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Marco Tullio Giordana: «Non si può irreggimentare l’arte». Intervista al regista dello spettacolo “Fuga a tre voci”

Marco Tullio Giordana: «Non si può irreggimentare l’arte». Intervista al regista dello spettacolo “Fuga a tre voci”

Tempo di lettura: 17 minuti

 

Avere l’occasione di intervistare MARCO TULLIO GIORDANA è in primis un onore, non solo per la caratura artistica che ha dimostrato sin dal proprio esordio cinematografico (Maledetti vi amerò, insignito del Grand Prix al Festival di Locarno nel 1980), in seconda battuta per la coerenza che ha sempre comunicato nel corso del proprio percorso.
Lo abbiamo intervistato in occasione del debutto assoluto di Fuga a tre voci, durante la 45esima edizione del Cantiere Internazionale d’Arte di Montepulciano. Abbiamo avuto modo di approfondire la genesi e le tematiche della pièce, toccando con mano l’umanità e l’apertura con cui si è posto in dialogo.

Marco Tullio Giordana: intervista


D:
Partendo dalle sue note sembra quasi che sia stata questa storia a cercarla…


«Si tratta di un 
classico espediente letterario, che esiste dalla notte dei tempi [ha affermato con il tono di chi ha studiato nei minimi particolari tutto e, al contempo, possiede una grande cultura, di cui non ne fa sfoggio, sgorga naturalmente]. Ho scoperto che Hans Werner Henze agli inizi degli anni ‘60 aveva posseduto una Maserati, che non poteva che essere un modello molto specifico: la 3500 GT carrozzata Touring! Io conosco bene quel modello perché sono un appassionato di macchine d’epoca e mi sono ritrovato a pensare che, se mai ne avessi comprata una e quell’una fosse stata di proprietà di Henze, avrei potuto trovarci dentro delle lettere inedite. Fosse stato così avrei cercato Henze e le avrei restituite senza nemmeno leggerle. Strano che questo artificio letterario susciti tanta curiosità».
Marco Tullio Giordana intervista Fuga a tre voci
Da sx M. Cescon, M. T. Giordana e A. Boni – Ph Mimmo Verdesca

D: Come ha lavorato sul piano drammaturgico?

«Ho rielaborato tutto perché se avessi dovuto mettere in scena l’intero carteggio, sarebbe stato impossibile contenerlo integralmente, riempire i salti logici e temporali, evitare riferimenti a persone e vicende controverse… insomma bisognava scegliere. Riadattando il materiale, sono emersi alcuni temi che mi sono parsi centrali: la fuga dalla cultura tedesca (e le sue implicazioni con il nazismo) e l’abbraccio della cultura mediterranea, che per entrambi è stato molto importante. L’aspetto straordinario di questa amicizia tra Henze e Ingeborg Bachmann consiste nella sua nascita spontanea, nella comunione di amorosi sensi, ma anche nell’interesse poetico, letterario e musicale dato che hanno lavorato insieme in diverse occasioni.

Marco Tullio Giordana intervista Fuga a tre voci
Ingeborg Bachmann e Hans Werner Henze (1952)

È stato un sodalizio incredibile e da qui è nata l’idea di metterlo in scena, senza, però, riproporre le lettere tali e quali – in tal caso sarebbe stato un mero reading. “Fuga a tre voci vuole essere una vera e propria riscrittura teatrale, per quanto apparentemente elementare. Soprattutto l’inserimento della musica, che costituisce la terza voce, se non addirittura la prima, trasforma questo epistolario in racconto, in romanzo».

Marco Tullio Giordana e “La meglio gioventù”


D:
Senza voler spoilerare, c’è un momento che ricorda – anche per i temi – come suggestione una scena de “La meglio gioventù” in cui Nicola (Luigi Lo Cascio) e Mirella (Maya Sansa) passeggiano paralleli e, a un tratto, appare Matteo (A. Boni)…

«In Nicola e Mirella urgono sentimenti che non si possono dire e mentre giravo la scena ho pensato: il cinema riesce a materializzare il pensiero – ciò che non può accadere sulla pagina di un libro, dove si dovrebbero spiegare molte connessioni. Io, invece, posso mostrarlo addirittura con un solo flash! Boni non era sul set, l’abbiamo tirato giù dal letto, ci ha raggiunto in moto dopo due ore di viaggio e abbiamo realizzato questa seconda versione del finale con l’idea che avremmo anche potuto buttarla. Alla fine ho lasciato questa che avevamo ‘improvvisato’ perché permetteva di visualizzare l’intimo pensiero di entrambi: lo scrupolo di Nicola e Mirella di tradire la memoria del fratello e dell’amante suicida e abbandonare il lutto per sempre. Mi sembrava un’emozione fortissima data dalla semplice immagine di loro tre insieme, potente più di mille parole.

