PAOLO BRIGUGLIA, in questo momento, è – per coincidenze di palinsesti – presente su Rai1 in “Brennero” (il lunedì) e ne “I leoni di Sicilia” (il martedì) e su Canale5 con “I fratelli Corsaro” – oltre che sulle rispettive piattaforme online. Si è ritagliato un generoso spazio di dialogo mentre sta girando e a breve tornerà anche sul palcoscenico. Quando nel corso di una riflessione ci dice che ha cinquant’anni si resta sorpresi per come li porti; allo stesso tempo, però, basta pensare alla gavetta fatta sul campo e, ad esempio, a quel ragazzo che incarnava il fratello di Peppino Impastato ne “I cento passi” di Marco Tullio Giordana. Abbiamo voluto cominciare il nostro ‘viaggio’ da un lavoro che denota sensibilità – qualità che torna in diverse scelte professionali e considerazioni. Ci riferiamo al suo ruolo nel cortometraggio “Ronzio”, realizzato dai giovani partecipanti a FilmLab, il workshop di Alta Formazione Cinematografica di OffiCine-IED.
Paolo Briguglia: interrogativi e sensibilità verso tematiche delicate
L’ESPERIENZA DEL CORTO “RONZIO”
D: Interpreta Pietro, il padre della ventenne Alma, che ha l’ADHD (Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività)
«È un progetto semplice, ma molto curato. Si girano tanti corti, purtroppo, però, non c’è a livello distributivo una grande cultura a riguardo. Ad esempio aiuterebbe proiettarne uno prima di un film. Invece no, perché la sala deve mandare la pubblicità. Esistono i festival, ma sono per lo più frequentati da addetti ai lavori e sarebbe importante comunicare l’importanza al grande pubblico».
D: Spesso sono il trampolino di lancio per un giovane regista.
«E non solo, anche tanti registi affermati continuano a realizzarli. Sarebbe bello che diventasse quasi un genere a sé, come in lettura… Hai il romanzo e hai il racconto».
D: Tornando a “Ronzio”, sia come responsabilità artistica sia umana, essendo padre, pensa che siamo molto indietro nell’approccio verso la pluralità?
«Mentre giravamo, proprio qualche giorno prima, mia figlia mi ha detto: “Papà vorrei fare il test per l’ADHD perché ho visto un video su internet e io mi sento così”. Quest’estate, in vacanza, abbiamo conosciuto una ragazza che ha questo disturbo ed è seguita da psicologi. Ho capito che da una parte viene diagnosticato con forse troppa facilità; alcuni, invece, sostengono addirittura che non esista. Invece bisognerebbe capire perché oggi il deficit di attenzione è così diffuso tanto da aver fatto pensare a una patologia oppure da aver generato veramente una patologia. In quest’ottica entrano in campo ovviamente cellulari, iPad, il fatto che ormai l’attenzione dei bambini venga divisa tra più sollecitazioni in contemporanea: studiano, ascoltano la musica, guardano l’ultima notifica arrivata. Mi auguro che “Ronzio” possa girare il più possibile nelle scuole».
LO SPETTACOLO “CHI COME ME”
D: Si può dire che ci sia un filo, almeno la sua sensibilità su alcune tematiche, con lo spettacolo “Chi come me” (adattamento, regia e costumi di Andrée Ruth Shammah) in cui interpreta il dott. Baumann, direttore del reparto del centro di salute mentale
«La proposta di farlo è arrivata proprio in un momento della vita in cui stavo cercando un lavoro sul tema perché da papà mi rendo conto di quanto oggi i ragazzi siano esposti e indifesi rispetto a tante cose. In primis direi all’aggressione dei media, come può essere anche semplicemente un canale per vendere contenuti. Ad esempio mia figlia di 12 anni è ossessionata dal truccarsi, guarda i video tutto il giorno e ho scoperto che le case di cosmetica hanno trovato terreno fertile ormai dai 9/10 anni in su. Non voglio risultare un padre primitivo che costringe la propria figlia, con un panno, a togliersi il blush e tutto ciò che si è messa sul viso. Non lo posso fare, sarebbe violento; sono impotente perché le nostre bambine e i nostri bambini non sono tutelati dall’aggressione del marketing che entra nella loro vita attraverso questi dispositivi. Si sta distruggendo la psiche dei nostri ragazzi, abbiamo già studi sulla capacità d’attenzione, sull’ansia, sull’infelicità, sulla depressione e le malattie mentali nelle fasce adolescenziali sono in aumento esponenziale così come i ricoveri di ragazzi depressi che ’vivono’ in camera, che tentano il suicidio, che abbandonano gli studi o non sono in grado di studiare. Quando ho letto il testo di “Chi come me” ho pensato: finalmente posso fare qualcosa che mi sta particolarmente a cuore. Mentre ero in scena al Parenti di Milano, sono stato contattato dagli amici dello IED con cui già avevo collaborato (Cristina Marchetti che è la direttrice e suo marito Silvio Soldini) e mi hanno invitato a partecipare alla realizzazione di “Ronzio”».

