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Artisticamente Magazine

Lorenzo Richelmy: «Questo lavoro tende all’arte quando riesce a fare un segno»

Lorenzo Richelmy: «Questo lavoro tende all’arte quando riesce a fare un segno»

Tempo di lettura: 8 minuti

 

Si potrebbe dialogare ore con LORENZO RICHELMY perché, nonostante la giovane età (classe ’90), ha uno sguardo sulla realtà che si rivela molto lucido, acuto, curioso e queste attitudini traspaiono anche dal percorso professionale compiuto fino ad ora. A ciò si aggiunge una sincera attitudine all’ascolto e al confronto – sempre meno scontata, ancor più dopo le conseguenze del covid e della vita frenetica sull’essere umano.
Lo abbiamo incontrato in occasione della presentazione della 31esima edizione del Noir in Festival, dov’è stato presentato in anteprima l’esordio dietro la macchina da presa di Massimo Donati, tratto dal suo omonimo romanzo pubblicato nel 2013 da Mondadori.

Lorenzo Richelmy e l’esperienza di “Diario di spezie


D:
Siete riusciti a creare un duetto-duello con il personaggio interpretato da Fabrizio Ferracane, anche attraverso il linguaggio. Mi piacerebbe che raccontassi il lavoro compiuto su questa ‘maschera’..

«Entrambi abbiamo fatto un processo di straniamento totale. Personalmente cerco, ogni volta, di interpretare qualcosa di diverso da ciò che sono io perché mi diverte e ho deciso di fare questo mestiere anche per questa ragione. Nel caso di Luca Treves ho avuto l’opportunità di compiere un lavoro totalmente lontano da me sia a livello di postura che di velocità di pensiero e, di conseguenza, di linguaggio. Il libro ha una connotazione regionale rispetto alla provenienza di questi due uomini; in realtà, nel film, a mio parere, viene tralasciata, ma resta il segno linguistico, fonetico, musicale, che non permette di identificarli facilmente. Sono personaggi ‘strani’ come lo è il lungometraggio. Il modo di comunicare è particolarissimo per entrambi e costituisce un rischio: io parlo un veneto un po’ sporcato; Ferracane un italiano non sempre giusto mixato con francese e tedesco, questo porta a favore del noir e della suspance soprattutto per lo spettatore. Massimo Donati parte dall’essere un fisico per cui ragiona su delle cose complicatissime, che per molti sono scontate; dall’interno, da attore, per me è stata una gioia perché ha significato lavorare su terreni che solitamente non vengono battuti».

Lorenzo Richelmy Noir in Festival 2021
In foto da sx Fabrizio Ferracane, Massimo Donati e Lorenzo Richelmy

D: Ci faresti un esempio concreto?

«Se penso a dj Steph de “Il talento del calabrone” (uscito su Amazon Prime, nda) aveva un linguaggio molto più comunicativo, non è un introverso; invece, per quanto riguarda Luca Treves talvolta non si comprende ciò che dice, si parla addosso, è uno di quelli che parlano al proprio mento, che non guardano in faccia dritto quando parlano con una persona. In tal senso è strano, in quanto da interprete sei sempre portato a fare qualcosa al di fuori; qui ho potuto lavorare senza avere paura di mostrare ciò che stavo facendo, sapendo che Massimo sarebbe andato a cercarlo».

D: Nelle note di regia si legge: «In “Diario di spezie” aleggiano i fantasmi dell’impossibilità di scegliere il proprio destino, di avere giustizia dalla vita, di mondarsi dalle colpe insanabili. È dal conflitto fra questi temi che si genera il meccanismo drammatico, e si determina il tono del film». Mi interesserebbe approfondire il lavoro sullo spazio dal punto di vista attoriale, che si coglie anche fotograficamente, e il conflitto che pone domande esistenziali, ricordando temi da tragedia greca…

«La spazialità è un’idea di Massimo, intesa così anche nel libro di partenza, ed è molto interessante – da fisico ha un’intelligenza quasi geometrica. Questo lungometraggio è da immaginare come un imbuto, che va sempre più verso una strettoia inevitabile e il conflitto con Andreas porta a questo (non aggiungiamo troppo per non togliervi la sorpresa non appena sarà distribuito, nda). Dal punto di vista recitativo è abbastanza organico come passaggio».

Lorenzo Richelmy
Ph Francesca Fargo


D:
Ritieni che ci sia catarsi?

«Purtroppo no. Non vuole essere un film che vuole dare nessun compiacimento allo spettatore, non saprei neanche dire chi sia il protagonista e questo può essere molto straniante».