Marco Tullio Giordana intervista
Da sx Maya Sansa, A. Boni e Luigi Lo Cascio

Tornando a “Fuga a tre voci”, in realtà, dopo la seconda replica a Montepulciano, ho avuto un’intuizione e ho modificato il finale [e noi, giustamente, augurandovi di assistervi, non aggiungiamo dettagli a riguardo]. Quando l’ho raccontato ai miei complici [si riferisce affettuosamente agli artisti] erano sulla stessa lunghezza d’onda e, a mio parere, questa decisione conferirà ancora più potenza al quadro finale».

Marco Tullio Giordana
Da “Strategia del ragno”

D: Sembra che lei voglia richiamare lo spettatore e, allo stesso tempo, lasciare aperto il finale e lasciarlo libero di decidere…

«Henze, nelle pagine conclusive della sua autobiografia, “Canti di viaggio”, narra di varie allucinazioni, ogni tanto aveva come la sensazione di vederla in città o in un negozio e addirittura descrive di averla sognata al Caffè Greco di via Condotti a Roma, con un nuovo gruppo di amici, con Inge che ostentatamente lo ignora. Mi è sembrata la materializzazione in sogno di un senso di colpa, del rimorso per non averla saputa proteggere. Un’immagine stupenda che mi sono subito chiesto come utilizzare, come mostrarla in scena.

Marco Tullio Giordana Fuga a tre voci
“Fuga a tre voci”, bozzetto dello scenografo e light designer Gianni Carluccio

Ci tengo a sottolineare che ho riscritto tutto, con estrema fedeltà. La prova l’ho ricevuta la sera della prima, in cui c’erano in sala tanti collaboratori di Henze, amici intimi, persone che gli avevano voluto bene. Nessuno di loro si è sentito offeso o ha visto una manipolazione. Sulla liceità dell’operazione non ho dubbi; se dobbiamo pensare alla storia della musica e della poesia in modo notarile…è la fine! L’importante non è mai lo strumento, ma il testo, ciò che ti trasmette. Lo strumento non è altro appunto che un in-strumentum: qualcosa di puramente funzionale, un supporto».

Marco Tullio Giordana: The Coast of Utopia

 


D:
Ha accennato alla complicità con la compagnia. In particolare con Michela Cescon ha dato vita a un progetto ‘mastodontico’: “The Coast of Utopia”…

«Era di una durata sterminata – ben 9 ore – perché ognuno dei tre capitoli durava 3 ore. Lo spettacolo era molto costoso e complesso sul piano della scenografia, dell’impianto luci, dei costumi e anche dei trasporti; oltre alla gestione del libro paga degli attori (erano previsti circa 60 ruoli). Una di quelle imprese che appartenevano a un’altra epoca del nostro glorioso teatro, un’era ‘ronconiana’ o ‘strehleriana’ ora scomparsa. È stato un miracolo essere riusciti a realizzarlo a Roma e Torino e il merito è tutto di Michela che ne ha sostenuto la mastodontica produzione».

M. T. Giordana e Francesco Biscione durante le prove di “The Coast of Utopia” – Ph Fabio Lovino

D: In una delle lettere viene ripresa la questione dell’utopia e delle illusioni: «I suoi ideali arrugginiti avevano ricevuto l’assistenza dalla poetessa dal cuore grande e illusioni ancora più grandi». Sul piano professionale quanto sono state importanti le illusioni? E se dovesse riprendere “The Coast of Utopia” quale sarebbe il valore di quel testo oggi?

«Non credo che cambierei qualcosa se dovessi rappresentarlo nuovamente [personalmente ci auguriamo che venga ripreso, sarebbe un gesto importantissimo sostenere, in questo momento storico-culturale, la ripresa di un progetto simile] perché quello spettacolo portava finalmente in Italia un’opera straordinaria di Tom Stoppard, il racconto di come, nella seconda metà dell’Ottocento, si siano formate le grandi utopie dilagate poi nel Novecento, nel ‘secolo breve’ – sia le grandi utopie liberali che socialdemocratiche che rivoluzionarie (perché non c’è soltanto l’utopia marxista, che ha finito poi per riassumere e fagocitare tutte le altre).

