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Artisticamente Magazine

Luigi Lo Cascio: «L’indispensabile affiora nelle scelte, ma anche nell’ascolto»

Luigi Lo Cascio: «L’indispensabile affiora nelle scelte, ma anche nell’ascolto»

Tempo di lettura: 16 minuti


LUIGI LO CASCIO
 è un artista e una persona (troppo spesso ci si dimentica dell’essere umano) con cui si sa che si può avere l’opportunità di toccare punte di profondità abbastanza uniche. Qualcuno potrebbe dire che ognuno di noi è unico, certo, nessuno lo nega; ma è anche vero che ci sono artisti e artisti. Non è scontato poter intraprendere un dialogo avendo di fronte qualcuno che davvero è disposto ad andare a fondo. Sappiamo che le opere dovrebbero parlare da sé, ma è anche molto stimolante, soprattutto quando ci sono passione e tanto lavoro alle spalle, ‘scavare’ nel lavoro visto, incrociando gli sguardi e i punti di vista e accogliendo ciò che l’artista ha voglia di raccontarci e fin dove vuole scoprire e scoprirsi.
Vederlo nuovamente in scena nella Sala Shakespeare del Teatro Elfo Puccini di Milano ha provocato un contraccolpo positivo perché proprio a lui e alla sua versione liberamente ispirata alle “Baccanti” di Euripide, “La caccia”, era stato chiesto di inaugurare, nel marzo 2010, la nuova sede in Corso Buenos Aires, 33.

Questa volta sulle tavole del palcoscenico è salito per regalarci Pa’, diretto da Marco Tullio Giordana, col quale ha realizzato la drammaturgia. Immediatamente si pensa a Pier Paolo Pasolini, ma state certi che non è lo scrittore o l’intellettuale che la maggior parte di noi conosce«Non mi sono messo a cercare di imitare la sua voce», ha tenuto a specificare, continuando «Al cinema forse è richiesto un mimetismo maggiore; a teatro si può provare a fare quello che abbiamo fatto noi: arriva una persona, un attore poi… perché ci vuole anche un po’ la spudoratezza di salire sul palcoscenico e dire: ora provo a dirle io (si riferisce alle poesie e di conseguenza alle parole scelte da Pasolini, nda). È qualcosa che potrebbe desiderare chiunque. Io sono una specie di avamposto per capire se queste parole le possiamo pronunciare come se fossero nostre. In questo senso c’è anche un gioco teatrale nel mettere gli occhiali, i costumi, assecondare il desiderio di assomigliare a una voce prendendomene carico per rispondere a quella sua domanda: Dopo di me, le mie poesie avranno un senso? C’è bisogno dell’ambiguo perché l’ambiguità sia significativa? Gli rispondiamo che anche se scompari tu come corpo, le tue parole continuano a essere calde e significative per chi le ascolta, a partire da chi le sta pronunciando».

Luigi Lo Cascio e il progetto di Pa’ per la regia di Marco Tullio Giordana


D:
Quale valore assume questo spettacolo in questo momento della sua fase artistica?

«Non faccio mai riflessioni su in che momento mi trovo e cosa significa questo… sono delle cose che accadono perché si percorre una strada, si fanno degli incontri, si decide di fermarsi a esplorare qualcosa (il che non significa strettamente ‘fermarsi’, ma un muoversi magari da un’altra parte) e, forse, molto dopo, a distanza di tempo, emerge uno spunto o una piccola illuminazione su che cosa poteva significare e perché proprio quello. Tanto più che in questo caso sono stato chiamato.
Quando realizzo spettacoli miei posso dire come mai mi sia ritrovato ad affrontare un autore o una storia. Ad esempio quando ho scritto “La città ideale” (sua opera prima, presentata in concorso alla 27esima Settimana Internazionale della Critica, seziona autonoma e parallela durante la Mostra del Cinema di Venezia, nda) non ho dato vita a un film perché volevo fare il regista di cinema, ma perché, per la prima volta, dopo tanto tempo, la storia che mi si era affacciata all’immaginazione e che prendeva corpo a poco a poco era giusta per il cinema e non per il teatro. Le mie regie (si riferisce anche a quelle teatrali, nda) sono conseguenza di un atto di scrittura.