D: Al contempo è anche il bello perché mischia le carte…

«Assolutamente: ci si trova disorientati e questo fa parte dell’opera ed è giusto che il pubblico lo senta. C’è molto della banalità del male, ma senza moralismo e ciò è stimolante da un determinato punto di vista: spesso l’opera che si sta vedendo porta a una consapevolezza maggiore ovvero che quando nei film vince il bene, si è contenti e, usciti dalla sala, ci si ricorderà di quello. Le ragioni del male vengono accantonate; “Diario di spezie” va quasi nel verso opposto comunicando: accetta il fatto che il male c’è e non bisogna struggersi troppo per rendere il mondo perfetto. Certamente servono quei film che ci fanno star bene; al contempo sono necessari anche quelli che mostrano come la vita sia attraversata da dolori e non c’è sempre il rovescio della medaglia. Il cinema italiano, a mio parere, dovrebbe compiere dei passi in più verso questa prospettiva: avere il coraggio di trattare il dolore, la sofferenza perché parlandone apertamente si aiutano le persone».

Lorenzo Richelmy Diario di spezie
In foto Ferracane e Richelmy – Ph Francesca Fago

Lorenzo Richelmy e le scelte professionali


D:
Nelle ultime tue scelte è interessante il voler sposare opere prime e nel caso di Donati, proprio per le competenze che sottolineavi, potrebbe mettere in crisi a livello registico perché immagino che vada a scavare in quelle particelle che all’attore sfuggono…

«Io spero che avvenga questo. Nella migliore delle ipotesi trovi un regista che nota e si compiace delle cose che tu proponi per poi adoperarsi verso quegli aspetti che tu non sai consciamente di saper fare. In quanto attore vai in una direzione, ma c’è sempre una parte di te che lasci un po’ libera per osservare ciò che emerge, a volte può andar bene e viceversa. Se ti stai rapportando con un regista che ha l’occhio attento per questo tipo di cose può essere una grande fortuna. Mi è capitato molto coi fratelli Taviani: io compivo delle azioni e poi la scena si riduceva a un gesto, che si rivelava funzionasse tantissimo».

D: Quindi, in quel caso, erano andati in sottrazione?

«Esatto. Quello che io amo fare è un lavoro in sottrazione, dà aria al pensiero. Senz’altro, dall’altra parte, ci sono pure dei film che lo spettatore cerca per rilassarsi. Il cinema che mi piacerebbe continuare a fare è quello che lascia lo spazio all’immaginazione e alla riflessione del pubblico… implica che sia meno commerciale e intrattenimento puro, però, da attore, lavori su delle corde molto più interessanti.
Ho anche realizzato lavori d’azione come “Ride” e in tal caso mi sono divertito tantissimo; però quando guardo ai grandi interpreti sono persone che si approcciano appunto a un’altra tipologia, che con un cambio di sguardo o una mezza parola detta strana, ti racconta un mondo. Questo lavoro tende all’arte quando riesce a fare un segno che è come un tratto di un pittore e quel segno, per quanto ‘piccolo’, comunica tantissimo.

Le opere prime sono spesso luoghi metaforici in cui i registi tendono ad approcciarsi così e a sperimentare. Produzioni più piccole con registi esordienti, che magari mirano in alto, vogliono realizzare qualcosa che rimanga – com’è avvenuto nel caso di Donati – perciò affiancarmi a persone che si mettono in gioco in questo senso la ritengo una fortuna… se ho modo di decidere, mi piace la stradina difficile di montagna, non l’autostrada».

D: Penso che sia la strada che più ti appartenga…

«Ci sono stati anche periodi della vita in cui, non lavorando, ho fatto i conti con l’ansia provocata da questo mestiere che ti porta a dirti: “Non ce la faccio”. Anche i più affermati e bravi sono sempre con la sensazione di star facendo troppo poco bene il proprio lavoro e questo porta a non sedersi.
Quando sono capitati questi momenti e ho sostenuto provini per fiction, alla fine ho notato che non mi prendevano, ma perché ‘non sono giusto’. Pure agli inizi non sono mai risultato come un volto rassicurante per la tv generalista (si riferisce a circa dieci anni fa, nda). Sono uscito dal Centro Sperimentale… la scuola di Cinema che corrispondeva al massimo a cui potessi aspirare come ventenne, mi ritengo fortunatissimo a essere cresciuto con questa evoluzione che ho agganciato, realizzando opere particolari».

Richelmy Dolceroma
“Dolceroma” di Fabio Resinaro

D: Ritieni che per l’offerta che c’è attualmente sul piano cinematografico, le persone non siano ancora molto invogliate nel vincere la ‘paura’ di tornare in sala, al chiuso?