Marco Tullio Giordana The Coast od Utopia
M. T. Giordana con Sara Lazzaro e Denis Fasolo durante le prove di “The Coast of Utopia” – Ph Fabio Lovino

L’utopia è, come in matematica, la dimostrazione ‘per assurdo’: devi postulare un concetto, dimostrarlo e risolvere il problema matematico tramite, qualcosa che, proprio per la sua impossibilità, ne dimostra l’esattezza. L’utopia è un progetto irrealizzabile, un postulato che nella sua valenza generosa, illusa, magari onirica, è necessario per progredire, sennò la Storia sarebbe immobile, una crosta di rapporti di classe, di rapporti di forza, dove esistono solo povertà e ricchezza. Non si sarebbe mosso un filo d’erba se non ci fosse stata l’Utopia, qualcosa in grado di spostare un po’ più in là il confine della notte, delle tenebre. Una società priva di utopie è morta, lo vediamo bene oggi dove l’Utopia risulta inattuale, impraticabile. Di certo le nostre non sono più società vitali, non trasmettono alcuna speranza di cambiare in meglio; semmai l’esatto contrario: il sentimento di una catastrofe imminente».

Marco Tullio Giordana racconta la genesi dello spettacolo “Fuga a tre voci”


D:
Raccogliendo proprio questa sua riflessione, quale valore ha avuto per lei lavorare a questo progetto durante il lockdown…

«Durante quel periodo c’è stata una sorta di continua sollecitazione a esprimere le proprie idee sul lockdown, come lo si viveva, ecc…
Io ne ero infastidito, non mi importava nulla del lockdown, già abbastanza angoscioso per suo conto senza dovervi aggiungere badilate di mestizia autobiografica. Io volevo continuare a fare il mio lavoro, parlare della vita, delle passioni, dell’amoreProviamo a immaginare se tutti gli artisti, nelle varie epoche in cui si sono verificate pandemie, peste nera o bubbonica o spagnola, si fossero concentrati solo su quello e avessero lasciato traccia solo di quello!
Alcuni geni hanno saputo giustamente inserire, raccontare, contestualizzare all’interno delle loro opere eventi come disgrazie, pandemie e guerre, ma non in modo esclusivo, come se tutta la vita dovesse essere sospesa.
Nelle settimane di chiusura forzata ho avvertito la necessità di realizzare qualcosa che mi spingesse fuori di me, fuori dalle solite cose, forse proprio per reazione vitale.
Organizzare un film durante quei mesi mi sembrava impossibile (anche se, il mio amico, Daniele Vicari, ci è riuscito, bravissimo!).
Mi è venuta voglia di scrivere qualcosa su Henze visto che lo stavo approfondendo proprio in quei giorni. Il chitarrista Giacomo Palazzesi mi aveva suggerito la lettura di “Canti di viaggio”, che mi aveva stregato. Ancor più la corrispondenza con la poetessa austriaca Ingeborg Bachmann, altro genio! Ho pensato di far leggere ad Alessio Boni e Michela Cescon le lettere che si sono scambiati davanti al proprio computer e farmi inviare questi selftape per poi montarli insieme alla musica per chitarra scritta proprio da Henze – così bella e così difficile – interpretata da Giacomo Palazzesi, il mio ispiratore. Pensavo di diffonderlo su YouTube o sulle piattaforme… è stata proprio la destinazione per le piattaforme a suggerirmi un formato di 50/55 minuti, così atipico per una pièce. Ritengo che ogni cosa vada adattata al tempo che si sta attraversando, non bisogna trasmettere mai allo spettatore la noia o dargli la possibilità di distrarsi con la fuga nei propri pensieri, nelle proprie questioni.

Marco Tullio Giordana intervista Fuga a tre voci
“Fuga a tre voci” bozzetto dello scenografo e light designer Gianni Carluccio

È stato possibile trarne un vero spettacolo perché Giacomo Palazzesi, già impegnato col Cantiere per un concerto, ne ha parlato col direttore artistico Roland Böer e col coordinatore artistico Giovanni Oliva, i quali hanno voluto subito invitarci. Ho capito che realizzare una rappresentazione fosse la cosa giusta, anche se, inizialmente, non era prevista in teatro ma all’esterno e ciò avrebbe comportato forti limitazioni. Per fortuna è stata presa la decisione di allestire “Fuga a tre voci” sul palcoscenico del teatro Poliziano. Ora ci auguriamo che possa avere una propria continuità e che sia possibile portarlo in tournée» [la data certa è il 12 settembre presso il Teatro Romano di Verona].

