli giochi che faccio. “Come può vivere un attore senza pubblico?” è Eduardo. Tutte le parole che dico sono tratte da lui, da Pirandello, Scarpetta, Titina, Peppino».
D: Immagino che lei si sia posto questa domanda e che durante la pandemia abbia avvertito la mancanza del contatto con gli spettatori…
«L’idea è nata proprio nel corso del periodo soprattutto di chiusura. Avevo letto vent’anni fa un libro scritto da Maria Procino, che mi ha aiutato nella ricerca storica. Durante il primo lockdown mi telefonò Tommaso De Filippo, con cui c’è grande stima e affetto – ci conosciamo anche perché la Compagnia De Filippo, Elledieffe, ha prodotto un mio piccolo lavoro sui sonetti di Shakespeare (divenuto un cult, nda) – e mi chiese che cosa ne pensassi in merito all’idea di realizzare qualcosa sulle poesie di Eduardo che riprendesse la tipologia di quello sui sonetti. Dopo averci pensato, lo risentì e gli dissi di aver letto quel libro. Se penso all’Eduardo di allora e in questo momento, a me mancano tutte le parole specifiche che ha detto, non trasposte nell’arte della commedia. Mi ero anche ricordato che all’interno di questo testo avevo scoperto qualcosa di straordinario: uno dei teatranti più importanti al mondo e degli uomini più riconosciuti della nostra cultura partenopea e italiana, ha messo in piedi un’impresa donchisciottesca, completamente folle, ci ha rimesso soldi e li ha fatti rimettere anche al Piccolo – ci sono scambi con Paolo Grassi. A Tommaso piacque l’idea, la Procino è una loro amica di famiglia per cui, non appena ci si è potuti muovere, ci siamo incontrati e abbiamo ‘costruito’ – è emerso tantissimo materiale di Eduardo, che è un uomo che ha detto e fatto tanto e, in questo caso, ce lo siamo ‘scippato’.
D: Lino lei è riuscito a conferire dignità anche alla celebre frase: «Lo sforzo disperato che compie l’uomo nel tentativo di dare alla vita un qualsiasi significato è teatro»… è come se non fosse più meramente un aforisma perché contestualizzata nell’arco drammaturgico da lei creato, l’ho avvertita molto più vera.
«Quello doveva essere il mio lavoro: rendere concrete delle frasi così o il suo complicarsi la vita in scena fino alla questione di fiati».
D: A proposito del dialogo tra le generazioni, nelle sue note scrive: «Faccio parte di una generazione nata tra le macerie del grande Teatro e che può forse solo scegliere se soccombere tra le difficoltà o tentare di mettere in piedi, pezzo dopo pezzo, una possibilità per il futuro, come ermeticamente indicano quelle parole – incise nel Teatro di Eduardo – che in realtà suggeriscono un’azione energica e continua». Lei è riuscito a far in tempo nell’incontrare dei maestri; i giovanissimi di oggi probabilmente ne sentono la mancanza. Secondo lei che dialogo può esserci?
«La generazione precedente alla mia in termini storici se l’è passata peggio, nel senso che è stata un po’ ‘schiacciata’. Coloro che oggi hanno 55-60 anni hanno vissuto una crisi sistemica, che ha portato quei pochi bravi e fortunati che sono riusciti a passare alla ribalta a curarsi il proprio orticello [afferma questo senza voler troppo generalizzare], senza pensare che hanno il dovere di aiutare. Si è persa un po’ la consuetudine di fare da gregario, di aprire il vento perché poi altri seguano… Credo che tutte le cose vadano sempre ristabilite e rigenerate. L’espressione più vuota che ho sempre sentito, soprattutto nel teatro, è l’idea che quella determinata proposta sia superata. A me verrebbe sempre da controbattere: in che senso? Se, ad esempio, il pubblico degli Anni ’70-80 era oggettivamente più colto di quello contemporaneo. Gli spettatori di allora sono stati educati a una complessità; adesso ci si ritrova a dover fare dei passi indietro sani, a dover ristabilire un contatto ombelicale col pubblico».
