«Voglio pensare un po’ più a me stessa. Voglio essere la donna che sono e desidererei tanto che specialmente il cinema e la tv italiana inizino ad aprire le porte alla vera figura femminile, senza continuare sulla linea della bambola o della donna problematica oppure la compagna giovane. All’italiano medio forse fa paura la donna che può essere molto forte, libera, labirintica per cui all’uomo piace metterci dentro dei cassetti chiusi e tenerci a bada oppure nelle fiction spesso si vede una ragazzina come compagna di un cinquantenne. È raro che gli si affianchi una coetanea, va assolutamente sradicato questo approccio e, in questo caso, sarei pronta anche a fare una rivoluzione femminile», confessa MARIT NISSEN aggiungendo «Di solito non mi piacciono i modi forti né essere troppo femminista; ma ritengo che la donna debba essere raccontata in tutte le fasi della vita. L’abbiamo rappresentata in vari modi fino ai trent’anni e poi, spesso, dai cinquant’anni in poi non si va a fondo.
Per quanto mi riguarda mi piacerebbe molto esprimere la varietà e la profondità che abbiamo. Guardando al futuro prossimo vorrei incarnare sempre una donna positiva, anche nel caso in cui abbia delle ferite o sia sofferente, perché mi piace pensare positivo, vorrei alzare lo stato d’animo e non vedere il marcio ovunque. Vorrei illuminare tutto».
Abbiamo avuto il piacere di dialogare con Marit Nissen mentre portava in scena al Teatro Elfo Puccini di Milano “Anatomia comparata (Una festa per il mio amore)”, scritto e diretto da Nicola Russo, il quale ancora una volta dimostra una grande delicatezza di penna e di sguardo nell’affrontare l’essere umano e anche le cicatrici che si porta con sé. Con l’attrice abbiamo voluto approfondire lo spettacolo, ma anche come si sente in questa fase della sua esistenza, oltre che della carriera, ripercorrendo pure alcuni momenti particolarmente significativi.
D: Marit che cos’è per lei il teatro?
«Apprezzo molto quando allo spettatore di turno arrivano dei messaggi, in una forma diversa, toccando attraverso la magia del teatro. Mi piace quando accadono delle cose, ma non devi usare tanto la mente, arriva qualcosa che va al di là delle parole. Io, igenerale, amo parlare poco; in “Anatomia comparata” ci sono tante parole – io amo parlare poco -, ma succede moltissimo al di là di esse».
Maririt Nissen e “Anatomia Comparata”
D: Com’è avvenuto questo incontro con Nicola Russo?
«Lo conosco da diversi anni eravamo insieme nel cast di “Nemici d’infanzia” per la regia di Luigi Magni. Ho continuato a seguire il suo percorso attraverso i social perché ciò che realizza mi ha sempre attratta, è stato lui stesso a cercarmi per questa pièce ed è stato proprio Nicola a dichiarare come io ed Elena saremmo state giuste insieme per questo testo.
Quando mi ha raccontato di cosa trattasse, da un lato sono stata affascinata dalla storia, dall’altro mi ha fatto molta paura perché ho perso la mia migliore amica per scelta sua e che stava andando in scena interpretando una donna che non ci sarebbe stata più… se n’è andata il primo giorno in cui ha ripreso lo spettacolo. Di conseguenza erano due aspetti che mi hanno fatto molto pensare, tenendo conto del mio ruolo. Temevo di farmi influenzare da questa ‘coincidenza’ un po’ particolare; poi mi son detta che avrei voluto girare il tutto in positivo donando ogni sera più vita di quello che potrebbe fare una persona ancora esistente, tanto più che credo che la morte sia solo una fase latente della vita per cui, chi resta, si può mettere ancora in contatto con chi non c’è più. E poi nulla va perso, dai ricordi all’energia che una persona aveva. Tutto ciò che siamo, compresa la mia anima, continua per cui ad ogni recita decido di donare al pubblico, a me, alla mia collega un inno alla vita – queste sono anche le intenzioni che emergono dall’opera scritta da Nicola».