Luigi Lo Cascio Pa’
Ph Serena Pea

Non so come Pa’ ‘entrerà’ insieme agli altri progetti, se non intanto per il piacere di tornare a lavorare con Marco Tullio, il quale mi ha chiamato riferendomi che lo Stabile del Veneto desiderava realizzare uno spettacolo su Pasolini per cui avevano pensato a lui, il quale, a sua volta, aveva pensato di farlo con me. La caratteristica iniziale era quella di dar vita a un lavoro su Pasolini per il teatro, ma non dai suoi testi teatrali (scritti in versi). Era necessaria un’idea, con un attore in scena. Durante la prima conversazione telefonica mi ha detto: Pensaci ne “I Cento Passi” Peppino Impastato porge alla madre un foglio con la poesia “Supplica a mia madre” e confessa il suo amore per lei attraverso queste parole. “La meglio gioventù” è un titolo pasoliniano, il film precedente a “I Cento Passi” è stato “Pasolini. Un delitto italiano”. Abbiamo sempre sfiorato Pasolini, non ti sembra che sia arrivato il momento di fare qualcosa proprio su di lui? È stato un invito a cui non potevo sottrarmi [si avverte l’entusiasmo con cui ha aderito alla proposta] anche perché c’è una sproporzione tra quanto Marco Tullio conosca questo artista e intellettuale e quanto lo conosca io. Per lui è una lettura di quando era giovane, in cui rientravano anche Sciascia, Calvino e altri autori contemporanei. Io ho cominciato a leggere molto tardi – e per questo ho delle grandi voragini di conoscenza. È scattato tutto quando sono andato alla Silvio d’Amico, non solo rispetto alla recitazione, ma anche questa passione per la lettura. Ho sentito la dimensione della lettura come qualcosa di molto personale: un incontro con una voce di qualcuno che comunica a te delle cose importanti e che diventano anche tue perché ti riguardano. Questa sensazione è stata meravigliosa per me, [molto onestamente ammette] certo a ventidue anni si presume che si siano già letti i russi, i francesi e che da quell’età in poi approfondisca gli americani e così via. Io, invece, partivo da zero e com’è capitato con Primo Levi nel 2019, in cui si è presentata l’occasione e sono sprofondato nella lettura di un autore sommo, con uno stile e una lingua stupenda. Qualche anno fa è avvenuto con Pasolini la stessa cosa: dopo aver tradotto l’“Otello” in siciliano, tra le cose che ho visto (per nutrire anche l’immaginazione e poi ritornare eventualmente sulla drammaturgia. Non ama, durante la prima fase, farsi influenzare, nda) c’è stata “Che cosa sono le nuvole” all’interno di “Capricci italiani”. Sono rimasto sconvolto.