D: In molti hanno ancora timore nell’andare a teatro e alcuni lo hanno manifestato quando si è passati alla capienza al 100%. Cosa si può fare?
«Io lo posso fare nel come agisco in scena, nel come mi propongo. Ritengo che ci sia stata un’attivazione muscolare diversa sia da parte di tutti coloro che devono rappresentare uno spettacolo che di chi ne deve fruire. Apprezzo che lo spettatore venga, si muova da casa, si sieda rispettando le regole di indossare la mascherina, quindi c’è qualcosa che è già scattata. Dall’altra parte l’attore, sul palco, sa quanto quell’azione sia rara. Ci vuole tempo e c’è da fare molto di più. Per quanto concerne il nostro panorama teatrale si è completamente dispersa la centralità dell’autore – Eduardo la denunciava come ormai abbandonata – e noi siamo andati oltre. Gli autori sono pane per i denti degli attori, cibo necessario per gli spettatori; poi possono esserci tutte le eccezioni – io in primis amo vedere performance, sperimentazioni. In primis ci devono essere gli autori perché se non ci sono scritture che tentano di comunicare il presente e passare, non resta niente… dove si va?».
«Tutto ha inizio da uno stimolo emotivo»
D: Citando Eduardo, lei ha affermato: «Tutto ha inizio da uno stimolo emotivo». Rispetto al suo percorso (ha studiato anche regia, così come il lavoro sulle luci), è stato così anche per lei?
«Sì. La periferia, questa dimensione anche molto concreta, non per forza ‘brutta’… non c’è niente di più malinconico dello sguardo al desiderio di bellezza, di doversi sempre muovere. Sentirsi in qualche modo periferico, che può essere una condizione della vita e non corrispondere a quella geografica. Non ho mai avuto uno sguardo né invidioso né giudicante, semplicemente sei nato in uno status per cui è venuto naturale guardare verso il centro, osservarlo, studiarlo e pensare a tutti i passi per arrivare lì».
D: Prima accennava al complicarsi la vita in scena di Eduardo, per lei cosa vuol dire?
«Complicarsela vuol dire già uscire da uno stato di comodità, riguarda una determinata fase. Noi attori sappiamo molto bene quali sono le proprie comfort zone; sfuggire il più possibile da esse significa ‘complicarsi’ anche perché hai imparato che essere in bilico produce sempre un’energia migliore».
Lino Musella e l’arrivo sullo schermo
D: Riflettendo pure sull’arco di scelte che possano aver portato a dei noi, finalmente sullo schermo si sono accorti che esiste…
«Ho cominciato volontariamente a fare cinema a 34-35 anni, fino a quell’età non ho avuto neanche l’agenzia. Sono stato piuttosto fortunato perché mi hanno proposto di fare un provino, sono andato per caso – l’agenzia si era proposta qualora lo avessi superato – e da lì è partito tutto… Mi sono trovato subito in una macchina che è esplosa come “Gomorra” e, dopo questo ‘fenomeno’, ho rifiutato delle proposte perché avevo la mia compagnia.
Negli ultimi anni mi sto abbandonando di più al mezzo e mi sto sentendo maggiormente a mio agio».
D: Che tipo di esperienza è stato girare “Lei mi parla ancora”?
«Bellissima, con un maestro, anche padre del cinema italiano. È stato un incontro con questi due ‘artigiani’: Pupi e il fratello Antonio in qualità di produttore, mi ha ricordato quasi i carrozzoni teatrali. Sono stato molto fortunato rispetto agli incontri: con Sorrentino ho avuto modo di lavorarci tre volte e ancora Martone, i fratelli D’Innocenzo».
D: Com’è andata col ruolo del vicequestore de “La belva” di Ludovico Di Martino?
«È un uomo grigio, è difficile incarnare degli uomini che ci sono e non ci sono e poi è stato interessante prendere parte a un film di genere. Il regista lo stimo molto».