D: Protagonisti dello spettacolo sono cinque adolescenti e gli attori che li interpretano magari sono alla prima esperienza. Come si è rapportato?
«Da qualche anno ho cominciato a insegnare all’Accademia Silvio d’Amico recitazione con la macchina da presa: quello che faccio su di me, cerco di aiutare gli altri a farlo in maniera più rapida ed efficace. Quest’arte è interessante perché è personale, è un incontro fra le necessità di un personaggio e la tua natura umana. Per me, durante le prove di “Chi come me”, era fondamentale incoraggiare i ragazzi, anche senza dichiararlo troppo, semplicemente con l’ascolto, trasmettendogli il desiderio di provare a prendersi la libertà di andare in una direzione o di metterci dentro qualcosa che fa parte del proprio bagaglio emotivo. In più il rapporto fra il dottor Baumann e i ragazzi è diverso con ciascuno di loro, quindi era anche necessario costruire una relazione che mi porto dietro in scena».
D: Come hanno reagito ai ruoli che dovevano interpretare (sono affetti da disturbi psichici di varia natura che comprendono attacchi di rabbia, autismo, disturbo bipolare, schizofrenia, disforia di genere) e come li ha supportati?
«Andrée è stata molto brava nel chiarire subito che stiamo recitando. Non ha chiesto ai ragazzi di fare una performance in cui perdi te stesso nel personaggio e a un certo punto rischi di soffrirne. Ha domandato chiaramente di mettere in scena un disturbo e i ragazzi sono stati bravissimi nel capire questa cosa e ognuno, a modo proprio, ha trovato quei piccoli elementi che davano l’idea del disturbo senza attraversare quel confine molto labile. Andrée dice che questa cosa fa parte anche della cultura ebraica: il teatro non è immedesimazione ma è rappresentazione, per cui rappresento un sentimento, una risata, un pianto, ma non è che devo far uscire lacrime. Sul palcoscenico posso anche far finta di piangere, ma se lo faccio con sincerità e con attenzione al momento drammatico non è fingere ma è aderire a questa cosa che facciamo insieme, cioè noi attori che delineiamo quel percorso e voi spettatori nel lasciarvi andare all’illusione. Questo è il lavoro che abbiamo fatto insieme per avvicinarci al discorso mentale e con il rispetto che merita perché ovviamente parliamo di storie, molte delle quali sono vere – l’autore, Roy Chen, le ha raccolte dai ragazzi. Vorremmo trasmettere che non si è soli, c’è uno spazio per poter narrare tutto questo e forse raccontando queste storie, in parte, lenirle».
D: Lei, nei panni del dott. Baumann, chiama un’insegnante di teatro
«Il farmaco o la terapia della parola possono arrivare solo fino a un certo punto e invece la creatività che si sprigiona dal teatro è in grado di sbloccare dei blocchi, innescare dei processi di cambiamento. Addirittura, al contrario, come succede nello spettacolo, certe volte – è fatto con incoscienza – provocare una crisi come succede a Emanuel, che, a un tratto, vuole tagliarsi con le forbici.
D: Se vogliamo anche quella è una reazione
«Sì, però si rischia. Il personaggio dell’insegnante di teatro è molto interessante perché non arriva una persona consapevole con dieci anni di esperienza sulle spalle, ma una giovane donna che ha avuto le esperienze di teatro e non con le persone affette da disturbi mentali. In più, a sua volta, è una persona che ha attraversato un momento difficile nella sua vita quindi si mette in gioco completamente e però non sa gestire fino in fondo i processi che mette in opera».
