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Artisticamente Magazine

Maurizio Donadoni: «Il teatro è qualcosa di attivo»

Maurizio Donadoni: «Il teatro è qualcosa di attivo»

Tempo di lettura: 8 minuti

 

MAURIZIO DONADONI nel parlare di Matteotti e di teatro si emoziona ed entusiasma perché «in quello che faccio cerco di mettere delle nuances, come diceva Verlaine, delle sfumature». Forte di questo approccio e di ciò che ha imparato dai suoi maestri (tra cui Carlo Cecchi, il quale a sua volta aveva appreso da Eduardo), con la semplicità di cuore e la consapevolezza di chi ha esperienza e vuole trasmetterla ci ha raccontato cosa sia per lui il teatro.

Maurizio Donadoni e il teatro

«Come sempre piace a me, essendo di origine proletaria, credo che il teatro debba avere una caratteristica popolare anche se alto di confezione. Deve essere comprensibile, non deve rimanere l’angoscia ma la curiosità di andare ad approfondire. L’ambizione di ogni attore è che lo spettacolo non finisca lì, ma che la gente se lo porti a casa come esperienza concludendola quando vuole».

Maurizio Donadoni
Ph Gianmarco Chieregato

Donadoni e l’idea di documentario teatrale

«Lo spettacolo dal vivo ha dei limiti strutturali che sono quelli della resistenza umana. Il materiale che mi è servito a costruire la drammaturgia l’ho messo in un file e lo spettatore, inquadrando il qrcode lo può scaricare, scoprendo così, ad esempio. quanto Matteotti amasse il canottaggio. Il tutto è sistemato come una narrazione, organizzato in un racconto molto intimo attraverso cui si possono capire tante cose di Giacomo Matteotti che non ho potuto inserire per questioni di tempo. Io sono andato nei suoi luoghi»

D: Proprio un approccio da documentarista…

«Sì solo che non ho la macchina da presa, ho gli occhi, la memoria, i libri. È un lavoro che ho cominciato nel 2000 e, come accadeva per gli uomini vecchio stile, per me i rapporti non finiscono mai. Se ho conosciuto un argomento o una persona restano sempre con me.
Il teatro civile mi appassiona perché mi sembra di mantenere vivo un ricordo nel senso di esperienza, tant’è che ho voluto scrivere su La Rosa Bianca, sul Vajont, sul terremoto de L’Aquila, scriverò sui gulag e sugli armeni. Mi interessa restituire le vicende di chi non ha più voce, facendolo in maniera suggestiva nel senso di suggerire una cosa lasciando che gli altri continuino (nel documentario teatrale cito sempre le bibliografie). Penso che il teatro sia qualcosa di attivo, non significa far vedere quanto sei bravo. Di fronte a vicende così bisogna fare un passo indietro e mettersi al servizio».

Maurizio Donadoni Matteotti
Ph Federico Buscarino

Maurizio Donadoni e il lavoro su Matteotti


D:
Come mai ha scelto di affrontare la vicenda di Matteotti già nel 2000?

«In quell’anno ho incontrato un giornalista, Luciano Di Tizio, a Chieti, dove è avvenuto, nel 1926, il processo-farsa agli assassini di Matteotti. Con dei liceali abbiamo realizzato un potpourri di documenti intitolandolo “Un inutile eroe”, rifacendosi alla definizione che Matteotti stesso aveva dato parlando dei coetanei (aveva detto: ogni epoca della storia ha avuto le sue vittime, gli inutili eroi che hanno aperto la strada agli altri) e non sapeva che gli sarebbe capitata la stessa sorte.
Viviamo in un mondo che tende a spingere in una direzione; per me è essenziale che rimanga sempre la possibilità evidente di andare dalla parte opposta, anche singolarmente. Ecco, per come la vivo io, questo significa democrazia. Appena individuo una storia con il ‘bastian contrario’ pieno d’amore, voglio andare a fondo e raccontarla perché a me dà speranza».

D: La sorte di Matteotti rappresenta uno spartiacque

«Il destino d’Italia si è deciso allora, tra il giugno del ’24 al gennaio ’25 poteva succedere di tutto, se fosse stato rapito un altro le opposizioni non sarebbero mai uscite. Lui aveva la tempra del combattente».

