Tom Hardy era riuscito a incollarci al grande schermo per 85 minuti; adesso la sfida se l’assume tutta FILIPPO DINI, attore e regista teatrale che forse non ha avuto ancora l’exploit che meriterebbe soprattutto su larga scala (pur avendo preso parte a diverse fiction), ma che ben ha intuito come muovere i giusti passi (compresi gli sbagli, che solo lui sa, da cui si esce rafforzati). Sul palcoscenico senz’altro ha lasciato il segno in molti spettatori per l’incredibile lavoro anche vocale effettuato interpretando ne “Il discorso del re” Albert – detto Bertie – secondogenito balbuziente di Re Giorgio V.
Nel frattempo l’interprete genovese si è cimentato in altre pièce anche in qualità di regista, ma “Locke” sembra assumere diversi valori e sfaccettature, per lui, per il teatro e per noi spettatori oggi, sia perché è davvero un’emozione che fa tremare i polsi poter ritornare a parlare di debutto nazionale, produzione, sia perché questa rappresentazione ci farà fare i conti con noi stessi senza sconti. Ma scopriamo meglio cosa c’è al centro – e nel profondo – di questo spettacolo.
Locke con Filippo Dini: sinossi
Un uomo esce da un cantiere, si sfila un paio di stivali da lavoro e sale su una bella auto. Qui inizia il suo viaggio. Durante il tragitto, Locke parla al telefono con altre persone. Non conosciamo le sue emozioni e i suoi pensieri, ma sono le telefonate a raccontarci la sua storia ed è la forma dei suoi rapporti a svelarcelo. Locke è un uomo borghese: ben vestito, con un buon lavoro, un buon reddito e una bella famiglia. A casa lo aspettano due figli, una moglie, la partita alla tv, le birre e il barbecue. Il cantiere al quale lavora è la costruzione di un edificio di grande prestigio e per la mattina seguente è prevista «la più grande colata di calcestruzzo dell’edilizia urbana londinese». Tutti si sanno di lui, ha tutto sotto controllo, è «il più bravo capocantiere d’Inghilterra».
Quella notte però Locke non torna a casa, ma parte per un lungo viaggio.
Succede qualcosa che cambierà per sempre la sua esistenza e compirà una scelta che distruggerà la sua vita per come l’ha conosciuta e costruita fino a quel momento. Un testo sull’assunzione di responsabilità e sull’estrema fragilità degli edifici morali sui quali costruiamo le nostre famiglie e le nostre sicurezze.
Locke: intervista a Filippo Dini
Abbiamo avuto modo di intervistare Filippo Dini in una pausa dalle prove e sin dalle prime parole traspare quanto lavoro ci sia dietro questa messa in scena.
Ivan Locke e l’assunzione di responsabilità
Per chi ha visto il film, Ivan Locke, mentre è on the road, esprime uno dei suoi intenti: riscattare il suo cognome e si rivolge al padre guardando attraverso lo specchietto retrovisore ed evocando quasi un confronto shakespeariano. A tal proposito l’artista ci racconta che «nelle didascalie alla sceneggiatura si insiste molto sullo specchietto, che, nel nostro caso, non è soltanto la presa di coscienza di se stesso, ma è anche uno sguardo sul passato. Tutto questo non viene esplicitato nella rappresentazione volutamente perché non desideravo incedere troppo sul tema – secondo me già abbastanza presente. È però una spia che l’autore ci fornisce sul fatto che questo aspetto sia detonante di tutta la storia perché è la spinta che porta Ivan a compiere questo viaggio di redenzione a tutti gli effetti. Lui ripulisce il proprio cognome, quello della sua famiglia e tutti gli errori. È già padre di due figli che sentiamo al telefono, ma lo sta ridiventando di un’altra creatura, che non nasce dall’amore, ma – come dice lui stesso – “in una notte di solitudine e un po’ di alcool”. Ivan perde tutta la vita precedente per assumersi la responsabilità. Ritengo ci sia una sensazione ‘salvifica’ in questa storia nei nostri confronti da parte di Knight, in quanto, attraverso l’esempio di Ivan e il suo viaggio, ognuno di noi ha la possibilità di fare un po’ pace coi propri errori, che non devono essere visti come il male o la testimonianza del nostro fallimento, sono qualcosa che appartiene inevitabilmente alla vita di ciascuno. Ne abbiamo bisogno e, anzi, ci farebbe un gran bene cominciare ad accettarli però, ovviamente l’autore ci suggerisce: pagando il prezzo che c’è da pagare».