Lo avevo visto tanti anni prima perché avevo in mente l’immagine di Totò, quella di Ninetto, le marionette; ma ascoltandolo, mentre preparavo Otello e alla mia età ormai e con un’idea di Pasolini mai letto, ma che conteniamo tutti… è stato come scoprire un autore che, in prima battuta, tocca temi come che cos’è la vita? Chi siamo noi? Abbiamo possibilità di libertà nel mondo? (E in questo interrogativo c’entra la politica). La contemplazione dell’universo da dentro la spazzatura, con le domande cruciali, per cui un Pasolini che parla come un sapiente greco. Lì l’ho sentito più vicino alle cose che mi piacciono maggiormente. Mi sono immerso nel suo oceano di poesie e così, quando ci siamo confrontati con Marco Tullio (hanno curato insieme la drammaturgia, nda), ci siamo trovati sull’idea di affrontare questo aspetto del poeta di Casarsa. Nonostante la sproporzione dei saperi, sulle poesie ho fatto il mio cammino e abbiamo pensato che doveva essere un autoritratto in versi, con le sue parole, a partire dall’incipit in cui la sua anima si incarna in corpo e viene scaraventato sulla terra fino ai presagi che lui stesso fa sulla propria morte. Il tutto attraversando cronologicamente le tappe fondamentali: il Friuli, l’arrivo a Roma, il successo e la morte; mettendo all’interno due elementi fondamentali della sua affettività: la tragica perdita del fratello Guido con tutto ciò che ha comportato di riflessione sulla storia (un martirio forse inutile quello del fratello partigiano, tra l’altro uno scontro fratricida perché avviene nella vicenda di Porzûs, dove, fra il 7 e il 18 febbraio 1945, furono uccisi diciassette partigiani) e il grande amore per la madre. Ci tenevamo anche che emergesse quale atteggiamento avesse verso se stesso e verso la propria opera, di qui il desiderio di porgere un Pasolini più intimo e in virtù di questo capace di osservare le proprie crepe, i propri fallimenti. Prima di leggere le sue poesie pensavo che fosse molto forte, determinato, magari contraddittorio, ma che ogni volta che aveva in mente un’idea la scaraventava scandalosamente contro l’interlocutore di turno o a beneficio dell’umanità era perentorio, preciso, con caratteri anche di aggressività. In Pa’ emerge un Pasolini più fragile, più incerto, che si fa domande, afferma anche di essere inaridito e svuotato, ma è sempre un punto interrogativo».

Luigi Lo Cascio Pa’
Ph Serena Pea

D: Marco Tullio Giordana nelle note di regia scrive di lei «da tanti anni prediletto compagno di ventura» 

«Mentre io non ho cambiato la sua vita, lui la mia l’ha un po’ mutata. Il piacere di stare con lui, stare accanto alle sue intelligenza e sensibilità [si avverte la profondità del legame]. Ne “I Cento Passi” mi ha lasciato molto più libero rispetto a “La Meglio Gioventù”, ricordo che mi disse: mi interessa il tuo Peppino. Tu sei siciliano, io no; hai la lingua e la conoscenza di determinate cose, mi sembra convincente quello che proponi, vai… Ne “La Meglio Gioventù”, invece, Nicola Carati esisteva nella mente degli sceneggiatori e di quella di Marco Tullio per cui io dovevo aderire a qualcosa che mi veniva proposto ed è stato molto più presente, indicandomi cosa dovessi costruire.

Luigi Lo Cascio Marco Tullio Giordana

Potendo contare su un’interlocuzione di amicizia ed essendo un regista acuto, sapeva benissimo che non mi sarei sentito ostacolato, anzi a me piace essere diretto soprattutto al cinema. Mi sento un pezzo dell’opera per cui puoi fare di me quello che vuoi, certo oltre un limite delle mie capacità non si può andare o di una certa approvazione qualora ci sia qualcosa che io disapprovo; ma sono io che devo pormi il problema di come trasformarmi per mettermi in sintonia con la lingua e con la visione dell’autore. Ora che si è unita molta amicizia, che lui ha testimoniato anche quando ho realizzato l’opera prima (venendo a vederlo al montaggio), come mi sostiene pure nel caso del mio primo libro “Ogni ricordo un fiore” (quando lo ha letto mi ha mandato le sue riflessioni così come gli incoraggiamenti), è un rapporto che si va approfondendo sempre di più. Nel caso di Pa’ il primo atto di considerazione di qualcosa che facevamo insieme è consistito nell’accettare quello che lui ha capito subito di come sarei stato in scena in un progetto del genere. In uno spettacolo come questo c’è un attore che prende la parola, con le poesie per cui entriamo in qualcosa di musicale e il motivo per cui io cambio, non è legato solo a come mi sento, ma è connesso alla scoperta che faccio del testo giorno per giorno e di come mi trasforma a seconda della sensibilità del momento. In più, a volte, mi ritrovo a cogliere un ritmo interno e mi lascio assecondare da tutta la parte musicale, timbrica, degli accenti, di certe melodie. Sono dei versi anche difficili che si avvicinano alla prosa, ma anche quando Pasolini è meno lirico, improvvisamente arriva un verso che si potrebbe inserire tra quelli più belli della poesia del Novecento. È come se abituasse l’orecchio a qualcosa di più quotidiano per poi far entrare il canto in maniera più significativa e profonda e così la parola si trasforma da voce che parla a voce che canta».

