MARINA OCCHIONERO non si ferma – ed è giusto che sia così – cerca e, al contempo, accoglie le occasioni che le sembrano più congeniali, ma nell’ottica di mettersi alla prova. Abbiamo avuto modo di dialogare con lei a conclusione delle prove del secondo capitolo di una trilogia in programma il 30 giugno al Festival AstiTeatro.
D: Marina cos’hai appena finito di provare?
L’anno scorso abbiamo debuttato con “La Gloria” di Fabrizio Sinisi e la regia di Mario Scandale – è stato insignito del Forever young – e da pochissimo abbiamo iniziato le prove del secondo capitolo, il quale ha come titolo provvisorio “Incendi”. Mentre il primo trattava della gioventù di Hitler; questo ha come sfondo la Repubblica di Weimar e il tema portante è l’essere giovani in un periodo storico caratterizzato da dittature, guerre, crisi economiche.
Marina Occhionero in “Padri e figli”, regia di Fausto Russo Alesi
D: A proposito di gioventù, recentemente hai concluso le repliche di “Padri e figli” di Ivan Turgenev, regia di Fausto Russo Alesi (produzione ERT/Teatro Nazionale, Teatro di Napoli – Teatro Nazionale in collaborazione con Teatro Verdi Pordenone, Centro Teatrale Santacristina). Che tipo di esperienza è stata Santacristina?
«Come tutti quelli che ci sono passati, è immersiva, teatralmente molto formativa. Abbiamo avuto la fortuna di realizzarla con la stessa persona e ciò ha permesso di creare un rapporto di lavoro continuativo, di andare molto a fondo nello studio di un testo. In più tutti noi avevamo frequentato la stessa classe quindi avevamo già una determinata sintonia – il che è una base un po’ particolare perché, di solito, vengono scelte persone che vengono da classi diverse, in questo siamo stati un po’ eccezione».
D: Alesi, in particolare nel I atto, ha voluto mantenere quella sensazione di forma laboratoriale, di work in progress…
«La sua decisione è stata quella di mantenere la forma in cui l’abbiamo studiato cioè dei giovani attori che si approcciano a un testo, di conseguenza permaneva pure questo crinale in cui l’attore si muove sempre tra la narrazione di se stesso, della storia e il personaggio, senza dichiarare mai un’entrata troppo in prima persona perché è proprio il tema del nostro lavoro. L’aver conservato questa caratteristica è stata una scelta registica».
D: Il tuo personaggio, la lettrice, si può affermare che la incarni ulteriormente. Quali sono stati i momenti chiave che ti hanno aiutato a inquadrare questo ruolo, che definirei chiave, a cui viene data la prima e ultima parola?
«Mentre all’inizio parlavamo di narrazione, quando abbiamo cominciato a costruire lo spettacolo, Fausto ci teneva molto che la mia parte fosse identificata nella lettrice. La differenza in questo è molto importante perché desiderava che questo ruolo fosse quello che potesse accompagnare lo spettatore nel percorso di lettura – non ci stiamo riferendo a uno spettacolo di prosa classico, ma è quasi come se il pubblico stesse leggendo un libro. Il lavoro attoriale che mi ha chiesto di fare è stato quello di non interpretare un narratore onnisciente, il quale si approccerebbe al testo con una consapevolezza, ma era essenziale che mantenessi una freschezza e una curiosità sempre nuova nell’approccio a questa storia, che accompagnasse lo spettatore lungo le fila del racconto e nello scoprire i personaggi».
D: Prima che la pièce prendesse il via, il prof. Fausto Malcovati ha affermato: «Andiamo in scena perché è un atto vitale di confronto tra gli esseri umani» – riferendosi a ciò che sta accadendo. Quanto pensi che sia importante continuare a fare teatro, senza scadere nell’ottica del ‘The Show Must Go On’.