D: Quanto conosceva Benedetto Croce e quanto interpretarlo (in “Qui rido io” di Martone) l’ha fatta riflettere sul suo pensiero?
«Nell’ultimo periodo ho collaborato tanto con l’Istituto filosofico di Napoli, effettuando tante letture per loro per cui ho frequentato un ambiente molto bello e sano del pensiero napoletano. Ho letto dei suoi testi, ma mi ha stimolato di più approfondire il rapporto complesso di Croce con il fascismo. Mi sono chiesto come fosse sul piano umano visto che aderì per poi diventare antifascista. Mi ha molto incuriosito la complessità di uomini che ragionavano sulle cose».
D: Ripensando ai lavori che ha ‘costruito’ su di sé e, in particolare a “Tavola tavola, chiodo chiodo…”, mi ha trasmesso non solo la passione di Eduardo, ma anche la sua e l’azione del costruire sul palcoscenico mi ha comunicato la volontà proprio di Lino Musella di voler ripartire…
«Era questo l’intento. In altri scritti Eduardo chiarisce la poetica dei propri lavori e lo fa in relazione a Pirandello. Il genio del teatro di quest’ultimo sta nel distruggere, fa in frantumi l’uomo, l’identità sociale: è questa la sua grandezza. Il teatro di Eduardo fa critica di costume, ma sempre con una possibilità umana. Io non so se sono più pirandelliano o eduardiano. Siamo regrediti e non possiamo permettercelo».
Lino Musella e la considerazione dell’amicizia
D: «Fratelli si diventa dopo aver guardato nell’animo di una persona come in uno specchio di acqua limpido, dopo averne scorto il fondo». D’istinto, cosa le suggerisce questa frase inserita nello spettacolo?
«Ho un’altissima considerazione dell’amicizia e delle neo-famiglie. Quando dico fratello non intendo un legame di sangue».
D: Si potrebbe dire che un po’ è nata così la vostra compagnia Musella-Mazzarelli?
«Assolutamente. Ho diversi rapporti fraterni, molti dei quali sono luminosi, però spesso ho anche sofferto per una sorta di ‘inquinamento’ nella relazione. Questo scambio tra Eduardo e Peppino mi commuove, l’istinto della lettera di Peppino è giusto – quello di voler far pace – ma il livello della questione resta un po’ in superficie. Eduardo, invece, scava. Mi sono ritrovato nella vita in situazioni simili: bisogna analizzare la questione, guardarla, ci si ‘scanna’ e poi, dopo, possiamo fare pace».
D: Nello spettacolo Eduardo dice che nella sua compagnia esistono caratteri e non ruoli; a lei è mai capitato di fare un carattere?
«È successo, all’interno dello stesso progetto, un ruolo e un carattere, ad esempio in “Strategie fatali”».
D: In questo periodo si sente più libero come artista o come persona?
«Come persona perché comunque sei dentro un percorso: devi tenere conto di ciò che hai fatto in quanto esiste una fidelizzazione non solo con il pubblico, ma anche con i teatri. Non procedo per strategie. Penso anche che se sentissi la necessità di realizzare qualcosa che non c’entra nulla, avrei modo di farla; però mi sento più responsabile come artista».
I prossimi progetti di Lino Musella
D: Quali sono i prossimi progetti?
«Riprendiamo con Federica Rosellini “Nella solitudine dei campi di cotone” (regia di Andrea De Rosa) portandolo al Teatro Astra di Torino e allo Storchi di Modena. Non ho accettato altri progetti perché ritengo che gli spettacoli di valore bisogna portarli avanti (erano andati in scena un giorno, nda).
Con Paolo Mazzarelli porterò in scena un nuovo lavoro, “Brevi interviste con uomini schifosi”, in cui siamo solo interpreti – a volte lo facciamo ed è rigenerante. La regia e la drammaturgia sono curate da Daniel Veronese.
Per quanto riguarda il cinema devono uscire diversi film che ho girato durante quest’anno e recentissimamente ho fatto una partecipazione all’interno della serie di Roberto Andò su Letizia Battaglia, dove interpreto Pasolini».
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