Locke: Filippo Dini spiega il lavoro sull’adattamento e la messa in scena
Non è semplice passare dal linguaggio cinematografico a quello teatrale, ma Dini ci svela, con un mix di emozione, timore e quell’adrenalina di chi vuole tornare sulle tavole del palcoscenico con un progetto a cui tiene e con cui si mette in discussione: «è uno degli spettacoli più diffcili che abbia mai affrontato: in primis perché sono solo in scena e non sono mai stato da solo in vita mia; non ho niente intorno a me, ho soltanto le voci degli attori che hanno interpretato magnificamente tutti gli altri personaggi. Ero rimasto molto colpito dal film quando l’ho visto sullo schermo non appena uscito in sala. Ho sempre pensato che questa vicenda potesse funzionare meglio in teatro che al cinema – ovviamente lasciando stare il paragone con la performance di Hardy. Ho lavorato cercando di portarlo ad una semplicità estrema. La macchina è molto complessa sotto ogni punto di vista, ma spero non si veda. Tutto il lavoro compiuto sulle luci col grande Pasquale Mari, il quale mi ha detto che non aveva mai utilizzato le luci in questo modo ed effettivamente è totalmente nuovo il suo approccio in questa pièce. Il lavoro anche sulla fonica è stato estremamente impegnativo poiché ci sono molte casse in quanto dovevamo restituire il viaggio, il rumore dell’auto. Per me è stato tutto nuovo, non ho mai lavorato così in teatro, con questa cura ad esempio della fonica. Abbiamo creato degli ambienti sonori per ogni personaggio con cui Ivan parla al telefono. Tutto questo, però, non sarà sempre percettibile perché non è così invadente in quanto cifra. Ho cercato di amalgamare tutte queste ricchezze e possibilità (anche con l’utilizzo del sistema dell’olofonia) per creare una sorta di incubo, agendo un po’ in maniera subliminale. È come se fosse una folle visione poiché il viaggio non è solo reale e realistico».
Uno dei punti di forza della Settima Arte è il primo piano; rispetto a questo Dini sottolinea: «lo spettacolo è un incontro di molti aspetti. La mia interpretazione fa parte sia dell’elemento visivo che di quello sonoro. Ritengo che “Locke” sia un viaggio insieme per restituire il percorso di ognuno di noi verso la consapevolezza dei propri errori. Credo che sia molto utile, per l’epoca che stiamo vivendo, prendere coscienza dell’errore e non in quanto peccato secondo una morale cristiana-cattolica [ci tiene a specificare: non perché la disprezzi, ma non mi interessa affrontarla adesso], non c’è un Dio a salvarci almeno in questa storia. Per chi non ha un Dio che lo salverà può sperare di compiere un viaggio come quello di Ivan: perdere tutto a causa dei propri errori, questo, però, gli permetterà di rinascere, di incontrare le persone di nuovo, con un sorriso. Non lo vogliamo capire, ma è essenziale che si arrivi a dire: perdonami tu, che sei come me e hai sbagliato con me o con qualcun altro, ma proprio per questo puoi esattamente capire, per cui ti chiedo scusa. Questo atteggiamento permetterebbe di nuovo un incontro tra le persone e caspita se non ne abbiamo bisogno».
Filippo Dini: il viaggio che fa sentire una persona nuova
«Steven Knight ci dice: non avere paura, guida con determinazione verso il tuo domani, con coraggio, vai nel posto peggiore per te, se è quello che desideri, se è quello che devi; al tuo arrivo sarai una persona nuova» ricorda Dini nelle sue note di regia perciò sorge spontaneo domandargli quale sia stato il viaggio artistico e umano che, all’arrivo, l’ha fatto sentire una persona nuova. Con gratitudine risponde: «per quanto riguarda quello artistico: il lavoro con Carlo Cecchi ormai diciannove anni fa. Ho realizzato due spettacoli con lui ed è stata un’esperienza indimenticabile sotto tutti i punti di vista, sia come ‘trauma’ che come cambiamento personale inteso non tanto rispetto a fare meglio o peggio, ma di prospettiva rispetto al nostro lavoro d’arte, per cui bisognava in qualche modo offrire dei tributi a questa divinità che è il teatro ma, al tempo stesso, era necessario cavalcarne la bellezza prendendosi l’agio, la libertà, il diritto e la gioia anche di affrontarlo con coraggio. È avvenuto un mutamento significativo: dal tentare di far bene a quello di fare l’attore». Rispetto a quello umano si apre teneramente e lo affbbia alle sue figlie specificando che «non è un cambiamento che ha un punto di arrivo, è quotidiano, così come lo stupore verso queste due persone che sono sempre di più autosufficienti anche se sono piccole e che sono appunto in un mutamento continuo. Inspiegabilmente le amo follemente, ma, del resto, l’amore è inspiegabile».