D: S’intuisce già dopo il primo quarto d’ora che Elena (Russo Arman) provi una grande nostalgia e che non riesce ancora a fare i conti con la sua età…
«Ciò che faccio, grazie al testo e alla scelta del mio personaggio, è proprio ciò che vorrei che avvenisse nella mia vita avendo perso una persona così cara. Non bisogna crogiolarsi nelle lamentele così come tende a fare lei».
D: Russo ha avuto il coraggio di trattare anche un punto importante: la scelta di morire attraverso l’eutanasia. Non ha avuto timore del giudizio su questo tasto ancora molto discusso?
«No, io Marit, non ho paura di questi pregiudizi. Personalmente credo che vorrei assaggiare la vita fino all’ultimo. Se dovessi avere paura del giudizio degli spettatori credo che ‘dovrei fare le valigie’ [sdrammatizza, asserendo però una verità]. In comune con Diane potrei dire di avere un senso del controllo anche perché nella mia famiglia qualcuno deve tenere le redini poiché Paolo (Sassanelli, nda) è molto artista, Lilian si sta preparando sempre più in quanto regista (è al suo secondo cortometraggio, nda)».
D: Com’è stato il lavoro con la Arman?
«È stato bellissimo: ci siamo conosciute per questa circostanza, eppure lei ha un’aurea come se ci conoscessimo da sempre; in più è stato un lavoro molto particolare perché abbiamo provato durante il lockdown in un teatro completamente a nostra disposizione. La scenografia era montata sin dal primo giorno, avevamo il fonico e abbiamo vissuto casa-teatro, non ho mai provato con così tanta calma e serenità. L’Elfo ha aperto le porte per le prove e c’è stata più arte che mai lì».
D: Quali sono i punti di forza della sua Diane?
«Lei è sieropositiva, ha superato il cancro e l’ha sconfitto, le è venuto un altro cancro (e non riveliamo altro, soprattutto per chi non ha avuto modo di vederlo, in quanto lo spettacolo dovrebbe essere ripreso sia nella prossima stagione dell’Elfo che andare in tournée, nda). È una donna molto forte, dove anche la scelta di non invitare la donna che ama a una festa molto particolare. Mi sento molto affine a questo ruolo: quando la vita diventa dura, io divento più forte; gli ostacoli mi spingono solo a superarli e trasformarmi».
La Nissen e la sua formazione
D: Mi ha incuriosita che lei abbia fatto prima da uditrice all’Accademia d’Arte Drammatica Silvio d’Amico e poi, a distanza di circa dieci anni, abbia deciso di seguire la “School After Theatre, Russian Academy of Arts (GITIS)” con Jury Alschitz, dove si è diplomata.
«Avrei voluto frequentare l’Accademia, ma io non parlavo abbastanza bene l’italiano perciò mi permisero di farlo come uditrice. Ricordo Foschi molto attento sulla parola; ma anche in Germania c’è qualcosa di fermo, io non voglio essere messa in nessun contenitore. Potrei dire di aver preso ovunque il meglio: lavorando con Dominc de Fazio mi ha trasmesso dei concetti essenziali… mi diceva sempre: “invece di fare devi essere” – e questo per me è un leitmotiv. In più sottolineava il processo affermando che vieni creato dall’ambiente – torna l’idea dell’ascolto in scena. La recitazione è un divenire. Con Alschitz ho fatto molta analisi del testo, ho lavorato sulla verticale del personaggio – proprio come fanno i migliori sceneggiatori. Sono arrivata a questo metodo russo perché si era creato un gruppo, tutti i miei amici più cari avevano deciso di seguirlo, da Monica Samassa alla regista con cui ho lavorato tanto Marinella Anaclerio. Confesso che ho anche quasi dimenticato tutto, poi riaffiora perché fa parte del mio bagaglio».
Marit Nissen e il suo percorso professionale
D: Spesso in “Anatomia comparata” si parla di cogliere l’attimo. Quando ritiene che ci sia stato lo switch nel suo iter?
«Il lavoro è sempre andato di pari passo con le mie esperienze di vita: non appena avevo sperimentato qualcosa, mi si proponeva un ruolo connesso a ciò che avevo provato… è una strana magia di questo mestiere. Un attore guarda sempre all’esistenza, la osserva e attinge molto a ciò che accade personalmente – almeno questo è il mio modo di approcciarmi.