«Penso che la risposta stia proprio nelle parole del professore, oltre che in quelle di Sorgenia e soprattutto nella conclusione del protagonista, Bazarov, si racchiude una grande fiducia… citando le sue parole: «Nella ricostituzione sociale, nella ragione umana, nella libertà individuale. Questi sono i valori che riscopre, dopo una vita dedicata alla negazione e al nichilismo». “Padri e figli” è profondamente un testo contro la guerra: il messaggio è sottile, va colto tra le fila del racconto. È un manifesto di fiducia nel dialogo e nell’essere umano questo è il motivo per cui ci è sembrato ancora più importante andare in scena in questo momento e corretto sottolinearlo».
D: Tra i vari aspetti, è interessante che emerga – pensando a quegli anni – la questione femminile…
«Sì era già presente ed è anche il motivo per cui Fausto ha deciso che la lettrice fosse una ragazza e che il passaggio avvenisse tra un uomo anziano e una giovane».
D: Dal punto di vista di ciò che viene messo in scena tra le generazioni, che tipo di idea ti sei fatta rispetto a uno scambio generazionale e cosa ti ha insegnato questo testo a proposito?
«Il bello di questo romanzo – e di riflesso della drammaturgia – è che non insegna nulla, ma fa porre tante domande come tutte le grandi opere d’arte. Non si trovano delle risposte, ma pone delle domande molto esatte, pertinenti sia rispetto all’età degli interpreti che alla nostra generazione e alla nostra situazione socio-politica. In periodi di grande crisi di valori, in cui i sistemi politici e i valori morali vengono messi in crisi, qual è la reazione e quanto è importante l’eredità? Quanto è importante tagliare i cordoni ombelicali e quanto, invece, è importante capire da dove andiamo per comprendere dove stiamo andando? Sono tutte domande che Turgenev pone, mantenendosi in una modalità, a mio parere, molto intelligente: al di sopra, non dando mai una risposta ed è ciò che mi ha lasciato il romanzo… dei grandi punti interrogativi e delle ampie aree di riflessione».
D: Verso la fine si ascolta: «Camminare sull’orlo di un abisso». Spesso si riflette su quanto questo tipo di professione porti a sfiorarlo; se dovessi pensare al tuo percorso professionale, ti sei mai sentita, attraverso un personaggio, in quella condizione?
«No poiché per me il lavoro è lavoro e lo separo molto dalle mie sensazioni personali. Da spettatrice vedendo dei film o degli spettacoli; ma nel mio rapporto coi personaggi, cerco di relegare le mie percezioni più intime – è un sistema di salvaguardia».
D: F. R. Alesi è molto legato a Ronconi e non è un caso che sia voluto partite dalla letteratura. Nelle sue note di regia scrive: «Qual è l’eredità dei padri e qual è il futuro dei figli?». Tu, Marina, riesci a indicare dei padri artistici? Quanto pensi che le generazioni passate e quella di Fausto si stiano ponendo questa domanda nei vostri confronti e cosa potete fare voi?
«Mi sento abbastanza orfana dei padri artistici – il che potrebbe essere un bene, non si sa. Non li ho scartati o rifiutati, non si sono proposti. Da questo punto di vista nutro una sensazione di abbandono: rispetto alla generazione prima avverto una grande distanza per il momento. Questo potrebbe essere pure molto positivo, vedo molte altre persone della mia età e mi auguro che sia un terreno fertile per creare una distanza sana e di conseguenza una risposta a questo vuoto».
Marina Occhionero e la formazione
D: Sul piano formativo hai spaziato molto: dallo stage presso il Théâtre National de Strasbourg a La Comédie-Française passando per la Schaubühne di Berlino fino al diploma presso Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico (per citarne alcuni). Come pensi di aver rielaborato tutto questo?
«Sono ancora troppo nel vortice, queste esperienze sono talmente fresche per averle metabolizzate e soprattutto le considero una piccolissima parte: sento che c’è moltissimo da fare e da approfondire ancora».
D: Anche se sei in divenire, esiste una caratteristica che avverti particolarmente tua?
«Forse sì, però non saprei dire di me. Fino ad ora ho compiuto delle scelte basandomi tanto sul mio istinto. Se dovessi indicare una caratteristica direi che cerco di mettermi in difficoltà, in tutti i progetti selezionati c’è una parte di me che vuole mettersi in discussione e vuole sentirsi spostata e messa in bilico. Cerco di non star comoda questo è ciò che mi guida nel tenermi accesa e viva».