«Ci vorrà un po’ di tempo perché la gente si riabitui ad andare al cinema; certo mi auguro che si renderà conto della differenza tra il mettere in pausa a casa – pur avendo magari uno schermo da 40’’ – e lo stare in sala con altre persone e uno schermo molto più ampio. In teatro si sta verificando un effetto ‘rimbalzo’ – un po’ come forse l’economia – perché è l’unica cosa insostituibile però ci si deve impegnare nel realizzare spettacoli che valga la pena vedere. Se i grandi teatri stabili riuscissero a mettersi insieme per realizzare delle produzioni importanti – che non si fanno da un po’, purtroppo spesso resta tutto molto regionale – potrebbe esserci un grande margine di miglioramento.
Per quanto riguardava l’audiovisivo non è un settore in crisi sul piano produttivo, non ha sofferto il lockdown (al di là delle regole di sicurezza da rispettare) perché i set sono andati avanti soprattutto per le serie, con le piattaforme in grande concorrenza tra loro».

Lorenzo Richelmy
“La ragazza nella nebbia” di Donato Carrisi

D: Quanto supporta l’agenzia?

«È necessaria soprattutto sull’aspetto contrattuale. Va detto che appena ti avvii su questa strada hai bisogno di qualcuno che in primis sia convinto che sei un bravo attore e, in secondo luogo, che sia interessato a farti crescere».

Lorenzo Richelmy e il progetto teatrale


D:
Ho letto che dovresti tornare a teatro dopo diverso tempo e ricordo il tuo desiderio di ricalcare le tavole del palcoscenico… È particolare come unione: “Macbeth” con “Romeo e Giulietta

«È una follia tant’è vero che si intitola “La follia di Shakespeare”. L’ha ideato Max Mazzotta, avevamo cominciato a lavorarci nel 2020, poi ci ha interrotto il covid; lo dovremmo riprendere ad aprile augurandoci che tutto vada bene. Non vedo l’ora di rimettermi, sono contentissimo, è una proposta molto differente da tutto ciò che ho realizzato fino ad adesso. Alla fine il teatro è degli attori, il cinema è dei registi; [con entusiasmo aggiunge] è indescrivibile la sensazione di godimento di un interprete che prova per giornate intere una scena, dovrebbe essere così anche al cinema, ma non accade.
La prima è prevista per fine aprile in Calabria, a Cosenza, essendo Mazzotta di lì – ha fatto progetti interessantissimi, lavorato con Ronconi, è un attore straordinario, ma non ama ‘l’entourage’ per cui decise di rimanere in Calabria. Lui è un vero artista – termine stra-abusato… – per me artista è chi vive della propria arte nel senso più alto del termine (non il guadagnare per pagare le bollette). Lui se non facesse arte non vivrebbe e ha compiuto una scelta radicale. Non c’è una produzione gigantesca alle spalle per cui dobbiamo registrare la risposta del pubblico e sperare, in seguito, di poter andare in tournée da fine estate».

D: Citando da “Macbeth”: «E spesso, per farci del male, gli strumenti dell’oscurità ci dicono delle verità, guadagnano la nostra fiducia su delle questioni marginali, per tradirci in faccende dalle conseguenze molto più profonde.»… mi sembra ci sia un collegamento anche con “Diario di spezie”.

«In questo punto si sta riferendo alle streghe. Ci roviniamo la vita sulle cavolate: è adattabile a “Diario di spezie” perché parla di una condizione umana che potrebbe fiorire e, invece, si corrompe per qualcosa che in quel momento sembra importantissima. Il mio personaggio, che è un adolescente mai cresciuto, è vittima di questo ed è lo stesso che accade con i social se pensiamo pure agli effetti sui ragazzi vittime di bullismo. La maggior parte, purtroppo, rischia di cadere sul commento spiacevole o sul canone di bellezza.
L’arte dovrebbe cercare di tirarci fuori da questo pantano. Faccio questo lavoro nella speranza che i progetti che realizzo possano trasmettere questa ‘tranquillità’: mancherà sempre qualcosa e va bene così».

D: Concludiamo con una frase di Eduardo: «Rubare la vita miezz’ ‘a la via».. la condividi?

«Certo! Da ragazzo della periferia di Roma sempre».

Ph cover Pedro Usabiaga


Lorenzo Richelmy è in onda in “Hotel Portofino, con protagonista indiscussa Natascha McElhone. Il period drama ambientato in Liguria negli anni che videro l’ascesa al potere di Benito Mussolini. Creata da Matt Baker e diretta da Adam Wimpenny, la serie, in sei episodi, è visibile on demand su Sky e in streaming su NOW da lunedì 28 febbraio.

 

 

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