Da un po’ di anni mi sentivo professionalmente un po’ ferma in quanto non potevo esprimermi fino in fondo, affrontando parti musicali come “Signori in Carrozza” (2015/16) o ancora “La legenda del Favoloso Django Reinhardt” (2014/16) – entrambi diretti da Sassanelli – e “Servo per due” (di grande successo, co-regia di Pierfrancesco Favino e Paolo Sassanelli, 2013-16, nda) dove si cantava, ballava, c’era sì un gioco d’attore, ci si divertiva; ma a me piace molto interpretare, entrare nella vita di un personaggio… in fondo è questo il motivo per cui ho scelto di intraprendere questa professione. Negli ultimi anni ho lavorato spesso con mio marito Paolo (Sassanelli, nda), il quale mi conosce molto bene, riesce a far emergere degli aspetti bellissimi insiti in me, ma, al contempo, entrano in campo altre dinamiche.
Nicola mi ha lasciato libera di esprimermi con tutte le mie sfumature. [Con un’onestà disarmante ammette:] So che posso essere ‘molto’ e questo può spaventare, passando da uno stato d’animo a un altro. I miei figli sanno che posso ridere e, dopo un attimo, piangere e loro rimangono spaesati. Mi piace tantissimo non essere incasellata in un tipo di recitazione. Nutro una grande gratitudine verso Nicola e, confesso, credo molto in questi incontri istintivi: lui non mi conosceva tantissimo professionalmente, però ci siamo subito affidati l’uno all’altro. Elena è così diversa da me e la sua intuizione di mettere vicini questi due opposti è risultata, a mio parere, giusta. Ogni sera cerchiamo di essere nuovamente vergini, ritrovando tutto. Per me la morte del teatro è quando fai tutto meccanicamente… chiaramente non si può essere sempre al 100%; sul palco devi avere sotto controllo diversi aspetti o può capitare che sia leggermente distratto e lì salva l’automatismo nel senso che il tuo fisico si ricorda ciò che devi fare così come la tua bocca sa ciò che deve dire. Con Elena ci stiamo molto ascoltando» [le sorge spontaneo evidenziarlo].
D: Non so se il lockdown vi abbia aiutato nel ritrovare la possibilità di ascolto…
«È terribile quando non ci si ascolta; spesso quando vado a vedere uno spettacolo da spettatrice noto che gli interpreti non si stanno ascoltando tra loro. A volte temo che il pubblico sia un po’ ‘rovinato’ da alcuni prodotti televisivi che mettono la ‘pappa pronta’ davanti; però, al contempo, non voglio crederci. Voglio pensare che se assiste a qualcosa che gli vibra dentro avvenendo in quell’hic et nunc, non si può non rimanere toccati».
I postumi del lockdown
D: Molti spettatori hanno ancora una certa ritrosia nell’andare a teatro o al cinema perché dicono che non vorrebbero rinchiudersi dopo esserlo stati per diverso tempo. Come si potrebbero riconquistare secondo lei?
«Sia per il teatro che per il cinema ritengo che si debba stimolare la volontà di andare in loco a vedere lo spettacolo e il film di turno, magari tramite contesti pensati appositamente e dibattiti. Ricordo di aver visto al Sacher di Roma “Heimat” di Edgar Reitz e ogni settimana era a puntate. Dobbiamo dare qualcosa in più rispetto alla visione privata… credo sia necessario che ci siano sempre il bar, così come l’angolo libreria. Ci dobbiamo reinventare un po’ e ogni volta che si dà vita a uno spettacolo o a un film bisogna sempre pensare al pubblico che lo vede; non si può sempre pensare in maniera autoreferenziale».
D: Cos’ha capito vivendo da anni da noi?