Le donne di Matteotti

«Sua moglie Velia ha sofferto in una maniera indicibile. La madre perdeva con Giacomo l’ultimo di sette tra figli e figlie; in più la figlia di Matteotti ebbe delle ripercussioni. Velia, in particolar modo, si ritrovò spaesata, in difficoltà economiche».

Maurizio Donadoni Matteotti
Ph Federico Buscarino

Donadoni sottolinea il coraggio di Matteotti

«Era un fan sfegatato di Eleonora Duse tanto che alcune settimane prima di morire, chiese un passaggio a un camion di fascisti che non lo riconobbero e lui si spacciò per un attore [e Donadoni ne imita la cadenza di origini venete]. Era coraggiosissimo, ad esempio nel ’21 doveva andare a parlare a Castelguglielmo pensando di rivolgersi a dei contadini. Quando è arrivato si è ritrovato dei fascisti con forche e bastoni, ai quali disse: fatemi parlare alle leghe contadine, dopo vengo nella vostra sede. Quando si recò poi dai fascisti, lo buttarono su un camion e con le pistole puntate alla testa lo portarono in aperta campagna, minacciandolo di morte, lo spogliarono nudo, intimandogli di smettere di fare politica. L’onorevole doveva andare a una riunione del consiglio provinciale a Rovigo, si è rivestito e, facendosi prestare un cavallo chiedendo una cascina, è arrivato a notte fonda a destinazione. Giacomo Matteotti era un riformista vero, non voleva saperne di violenza né proletaria né borghese. Desiderava  formire gli strumenti ai contadini su come analizzare i bilanci comunali perché dovevano essere in grado di capire e questo lo ha fatto anche quando erano al governo i socialisti. Lui è morto perché documentava, cercava le prove, si poneva di petto».

Matteotti come Pasolini

«Lui come Pasolini ha reagito, neanche col suo corpo è stato inerte. Coloro che lo hanno ucciso erano caimani del Piave, che avevano fatto ‘pratica’ durante la Prima Guerra Mondiale. Ha spaccato il vetro della macchina, ha cercato di difendersi e non se l’aspettavano per cui probabilmente gli è sfuggita la situazione di mano. Il piano originario prevedeva, infatti, che il tutto avvenisse a Vienna, in concomitanza di un congresso tra le varie correnti del socialismo, per poter dare la colpa a delle frange massimaliste – piano saltato per l’improvvisa rinuncia al viaggio da parte dell’onorevole nonostante, fatto strano, gli fosse stato sollecitamente rilasciato il passaporto, al contrario di tante altre volte. In fretta e furia – prima che riaprissero le camere il giorno 11 e lui potesse intervenire sulla legge di bilancio (denunciando un buco di due miliardi di lire e le tangenti milionarie legate all’affare petroli Sinclair) – dovettero mettere in campo un piano b, che era quello di sequestrarlo, portarlo da qualche parte, probabilmente fuori Roma, sulla Tiburtina dove era stata già approntata una fossa piena di calce viva e là ucciderlo e farlo sparire. Idea andata a monte per l’inaspettata, furibonda reazione di Matteotti all’interno della vettura, tra urla, calci e pugni, che comportò la risoluzione anticipata, feroce e caotica del delitto, scannato a cento metri da casa sua, tra il sedile e il pavimento di una macchina dagli interni lacerati e zuppi di sangue. La reazione di Matteotti probabilmente determinò il modo, non l’intenzione, che era quella di eliminarlo.
Come si diceva negli Anni Settanta ha gettato il suo corpo nella lotta: tante volte lottiamo o con l’esilio interiore o con la lotta intellettuale, lui ha buttato proprio il suo corpo fisico per le sue idee e questo è ammirevole. Non avrei probabilmente questo coraggio».