D: Cos’ha significato cominciare, in teatro, con Oscar De Summa?
«Tanto perché Oscar è stata la prima persona con cui ho lavorato non appena uscita da scuola e lui ha un approccio al teatro che mi ha affascinato subito. Mi ha dato un grandissimo spazio, fidandosi a pelle di me, nonostante io fossi molto giovane. Mi ha insegnato la cosa più importante: essere attrice, ma autrice di me stessa – è l’elemento che ricerca principalmente negli attori con cui collabora. Quando sono uscita da scuola non pensavo che si potesse fare, avevo un’idea dell’attore più novecentesca; lui mi ha dato una visione di questa professione con una grande libertà e la possibilità di lasciare una traccia di se stessi, che è diventata per me parte integrante del mio lavoro sempre».
D: Lo hai reincontato con “Prometeo”, dopo aver effettuato altri lavori, cos’ha significato rilavorare insieme?
«Abbiamo realizzato quattro spettacoli in totale. Siamo diventati anche molto amici per cui è avvenuto un riconoscersi e uno scegliersi pure sul piano umano. Ho una grande sintonia con lui come persona. L’evoluzione l’ho notata nella scrittura e nell’affrontare i temi proposti dalla mitologia e dall’epica, studiarli e passarli attraverso la nostra sensibilità. L’ultimo progetto è stato completamente differente in quanto si è trattato di un monologo che ha scritto appositamente per me: è stata un’altra nuova fase della nostra collaborazione in cui abbiamo lavorato sulla narrazione. Ogni volta è la ricerca di un linguaggio diverso tra prosa, poesia, narrazione».
Marina Occhionero: cosa mi ha affascinata di Viola in “Studio Battaglia”
D: Concludiamo con la fiction “Studio Battaglia”. Tua sorella Nina (Miriam Dalmazio) afferma della tua Viola: «Sei una donna che si è opposta a quello che gli altri volevano per lei, che ha scelto di vivere a modo suo e ci vuole molto coraggio anche nell’essere libera». Sei stata molto brava nell’incarnarla, lavorando anche in sottrazione, tranne quando arrivi a ‘scoppiare’ a causa di determinate situazioni. Quale prezzo ha scegliere di essere libera come Viola all’interno di una famiglia così?
«Quello dell’instabilità, del rischio e quindi e quindi un po’ della montagna russa interiore in quanto ci si obbliga a chiedersi davvero cosa si desidera e non che cosa vogliano gli altri da noi. È molto complicato, è un modo di vivere che per forza ti ‘costringe’ a passare dalla sofferenza perché andare contro quello che le persone che più amiamo si aspettano da noi porta delle crepe e quando le incomprensioni si verificano magari coi genitori – in questo caso, per Viola, soprattutto sua madre è un fondamento della sua vita familiare è doloroso però è un’affermazione di se stessi. Viola, come personaggio, mi ha affascinata tanto quando ho letto la sceneggiatura perché l’ho trovata centrata, a differenza delle sue sorelle che hanno questa completa identificazione nel lavoro e parallelamente sanno molto meno chi sono loro; Viola, al contrario, non sa per niente cosa stia facendo, ma conosce bene chi sia. L’ho trovato poetico e mi ha fatto affezionare a lei».
D: Il personaggio incarnato da Barbora Bobulova afferma sin dall’inizio che bisogna tagliare il cordone ombelicale…
«Ogni sorella a modo suo cerca di emanciparsi: è quello che tutti i figli fanno. La differenza in Viola sta nel decidere di non fare una professione di quelle socialmente ritenute di un certo calibro».
D: Ricordando ciò di cui parlavi del mettersi in discussione e della professione dell’attore che non viene, purtroppo, considerato ancora come dovrebbe… Qual è lo stereotipo o lo schema che ti è più a cuore che vuoi scardinare, magari attraverso l’essere attrice?
«Ce ne sono così tanti di schemi… nel mio piccolo già l’ho scardinato: sono figlia di avvocati e ho deciso di fare l’attrice».
Ph cover: Luca Reggiani