Marco Tullio Giordana: «Non si può irreggimentare l’arte»


D:
Prendendo spunto dalle parole di Henze, che afferma: «Non mi capacito che un mondo tanto piccolo come quello musicale sia lacerato da continue diatribe, da una guerra feroce per stabilire se le note siano sette o dodici e la gente sia pronta a far scorrere il sangue per questo. Non ne abbiamo avuto già abbastanza di odio e crudeltà e solitudine e paura?» Riflettendo sul nostro oggi, crede che «La gente sia pronta a far scorrere il sangue» come ai loro tempi, ancor più con le questioni messe in campo attualmente dai lavoratori dello spettacolo?

«Henze si riferisce al fatto che la seconda scuola di Darmstadt, nel dopoguerra, interpretando rigidamente il dettato di Schönberg, Berg e Webern, mise in trappola tutta la musica della tradizione imponendo dogmi che hanno condannato alla marginalità e all’oblio chi ha voluto osservarli fanaticamente. Henze se ne infischiò perché l’arte è come l’aria, non si può rinchiuderla, non si può stringerla nei precetti di una scolastica restrittiva. Come diceva Godard a proposito della Settima Arte: «Il cinema non ha regole, per questo la gente lo ama ancora». Codificare l’arte è come metterle il cappio al collo. Questa sorta di ‘dittatura’ artistica ha avuto i suoi effetti anche in Italia: Mario Castelnuovo-Tedesco, il quale, a causa delle leggi razziali, era stato costretto a fuggire negli Stati Uniti dove, per campare, aveva scritto spesso non accreditato, colonne sonore e insegnato ad allievi come Elmer Bernstein, Henry Mancini, Jerry Goldsmith, André Previn, John Williams, Nelson Riddle! In Italia nessun conservatorio lo volle, ostracizzandolo come un relitto della tradizione tonale; tanto che se ne tornò a Hollywood dove, invece, l’adoravano.

Marco Tullio Giordana intervista Fuga a tre voci
M. T. Giordana e M. Cescon – Ph Mimmo Verdesca

Oggi forse queste discriminazioni ‘ideologiche’ non esistono più. Apparentemente l’unica dittatura è quella del ‘cool’, dello ‘smart’, di quello che va di moda. Vedo una sorta di corrente mainstream alla quale tutti vogliono appartenere poiché così riscuotono subito successo e riconoscimento immediati, ma che mi sembra altrettanto restrittiva. Con ciò non voglio asserire che bisogna cercare una strada anti-popolare, sprezzante, esclusiva. Ogni artista deve trovare la propria. Non si può irreggimentare l’arte. Non si possono mettere gli artisti in uniforme!».

Marco Tullio Giordana e gli incontri che lo hanno segnato


D:
«C’è un grande pericolo nell’essere favoriti dalla fortuna: si rischia l’assuefazione e si dimentica che grande miracolo siano gli incontri», asserisce Henze in una lettera a Inge. C’è stato un momento in cui lei, all’interno del suo percorso professionale, ha pensato: che grande miracolo gli incontri?

«Continuamente. Tutto quello che ho fatto nella mia vita lo devo a una serie di incontri, talvolta fortuiti, altre volte cercati e costruiti grazie a persone straordinarie di cui volevo seguire l’esempio. Soprattutto ero curioso di sapere cosa pensassero, come fosse stata la loro vita. Fin da piccolo sono stato un divoratore di biografie di uomini illustri, cercavo di carpire i segreti delle loro opere. Ci sono stati incontri davvero importanti, come il mio primo produttore Mario Gallo – un uomo eccezionale – o ancora Roberto Faenza, Elda Ferri, Giuliano Montaldo, Bernardo Bertolucci,
Marco Bellocchio e Francesco Rosi, persone di cui poi sono diventato anche amico. Mi sorprendevo, da adulto, a essere lì con loro perché mi ricordavo di quando li guardavo da lontano, da ragazzino che sognava il cinema, e mi sembrava incredibile che mi dessero retta! Gli incontri sono tutto.
Ho citato nomi noti; ma non dimenticherò mai, ad esempio, l’esperienza della mia opera prima “Maledetti vi amerò”: dopo la prima inquadratura, il capo elettricista, Renato Sardini, mi disse: «curioso questo modo di procedere» perché avevo chiesto di cominciare con un dettaglio. Io gli risposi: «Ma perché, come si fa?» e lui mi spiegò sottovoce che si facevano prima i campi larghi, poi più stretti, poi i primi piani e, da ultimo, i dettagli. Tenni il punto e feci fare come avevo chiesto, ma dopo proseguii come mi aveva detto Renato! Devo tanto a tantissima gente, non me lo devo mai dimenticare questo».