Maurizio Donadoni Matteotti
Ph Federico Buscarino

Maurizio Donadoni e il lavoro di attore

«Questo documentario teatrale lo faccio come un attore: cerco di immedesimarmi nella situazione. In via Pisanelli, 40 (dove abitava) è rimasto tutto uguale, anche l’ascensore. Quel giorno con la moglie avevano discusso perché lei era preoccupata e voleva che non si esponesse più di tanto visto che anche i compagni di partito non lo seguivano, Turati lo chiamava il discolo cioè il monello.
Da attore azzardo questa ipotesi: Mussolini vedeva in Matteotti il socialista che avrebbe potuto essere e che non era stato. Finché non c’è nessuno che ti fa vedere la possibilità di essere diverso, pensi che la tua sia l’unica strada. Esiste una linea, pure nella nostra vita privata quando capita un’ingiustizia importante; poi riflettendoci sai che se si oltrepassa quella linea, dopo non si può tornare indietro. Gli antichi la chiamavano ὕβρις, la tracotanza, se vai al di là non è più controllabile e Mussolini con Matteotti ha varcato quella linea e da lì si è passati al regime. Come dice Sofocle nell’“Aiace” (lo ha portato in scena a Siracusa, nda) riferendosi alle guerre: Ora ho capito, il nemico va combattuto ma non tanto da arrivare ai confini dell’odio. Bisognerebbe tenerlo presente anche oggi».

D: Potrebbe approfondire perché Medley (la seconda parte del titolo)?

«È pieno di canzoni dell’epoca, tra cui le marcette fasciste che stranamente sono conosciute da molti – erano fatte apposta proprio per entrare in testa».

D: So che le è a cuore un discorso coi giovani

«Sì, dopo le repliche al Teatro Oscar di Milano e al Teatro Basilica di Roma, vorrei che cinque ragazzi – corrispondenti al numero di coloro che lo hanno ucciso – possano raccontare questa storia. Il tutto con le canzoni e anche le poesie in dialetto per il duce. Ci tengo a precisare, però, che resta tutto in fieri perché tutto ciò che è fissato è morto, tutto ciò che è in divenire ha un destino per cui preferisco stare anche io, in parte, nella condizione dello spettatore e cioè senza sapere cosa possa avvenire completamente una sera. Per il prosieguo voglio cercare sei giovani attori bravi che sappiano recitare, cantare, suonare, ballare. Ho 66 anni e sono nell’era della restituzione. Da Herlitzka ho ‘rubato’ i toni in “Come vi piace” e saprei rifarlo oggi a distanza di quarant’anni. Il teatro deve essere un’esperienza che puoi ricordarti senza la pretesa di insegnare niente a nessuno, è un posto dove nessuno insegna e tutti imparano».

Maurizio Donadoni Matteotti
Ph Federico Buscarino

D: Quest’anno è il centenario della sua morte, ma va ricordato, come ha anticipato, che si tratta di un lavoro lungo anni

«Ci sono cinque date su cui si dovrebbe puntare ancor più (ma non sono un organizzatore): 22 maggio la sua data di nascita, 30 maggio l’ultimo discorso di Matteotti in Parlamento, 10 giugno Scalo de Pinedo dove è stato rapito, 16 agosto quando venne ritrovato il corpo a Riano e 20 agosto. Velia ha ritrovato dopo due mesi (in cui è dimagrita 10 chili) i resti del marito dopo averlo lasciato/salutato da vivo (l’ultima immagine impressa nella sua mente era quella di Giacomo che scendeva dalle scale).
Sono stato in via Gallia Placida all’archivio centrale, dove hanno fatto un lavoro egregio, fotografando tutti gli originali su una carta sintetica e sono consultabili tutti i documenti, tra cui la testimonianza che Velia rese al giudice istruttore del processo: fa impressione come si ricordasse con precisione come fosse vestito (con le bretelle color avana, scarpe scamosciate, giacca color crema). È stata mezz’ora nella camera mortuaria di Riano con una dignità encomiabile. Ha mostrato a tutti che non aveva pianto ed è tornata a Roma in macchina. Voleva partire il giorno 20 agosto alle h 8 del mattino da Termini per portarlo a Fratta Polesine, scrisse al Ministro degli Interni chiedendo di viaggiare come semplice cittadina italiana. Federzoni glielo vietò, indicando che il feretro sarebbe partito il 19 dalla stazione di Monterotondo, avrebbe viaggiato di notte con scorta di cento carabinieri. Sul treno c’erano Turati e alcuni compagni e il primo scrive: Questo cadavere così straziato viaggia in perfetto incognito. Le ferrovie italiane (essendo state sensibili nel caso delle foibe) potrebbero fare il tragitto in treno che meriterebbe Matteotti, partendo il giorno 20 da Roma e a ogni fermata la gente, se vuole, lanciare un fiore… sarebbe un risarcimento ‘piccolo’ per il dolore che quella donna ha provato, senza intenzioni ideologiche».

 

Ph cover: Gianmarco Chieregato

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