Luigi Lo Cascio
Ph Serena Pea

D: A proposito del lavoro compiuto, Giordana sottolinea: «scegliere cosa abbiamo scoperto per noi di indispensabile»

«Non ho fissato intonazioni, c’è quello che viene: l’indispensabile affiora e ogni sera è diverso. C’è un indispensabile nella scelta delle liriche selezionate; ma c’è anche un indispensabilità dell’ascolto. A ogni replica vedo effettivamente se è indispensabile o no. Nella poesia Pasolini cerca un punto di sintesi tra la sua ideologia politica e quella estetica e questo fa sì che i versi siano molto personali, di conseguenza pure la politica diventa un fatto personale. Non si abbracciano idee ascoltando questi versi, si abbraccia un uomo e l’indispensabile è in quel modo di celebrare, compiangere questo poeta che abbiamo perduto. Dico a un tratto “simile e diverso”: siamo abituati più al secondo, al Pasolini faro, irraggiungibile, con le sue idee illuminanti. È diverso, è giusto che lo sia e, se andiamo verso di lui, ci fa essere, a poco a poco, simili a lui. Va detto, però, che c’è un Pasolini già simile in partenza: è umano, di qui gli affetti, le incertezze. L’indispensabilità sta proprio nella conoscenza del Pasolini che ci somiglia nei limiti».

D: La lettera al fratello Guido è molto commovente e mi ha fatto pensare anche a Gadda, che perse a sua volta il fratello. A suo parere si può elaborare il lutto attraverso la poesia? 

«Forse c’è il rischio che parole come catarsi, valore terapeutico dell’arte diventino dei luoghi comuni o anche dei sogni. Quando succede qualcosa che ha a che fare con la morte causata da qualcuno, scatta il senso di vendetta, che cerca di essere mitigato dal corso della giustizia e questo può essere balsamico e capace di non farti impazzire… Quanto può sostenere anche nel dolore il desiderio di avere giustizia, tant’è che quando si arriva alla sentenza e finisce sul piano legale si verifica un crollo perché si spalanca improvvisamente un vuoto, che era sostenuto dal desiderio di essere accanto alla persona che non c’è più per difenderla al suo posto. Sicuramente anche l’arte è tra quelle risorse che ha inventato l’uomo per non impazzire di fronte al dolore. Non potrei dire che il lutto si elabora meglio o peggio attraverso i procedimenti artistici che comunque sono del momento. Credo che non ci sia poesia o lettera che nel momento in cui la si compone dia questo senso di pienezza, di vicinanza in grado di mitigare il dolore; non ci si risolleva. La madre di Pasolini avrà letto, era vicina a un poeta, ma da quella disgrazia non ci si risolleva più, se non attraverso dei giochi della mente che spostano la cosa, che ti fanno vedere altre sfumature e spalancano altri tempi.. ma se l’attenzione si dovesse ripoggiare su quell’evento non è detto che tutte le poesie del mondo riescano a farlo superare».

Luigi Lo Cascio

D: «Il suo era un grido di battaglia che avremmo dovuto raccogliere per fronteggiare il declino anziché trattarlo come un visionario iettatore», ha affermato Giordana. Quanto questo ‘grido di battaglia’ si può rilanciare in questo momento storico-culturale?