“The Coast of Utopia”


D: 
Prima ha accennato al sodalizio con Michela Cescon e Alessio Boni, che avevano già lavorato insieme in “Quando sei nato non puoi più nasconderti”…

«In quella circostanza è nata un’amicizia molto forte con Michela.
È stata lei a dirmi che a suo parere ero adatto per il teatro (avevo realizzato solo una volta una regia lirica e la messinscena di “Morte di Galeazzo Ciano” di Enzo Siciliano) e a propormi l’impresa di “The Coast of Utopia. Ogni volta che lavoriamo insieme penso che avremmo dovuto cercare molte più occasioni: peccato non aver ‘usato’ di più attori come Michela o Alessio o anche il musicista Palazzesi. Bisognerebbe avere molte vite per dar corpo a tutti i progetti».

Marco Tullio Giordana intervista The Coast Of Utopia
Michela Cescon e Marco Tullio Giordana con Tom Stoppard

Marco Tullio Giordana: «Così è nata la mia vocazione»


D:
Henze sembra quasi, in alcuni momenti, un suo alter ego quando afferma: «Lavorare, scrivere, comporre, le cose per cui siamo venuti al mondo». Ovviamente, nel suo caso, compone sul piano cinematografico e teatrale. Lei come ha capito che era venuto al mondo per questo?

«Fin da piccolissimo avevo una propensione alla pittura, tanto che mia madre aveva perfino conservato i disegni di quando avevo due anni! Per tutta l’adolescenza ho pensato che da grande avrei fatto il pittore. A 22 anni, vedendo a Parigi una mostra di Francis Bacon, mi resi conto che non sarei mai stato un bravo pittore. Aveva già fatto tutto lui… io non sarei stato che un epigono, un imitatore. Ero così disperato per quello shock che decisi di buttarmi nella Senna! L’avrei forse fatto se non avessi visto una troupe che stava girando un film e, avvicinandomi, non mi fossi accorto che parlavano tutti in italiano. Era Bertolucci che girava “Ultimo tango a Parigi”. Mi misi in un angolo e restai tutto il giorno a vederli lavorare. Macchinisti, elettricisti, Bertolucci, Storaro e Marlon Brando con il famoso cappotto cammello!

Lì ebbi la folgorazione: mentre il pittore, lo scrittore, il poeta sono completamente soli e alla mercé dei propri conflitti, depressioni, inadeguatezze; il cinema è, invece, una forza comune, un’immensa energia collettiva. Tutti ti sostengono, collaborano, come un’organizzazione militare. Qualcosa che ricorda di più la complessità dell’organismo umano che non quello monocellulare dell’artista solitario. La sera, al quartiere latino, proiettavano “Strategia del ragno” e andai a vederlo dato che mi aveva così colpito quel giovane regista che saltava da tutte le parti. Ne ricevetti un’emozione indimenticabile. Conoscevo “Prima della rivoluzionema Strategia mi riguardava direttamente, il rapporto coi Padri, la politica, la Resistenza… capii che il Cinema poteva ‘guarirmi’ da tante angosce in cui mi dibattevo. Ne ricevetti un’emozione indimenticabile. Così è nata la mia vocazione».

Marco Tullio Giordana

D: Come l’ha sviluppata?