Filippo Dini e l’assunzione di responsabilità dell’artista
Concludiamo con una questione chiave in “Locke” e molto attuale: l’assunzione di responsabilità. Cosa vuol dire farlo in quanto artista e in questo periodo? Con onestà intellettuale replica con parole che vogliamo rilanciare: «Cercherò di spiegarlo così, tenendo conto dei mesi trascorsi: quando arrivava un malato in ospedale durante il covid i medici lo curavano. Alcuni sono stati denominati eroi, altri hanno detto: “abbiamo fatto il nostro lavoro”. Credo che siano vere entrambe le cose: hanno cercato di curare perché questo è il loro lavoro, purtroppo o per fortuna. Purtroppo per loro perché hanno dovuto prendersi un peso enorme sulle spalle e per fortuna hanno fatto tutto il possibile per guarirci. La nostra funzione non è quella enunciata dal Presidente del Consiglio di divertire e appassionare o perlomeno sono due parole veramente sintetiche nel riassumere quello che noi facciamo. Se uno vuole fare l’artista deve in qualche modo condizionare la propria vita per raccontare il tempo presente e ciò che verrà, per stimolare la coscienza delle persone al miglioramento rispetto a un punto di vista sul tempo che si vive – e per questo gli artisti devono essere difesi. Assumersi questa responsabilità, soprattutto in questo periodo storico così diffcile, è un’enorme opportunità per un artista. Lo si deve fare in primis studiando e informandosi e provare a comprendere questo tempo per poterlo restituire, per poter suscitare non soltanto un ragionamento e quindi la creazione di un punto di vista da parte dello spettatore nei confronti del momento che si sta attraversando, ma anche un’emozione, una passione nei confronti della presa di coscienza. Si tratta di un meccanismo estremamente complesso che solo l’arte ci può dare perché la comunica a un livello emotivo non nozionistico e quindi diventa immediatamente comprensibile e, al contempo, piangendo, gioendo, provando sensazioni personali è inevitabile assumere un proprio punto di vista».
Filippo Dini: l’emozione della prima nazionale post- lockdown
L’artista era a due giorni dal debutto prima che tutto si fermasse in Lombardia a causa del lockdown e ciò implica un’ulteriore carica di responsabilità nell’inaugurare, dopo la pausa, con questo debutto e, a tal proposito, conclude: «non c’è dubbio, è un’emozione che non si può spiegare per quanto è enorme. Il primo giorno in cui sono arrivato a Milano coincideva col giorno in cui hanno riaperto la Sala grande dove ho assistito a uno spettacolo bellissimo del Teatro dei Gordi (“Sulla morte senza esagerare”, nda). La sala era piena e quando la Shammah ha chiesto a tutti di farsi un applauso è stata una sensazione indescrivibile. Io non sono una persona estremamente romantica, ho una sensibilità molto introversa e non sono facile alle emozioni. Ero andato a teatro come mille altre volte a vedere uno spettacolo, spinto dalla curiosità di conoscere questa compagnia all’opera. L’applauso è partito all’inizio e non finiva mai e anch’io avevo voglia di continuare ad applaudire. È stato un momento catartico collettivo prima dello spettacolo perché ci siamo resi conto: che bello! Finalmente di nuovo a teatro. Magari uno non ci aveva pensato, è un’azione che ha compiuto così come altre volte, ma quando si è ritrovato lì, l’emozione è stata fortissima perché stavamo per guardare di nuovo il teatro insieme. Come i bambini, ci ponevamo, ancora una volta, di fronte alla favola dal vivo che è il teatro. Questo per dire che la gente ha voglia di tornare a teatro, nonostante il caldo (ma c’è l’aria condizionata al Parenti), il virus e tutto. La sicurezza c’è. Le persone hanno desiderio di ritrovarsi».
Riassumendo
“LOCKE” in prima nazionale al Teatro Franco Parenti di Milano dal 7 al 12 luglio 2020
dalla sceneggiatura di Steven Knight
traduzione, adattamento, regia e interpretazione di Filippo Dini
Le voci al telefono sono di (in ordine di apparizione): Sara Bertelà (Bethan); Eva Cambiale (moglie di Gareth); Alberto Astorri (Donal); Emilia Piz (Lisa); Iacopo Ferro (Sean); Mattia Fabris (Gareth); Mariangela Granelli (Katrina); Valentina Cenni (sorella Margareth); Carlo Orlando (Davids); Giampiero Rappa (Dottor Gullu) e Fabrizio Coniglio (Cassidy).
Scene e costumi: Laura Benzi
Luci: Pasquale Mari
Colonna sonora: Michele Fiori (sistema audio in olofonia “HOLOS”)
Regia del suono: David Barittoni
Aiuto regia: Carlo Orlando
Produzione: Teatro Franco Parenti – Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia – Teatro Stabile di Torino
DURATA: 75’
ORARI: h 20:30
PREZZI: I settore: Intero 25€; II settore intero 20€; III settore intero 15€ over60/under25 15€ (Spettacolo valido per tutti gli abbonamenti della stagione 2019- 20 del Teatro Franco Parenti)
TOURNÉE: dal 21 al 26 luglio lo spettacolo sarà in programmazione al Teatro Carignano di Torino nell’ambito dell’iniziativa ‘Sere d’estate’ al Teatro Carignano organizzata dal Teatro Stabile di Torino.