«Vale sempre. Bisogna essere più radicalmente pasoliniani un po’ essendo contro di lui quando individua nella disfatta e nella perdita qualcosa di irreversibile e di definitivo, che consegna ormai l’uomo a un’apocalisse senza speranza. Si può prendere Pasolini per andare ‘contro’ Pasolini e un verso che dico è esemplificativo in questo: Non c’è mai disperazione senza speranza. Il ‘grido di battaglia’ che prima consisteva nel tutti quanti gridiamo insieme e cambiamo il mondo; adesso sono degli squarci di grido isolato e, quindi, forse sarebbe importante tornare a unirci, a vedere qual è l’elemento comune del desiderio di cambiare le cose, senza considerare queste ultime come irreversibili. Pasolini lo aveva intuito molto bene: oggi è invisibile il nemico contro cui lottare perché è un lottare contro i modi della vita in cui viviamo, come se dovessimo scarnificare tutta la comodità in cui siamo piombati – mi riferisco a noi occidentali che viviamo nel benessere, che è sempre relativo… Se sapessimo guardare, vedremmo che c’è uno stato molto grave intorno di povertà sempre più vasto. Il grido di battaglia significa alimentare le piccole cellule vive di questo incendio che adesso è sommerso, aspettando che si arricchisca di nuove scintille. Non permettere mai che la rassegnazione vinca, riuscire a individuare ancora che c’è disuguaglianza e c’è bisogno che l’uomo cambi».

La nostalgia di tutti i tempi della vita


D:
«Sono vissuto dentro una lirica come ogni ossesso». Rilanciandolo, in senso lato, su di lei, per come vive in maniera così personale l’arte, come direbbe che è vissuto fino ad ora?

«Mi piacerebbe che ogni tanto fossi anche dentro delle filastrocche, cioè delle cose leggere, anche divertenti, che rimangono impresse e che si canticchiano insieme e si ritorna bambini. Ho molta nostalgia di tutti i tempi della vita, però mi continua a interessare quel bambino Gigi, Gigetto, Gigi la peste o quello che era… [ascoltarlo in questo passaggio provoca quel sorriso tenero perché le sue parole ben descrivono un senso di nostalgia verso l’infanzia, però pieno di calore e affetto] La sua vivacità, le sue monellerie. Lo penso con moltissimo affetto per cui forse, anche negli avvenimenti più gravi che capitano, di difficoltà o di stanchezza, riuscire a ricavarne una quartina leggera. A volte accade».

The Bad Guy serie
Foto di backstage della serie “The Bad Guy”

Interrogativi che si dovrebbe porre l’artista


D:
In merito alla chiusa sulla rivoluzione (da “L’alba meridionale” in “Poesia in forma di rosa (1961-1964)”, Garzanti, Milano 1964) e riprendendo ciò che lei, Luigi, diceva del rispondere alla domanda di Pasolini se lui avrebbe avuto ancora un senso, vorrei toccare la questione di un sistema ‘malato’ per cui viene prodotto un progetto e c’è il rischio che ci siano poche repliche…

«Non ho riflessioni da proporre se non un dispiacere e uno stupore perché quando si cambiano le cose o mutano di per sé in quanto ci sono agenti esterni imprecisati cioè il disordine; ma se, invece, un mutamento viene stabilito dovrebbe avere una logica. Questa logica non la capisce nessuno. È arrivato questo modo di concepire il tutto che ha sconvolto le modalità degli spettacoli che vanno in tournée. Si è stati tutti costretti ad accettare, nessuno ama questo modus operandi e a cui tutti siamo destinati. Nutro il desiderio che, pian piano, ci sia la voglia da parte di ognuno di noi e ci si metta intorno per poi dire: era questa l’idea, l’abbiamo sperimentata, è assurdo che per vedere questo spettacolo si debba per forza andare in 3/4 città. Va anche detto che non si possono più fare le tournée di una volta, non sono più sostenibili, prima ne ho fatte anche di cinque mesi ed erano anche un po’ troppo massacranti perché è inutile toccare due paesi distanti 25 km l’uno dall’altro (in quel caso o ci si organizza con la propria auto o il teatro potrebbe pensare a dei collegamenti per chi è interessato). Ci vuole un po’ di senso della misura e le cose che si individuano valide – vale anche per il cinema – le si dovrebbe far circolare. L’artista stesso prima di aderire a un progetto o di crearlo dovrebbe domandarsi: ha senso? Soprattutto per gli altri? Visto che è un peccato che le cose si sperperino, facciamo economia già in partenza con le nostre idee: mostriamole agli altri quando ne siamo veramente convinti e quando hanno passato la prova della nostra spietata capacità di critica e autocritica. Spero che l’essere un po’ ‘succubi’ in questo momento, stia creando le premesse per una scossa che riguarda la vastità del territorio che coinvolge il mondo del teatro».