«Ci vuole molta passione, fare, rifare, scrivere, riscrivere, studiare e documentarsi. Non bisogna pensare che sia qualcosa di innato, che succede così in maniera estatica come se arrivasse ‘l’illuminazione’. C’è dietro un lavoro molto duro, un apprendistato che dura tutta la vita. Non avevo letto prima Henze, nell’autobiografia ho trovato questa autodisciplina eccezionale, questo culto del lavoro e dell’organizzazione e un ‘trucco’ che voglio seguire d’ora in avanti per sempre: scrivere in luna crescente, correggere in luna calante. Così ho fatto per “Fuga a tre voci” e… ha funzionato! Mi colpiva molto, a proposito di autodisciplina, che rimproverasse Ingeborg, questa amica dotatissima ma tormentata dai dubbi, di non essere disciplinata. Mi colpiva anche che lei, da persona intelligente, non si offendesse affatto ma gli fosse anzi molto riconoscente».

D:
Henze a un tratto scrive: «Scrollarsi tutto di dosso, lasciarsi cadere senza preoccuparsi che si apra il paracadute». Lei ha mai provato quella sensazione?

«È ciò che si dovrebbe fare sempre, ma è anche la cosa più diffcile poiché si ha paura di lanciarsi nel vuoto pensando che nessuno ti raccoglierà. È lo stato che uno vorrebbe raggiungere quando scrive perché così è infnitamente libero, ma è molto rara questa condizione. Si è trattenuti da scrupoli e paure nell’interrogarsi continuamente se non ci sia un modo migliore; sarebbe la massima felicità potersi abbandonare».

Marco Tullio Giordana intervista
Da sx A. Boni, G. Palazzesi e M. Cescon – Ph Giacomo Bai

D: Henze manifesta questo fascino verso l’Italia e la fuga verso il sud. Suona un po’ strano perché se pensiamo a noi italiani e a ciò che accennava sulla libertà artistica. Non so lei, come maestro d’arte cinematografica e teatrale, quanto si senta libero oggi…

«Negli anni ‘50-‘60 e fino ai ‘70, cioè dal dopoguerra fino alla ricostruzione si è verificata la massima libertà. Oggi addirittura ritengo che gli anni Settanta siano stati i migliori. Nonostante fossero funestati dalle guerre e dal terrorismo, si sono rivelati più cosmopoliti e sperimentali di quanto è venuto dopo. Chi è stato giovane allora ha goduto di uno stato di grazia assoluto. Io ho debuttato negli anni ‘80 e già questa libertà si era ristretta per una ragione molto semplice: era mutato il modo di fruire il cinema da parte del pubblico – si potrebbe estendere anche a letteratura e teatro. Era diventato sempre più impegnativo conquistarlo perché si era moltiplicata l’offerta televisiva e la qualità sempre peggiore di questa offerta. Questo comportava e comporta grandi responsabilità in chi controlla questi mezzi e li guida.

Marco Tullio Giordana intervista Fuga a tre voci
Prove “Fuga a tre voci” – Ph Mimmo Verdesca

La classe dirigente, soprattutto in Italia, è molto peggiorata direi che da trent’anni in qua, non possiede la formazione necessaria per guidare il destino di un Paese, del suo sviluppo, della sua politica interna e di progettare pure la politica internazionale in modo meno corto. Una ruling class che sembra preoccupata solo di occupare posti e garantirseli a vita, senza prospettiva, senza progetti, inamovibile e oltretutto molto voltagabbana per cui ti ritrovi fra i piedi sempre gli stessi mandarini invecchiati, incapaci, inutili. E tutti che lanciano contumelie contro la fazione opposta, salvo allearsi col nemico dell’altro ieri se serve, se garantisce il posto. Si rischia di sembrare qualunquisti, ma la verità è questa e vedo pochissime eccezioni, per non dire che non ne vedo affatto. Il loro ossessivo presenzialismo e il controllo spietato sui mezzi di informazione e diffusione ha mortificato enormemente la libertà degli artisti. Una sorta di ‘sistema sovietico interiore’, che impedisce di sfiorare argomenti critici, una spinta all’autocensura, all’assuefazione e al conformismo. È molto complesso quello che sta accadendo, però vedo sempre più complicato mettere in piedi progetti ambiziosi, forse non c’è nemmeno più la domanda».