«Specialmente in Italia non c’è tanta voglia di sperimentare; spesso le fiction ricalcano prodotti che acquisiscono abbastanza fedelmente dall’Est. A volte mi chiedo quale sia il mio posto qui. So che posso ‘spaventare’ per la mia libertà, il desiderio di realizzare lavori particolari o ancora per il fatto di avere un piccolo accento. Per un periodo, da noi, sono riuscita a interpretare personaggi che non corrispondevano per forza alla nazista tedesca o alla ricca americana o comunque a una straniera. Ero una e basta. Adesso mi sembra, purtroppo, che siamo ricaduti in questi stereotipi per cui la donna di colore è la badante delle pulizie o la tedesca è una cattiva. Mi rammarica perché un piccolo accento o una cadenza leggermente presente dovrebbero essere visti come una ricchezza. Non so il mio futuro» [dice sorridendo con un mix tra speranza e desiderio che scompaiano i cliché].
D: Sul piano cinematografico e televisivo ha incontrato più dei muri o c’è stata un’occasione in cui si è sentita completamente libera?
«Ho con me il foulard che mi ha regalato Ennio Fantastichini. Insieme abbiamo realizzato “Il mostro di Firenze”. C’è stata una grande preparazione, con lui interpretavo una delle coppie di genitori di una delle ragazze che viene ammazzata dal mostro di Firenze. Ci diedero l’opportunità di effettuare le prove per una settimana a Torino (dove abbiamo girato gli interni) e poi il regista ci faceva fare e poi, nel caso, interveniva perché avevamo già creato tutte le nostre relazioni.
Quella è stata una delle mie esperienze più organiche, interpretavo una danese con accento toscano, andai anche davanti a casa sua, Winnie Rontini, per citofonare e incontrarla, ma poi mi è mancato il coraggio.
Un altro esempio che posso citare è il penultimo film girato a Napoli diretto da Vito Zagarrio, “Le seduzioni”, in cui Andrea Renzi interpreta mio marito e io ho il ruolo di una giocatrice di poker – dove ho potuto ‘giocare’ con la seduzione – la quale cerca di dirigere gli altri, ma non posso rivelare altro. A settembre ho realizzato una commedia, “Surprise Trip” per la regia di Roberto Baeli, con Ron Moss, dove nel cast c’è anche Paolo.
Quando le cose si fanno difficili mi è sempre andata bene, l’andare controtendenza ha funzionato».
D: Quale ricordo porta con sé di un attore come Fantastichini?
«Per me è stato un incontro importantissimo perché ho trovato sia un artista che un essere umano enorme, oltre al fatto che si è creata una stupenda empatia tra di noi quando abbiamo lavorato. Tutte le scene con lui avvenivano in modo naturale e semplice: era un flusso di vita insieme, come se ci conoscessimo da sempre. Gli ho voluto un bene profondo, abbiamo continuato a frequentarci dopo aver finito le riprese anche perché era un essere umano e un attore molto vicino a come la penso io: vivere la vita a pieno – nel suo caso l’ha vissuta anche in modo molto estremo – e riusciva a riportarla nei lavori che realizzava con una libertà totale e, al contempo, con un rigore e una preparazione tecnica immensi. Mescolava molto bene tecnica, istinto, umanità e grande cuore» [ne parla con il trasporto di chi nutriva e nutre grande stima e amicizia, ma anche commozione].
Marit Nissen e l’idea per il futuro
D: Considerando questa sensazione di libertà che sente di aver riacquistato, non ha mai pensato di scrivere qualcosa lei?
«Sì, ho un progetto che sto scrivendo visto che avverto la mancanza di bei ruoli per me e ho anche chiesto a Nicola Russo se ha voglia di collaborare.
Devo per forza pensare a qualcosa che sia cucito addosso su di me perché altrimenti, a causa dell’ottusità che avverto, dovrei lasciare questo Paese, ma non ho questa opzione. C’è un lato molto mistico a cui credo sempre più: se tu fai il primo passo qualcosa si muove anche all’esterno.
E poi ho una regista che crede in me, è la mia prima fan: mia figlia Lilian, la quale mi ha detto che un giorno mi farà realizzare un progetto pensato appositamente per me».
D: Potremmo dire che il suo prossimo obiettivo sia coltivare più se stessa sia artisticamente che umanamente?
«Così come mi piace coltivare il mio orto, forse dovrei coltivare maggiormente me stessa. Sono contenta della mia carriera; ma è il momento di dare ancora una sterzata, non per ricevere fama, ma per avere delle interessanti occasioni e, se non mi vengono offerte, me le creo io».