Lo Cascio in “Spaccaossa


D:
Passando agli ultimi progetti cinematografici a cui ha preso parte, a proposito della lingua, Vincenzo Pirrotta per l’opera prima, “Spaccaossa”, è stato molto coraggioso nella scelta di un siciliano molto stretto (oltre che per le tematiche trattate)…

«Sono felicissimo di esserci perché era il debutto alla regia di un grande amico fraterno. Questo personaggio mi divertiva farlo perché, anche se ha qualche scena, ha un senso all’interno del film. Sono contento che Vincenzo abbia trovato la strada per entrare nel cinema, tenendo conto del mondo molto robusto che ha dimostrato e dimostra in teatro».

Luigi Lo Cascio Spaccaossa

D: Quanto era al corrente della situazione che si racconta in “Spaccaossa”?

«L’avevo scoperta dalla cronaca perché a Palermo erano emersi alcuni fatti. Hanno preso una delle organizzazioni, immagino che sia frequente ahimè che si facciano delle truffe alle assicurazioni. La parte che mi interessava è che non tratta solo la questione sui disonesti; ma il cuore caldo del lungometraggio riguarda le persone bisognose, costrette a devastare il proprio corpo per quelle che sono cifre per loro significative tanto da cambiargli la vita. L’idea che duemila euro possano mutare la vita di una persona al punto da rischiare la morte o accettare il lesionismo… il mio braccio non ha prezzo per me; invece per loro ha un costo, si può mettere in un tariffario. Dà un senso raccapricciante della società in cui viviamo».

Luigi Lo Cascio e la scoperta di Aldo Braibanti per interpretarlo ne “Il Signore delle Formiche” di Gianni Amelio


D:
De “Il Signore delle Formiche”, durante la minipress nei giorni della Mostra del Cinema (dov’è stato presentato nel Concorso Ufficiale), mi aveva colpita che abbia detto di non conoscere Braibanti nonostante avesse studiato il fermento artistico di quel periodo… A parte l’idea di avanguardia da lei sottolineata in quell’incontro; le scene riguardanti la parte teatrale mi hanno fatto riflettere su come si rapportasse con gli attori

«L’ho notato come regista e da racconti ascoltati. C’è un livello di incapacità di sopportare il rimprovero molto forte. Siamo tutti molto più sensibili, incapaci di accettare di sbagliare e che qualcuno dica a noi come dobbiamo fare. Abbiamo smarrito la figura del regista che in maniera anche forte, violenta entra dentro la dimensione personale e non sappiamo distinguere il lato metodico. Se capissimo che in quel momento, per il regista, come si dice una battuta è come se riguardasse qualcosa che ci tiene in vita saremmo più tolleranti rispetto alle sfuriate o alla violenza con cui ci chiede di essere all’altezza di noi stessi. Quando, invece, diventa una carneficina fino a se stessa e il regista è semplicemente un persecutore ovviamente non approvo questo atteggiamento; ma bisogna riconoscere a questo artista che sta guidando degli attori il diritto anche di chiedere queste cose con tutte le sue forze (per cui, a volte, anche con toni aspri) per indicarci la strada di essere sempre al massimo delle nostre possibilità, di non mollare mai.
Il nostro maestro Orazio Costa talvolta ci diceva delle cose che ci annientavano, però sapevamo che era per noi, per l’arte come lui la concepiva e alla base c’era sempre il suo motto che era: Vita! Vita! Ci chiedeva vita! Se il regista ti perseguita perché vuole morte allora è giusto contrastarlo; ma se vuole vita bisogna seguirlo anche in questo suo eccesso di desiderio di strattonarti.