D:
Nel corso della pièce, un altro contraccolpo si ha quando si ascolta questa frase di Inge/Cescon: «E l’Italia, in qualsiasi suo posto, invita sempre ad aprire gli occhi». Io non so se sia così anche oggi, la sensazione che ho è che vorrebbe farci cadere nell’oblio…

«Esistono molte realtà: quella della classe dirigente, della nomenklatura, che è la più ristretta e forse anche la più corrotta e quindi non ci si può aspettare nulla da lì. Ma ci sono un’infinità di ‘Italie’ che io per fortuna vedo e riconosco e non sono per niente identificabili coi suoi modesti ‘condottieri’. C’è il peggio e il meglio, questo è un Paese fortunatamente ancora molto ricco e bello. L’Italia è ‘la bella addormentata’ però non credo che tutto sia perduto. Esistono ancora delle belle voci, anche se nessuno di noi ha la grandezza di Pasolini o Sciascia, così innamorati del loro Paese e del loro tempo, che io considero autentici Patrioti dell’arte e della poesia. Dovremmo considerare pure gli scienziati in questo lavoro di conoscenza e progettazione. Ci sono ancora le energie. Il grosso problema, in primis, è la nomenklatura che opprime tutto questo e la senescenza di una classe dirigente che non molla il colpo, sta lì, occupa spazi e non si ritira – e lo dico da persona alla soglia dei settant’anni. Personalmente non vedo l’ora di ritirarmi, di fare spazio ai ragazzi che vogliono ancora fare questa professione».

Marco Tullio Giordana intervista
Dal backstage di “Romanzo di una strage”

“Romanzo di una strage”


D:
Va riconosciuto che lei ha sempre centellinato e pesato, non ha mai realizzato lavori che non avessero un’urgenza. Quando ha presentato “Romanzo di una strage” effettivamente aveva già dichiarato quanto si sentisse responsabile verso le nuove generazioni…

«Ho avuto la fortuna, quando ero ragazzo, di essere contemporaneo a autori come Calvino, Eco, la Morante, Moravia, Pasolini e Sciascia, che mi hanno dato l’esempio di cosa debba fare un intellettuale: mischiarsi con la realtà, comprendere e raccontare cosa accade, non essere evasivo, non disertare. Sono nato con questa formazione e ho sempre pensato che il dovere fosse quello, e, nel mio piccolo, ho cercato di seguire quegli esempi ben sapendo che i tempi erano cambiati e che era anche diminuita la richiesta di testimonianza e memoria e alto sarebbe stato il rischio della solitudine e dell’inattualità.

Questo, però, non ci deve indurre a rinunciare, a scoraggiarci oppure seguire l’onda. Adesso noi non riusciamo a vedere i frutti, ma già esistono gli arbusti che diventeranno piante, gemme, fiori e frutti. La natura si rinnova continuamente e anche il genere umano, a meno che i danni non siano irreversibili. Questo è l’unico terrore: siamo andati troppo avanti con la capacità di distruzione – anche mentale – perché si possa cambiare destino con la sola buona volontà. Certo una ruling class migliore, una élite – parola oggi impronunciabile – consapevole aiuterebbe molto».

D: Riprendendo la questione dell’artista Henze scrive: «Lo dico non solo perché SO che non ci sono altre difese contro l’infelicità, lo dico perché l’artista, magari indifeso, ha da opporre alla mutabilità delle cose, alle sofferenze, alla solitudine, una cosa che gli altri non hanno: il trionfo della creazione. Quel trionfo che nei momenti più neri, è il suo rifugio». Quanto sente vicino questo modo di approccio?

«Avere queste frecce nella faretra è un privilegio immenso, un dono che uno deve restituire. Non si può sprecare né disperdere il talento. Non ho mai veramente avuto questa consapevolezza, ho sempre pensato in termini di lavoro, al bisogna di fare e agire. Mi sembra una fortuna, un dono del cielo aver potuto fare un mestiere che mi piace, che costa fatica, ma che al contempo dà anche una grandissima soddisfazione. Non tanto di sé (di me non sono mai veramente contento), ma di quello che può muovere e provocare. Faccio l’esempio di alcuni film che mi hanno dato questa sensazione di essere stati utili per altre persone come “I cento passi”, “La meglio gioventù”, “Romanzo di una strage” o “Lea” – quest’ultimo ha avuto un impatto fortissimo su molte donne che hanno cominciato a dissociarsi dalle loro famiglie mafiose».

D: Concludiamo con una domanda di rito. C’è un film in corso d’opera?

«Posso confessare una cosa di cui mi vergogno? Sono superstizioso e finché le date di inizio riprese non saranno confermate non voglio nemmeno pronunciare il titolo. Bisogna parlare dei film a cose fatte, quando li hai acchiappati, quando li tieni stretti in sala di montaggio e non ti possono più scappare!».

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