 

Tornando al film di Amelio, mi piace molto quella scena in cui provano perché Braibanti, persona mite ed educata, Carmelo Bene diceva che era il più gentile, ma quando è in gioco la poesia, il teatro, l’arte bisogna porsi come se si fosse di fronte alla cosa più importante della vita, ciò che ci muove. Bisognerebbe fare sempre così, anche i pensieri che scriviamo su un diario se quando, sotto sotto, come dice Pasolini, abbiamo voglia che qualcuno legga i nostri segreti… con quella forza che verremo letti e non che quelle parole rimarranno solo per noi».

Luigi Lo Cascio condivide riflessioni ed emozioni sul suo maestro Orazio Costa Giovangigli


D:
A proposito di Giovangigli, intervistando Marcello Prayer in occasione di “Don Chisciotte” gli avevo chiesto se aveste mai pensato di mettere in scena l’“Amleto” che Costa non ha fatto in tempo a realizzare. Lui mi ha risposto: «Tutto è possibile, anche se è un argomento difficile. Sicuramente sarebbe simpatico che magari nascesse una coalizione di saudade dove gli allievi di questa ultima classe tipo Alessio Boni, Pierfrancesco Favino, Fabrizio Gifuni, Luigi Lo Cascio, Sandra Toffolatti,… si unissero per omaggiare un fatto storico abbastanza importante che non ha avuto modo di esistere, se non in forma di studio a tavolino, all’epoca… è un desiderio, però deve sorgere spontanea la necessità, è un fatto di una condivisione di un’altra età che hai avuto, ne riconosci oggi il valore che ti ha lasciato e vorresti rendere onore ritualmente.
Sarebbe bello, ma è difficile riunire queste qualità di strumenti e sarebbe necessario che ciascuno, nella propria vita, dovrebbe riuscire a trovare lo spazio di condivisione di una cosa avvenuta per rinnovarla e passarla… magari, ma poi devi fare i conti con la realtà»…

«È abbastanza difficile che accada e ovviamente sarebbe nella forma dell’omaggio. Era lui l’anima di quel progetto attraverso di noi, era la sua sensibilità quella che ci ha per fortuna toccati… è come se avesse impresso le sue impronte digitali su di noi per cui, in qualche modo, portiamo quello che è stato il suo magistero, ognuno nella propria maniera. Non so se accadrà, sarebbe bello che accadesse, [cresce la commozione interiore ascoltando la condivisione di quell’esperienza e di questi pensieri] per me, rispetto agli altri, sarebbe qualcosa in più perché io ho anche il dispiacere di aver lasciato la compagnia. Mentre Alessio, Fabrizio, Picchio, Sandra e gli altri hanno frequentato anche il quarto anno; io non l’ho potuto fare. Patroni Griffi mi chiese di fare il protagonista per un suo spettacolo e, dopo delle riflessioni, ho pensato a lavorare avendo lasciato la famiglia e promesso che dopo tre anni sarei riuscito a provvedere a me stesso. Ho fatto tutto lo studio su “Amleto” con Costa, ma le prove dello spettacolo non le ho potute seguire quindi per me sarebbe anche un modo di dire al mio maestro: mi dispiace che quella volta sono dovuto andare via. Mi è mancato molto questo tratto di strada e attraverso questo ritorno che facciamo ti saluto e torno a ringraziarti».

I prossimi progetti


D:
Concludiamo dando appuntamento ai nostri lettori annunciando i prossimi progetti

«L’8 dicembre escono su Amazon Prime i primi tre episodi della serie “The Bad Guy”. Il prossimo spettacolo è “Gilgamesh – Storia di un’epopea”, da un’idea di Giovanni Calcagno che ne cura anche la regia ed è in scena a me e Vincenzo Pirrotta (produzione ERT – Emilia Romagna Teatri. Ha debuttato allo Storchi di Modena il 2 febbraio 2023, ha toccato diverse città da Sud a Nord, conclude la tournée al Carcano di Milano, nda).

Dopo esser stato presentato alla 75esima edizione del Locarno Film Festival, uscirà “Delta” di Michele Vannucci (aggiorniamo con la data di uscita 23 marzo, nda) e, infine, in primavera dovrebbe uscire il mio secondo romanzo».

Ph cover: Gianmarco Chieregato

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