Paolo Briguglia e il potere del teatro
D: Paolo, Orazio Costa Giovangigli ha affermato che il teatro era rimasta forse l’unica strada ancora per riuscire a salvarsi. Cosa ne pensa?
«Frequentando sia il teatro che la televisione che il cinema posso dire che sicuramente in teatro si respira un’aria di maggiore libertà. Le produzioni per piccolo e grande schermo hanno degli obblighi molto forti di andare incontro al gusto del pubblico e di creare qualcosa che sia commerciabile, mentre in teatro – chiaramente si tengono in considerazione gli spettatori – senti che hai maggiore creatività da mettere in campo. Poi per un film o una serie ci si prepara da soli, poi si arriva sul set e crei la tua performance. L’hai fatta e già non c’è più perché 10 minuti dopo stai lavorando su un’altra scena e il più delle volte non si può approfondire. È quasi un’arte istantanea che ha il suo bello in questo, ma anche il suo limite, perché non riesci, secondo me, a raggiungere una qualità di performance che in teatro puoi raggiungere, a meno che non ti prepari su un personaggio per un mese e mezzo, ma questo raramente viene fatto».
D: Forse quando ha iniziato c’era più modo?
«Io cerco di prendermi il tempo e di lavorare da subito, anche poche ore al giorno, per sedimentare e lasciare che sia non solo la mente a ragionare, ma anche tutto il resto del sistema a mettersi in moto pure in maniera inconscia. Va anche detto che, talvolta, ti confermano all’ultimo minuto che sei parte di un cast. Tenendo conto di tutto questo, confermo che il teatro è un grande spazio di lavoro salvifico».
LO SPETTACOLO ”UN AMORE”
D: Anche per questa ragione cerca di mantenere sempre una finestra aperta?
«Io coltivo sempre lo spazio di fare lo spettacolo a teatro. Quest’anno, oltre a “Chi come me”, sto lavorando su un adattamento a cui tengo molto, “Un amore” di Buzzati. L’ho scoperto grazie a una lettura per cui ero stato invitato l’anno scorso e ne sono rimasto affascinato. Racconta di uno scenografo, un cinquantenne, che avendo per sua natura un po’ di problemi con le donne, va in un bordello. Una volta incontra una mimorenne con la quale inizia una frequentazione. All’inizio la tratta come se fosse una cretinetta, poi ne viene catturato e se ne innamora. Preferirebbe quasi che lei andasse solo con lui, quindi le offre tanti soldi. Ma lei, che è una ragazzina che viene da una situazione popolare, molto povera, e sta, come dice lui, dando l’assalto alla vita, ovviamente ne approfitta e lo fa sprofondare in un delirio di totale follia ed è bellissimo seguire questo percorso con Buzzati. Quest’uomo è un maschilista da bar, che pretenderebbe di trattare le ragazze come degli oggetti. A poco a poco questo maschilismo si smonta (non aggiungiamo altro perché speriamo che lo vediate in teatro, da gennaio lo riprende in tournée arrivando anche al Parenti di Milano dall’11 al 17 febbraio 2025, nda). C’è anche il grande tema del confronto con la morte di Buzzati. Si compie un viaggio esilarante perché a volte si vive molto, altre è disperante e commovente perché empatizzi con quest’uomo, con la sua grazia umana e con il suo tragitto. Abbiamo optato per un monologo: c’è quest’uomo nel suo studio di scenografo, che racconta questa storia, in terza persona che a poco a poco si fa sempre più partecipata, meno distaccata fino miracolosamente a diventare prima persona, per poi tornare alla terza».
D: Dino Buzzati ha curato delle scenografie per i balletti del Teatro alla Scala, si può pensare a una sorta di alter ego?
«Sicuramente traccia in questo percorso qualcosa di molto autobiografico. Quello che mi ha sorpreso è che, negli ultimi anni, si è affermato questo genere letterario dell’autofiction, in cui lo scrittore mescola elementi della propria biografia con altri di fantasia – penso anche all’ultimo romanzo di Paolo Giordano, “Tasmania”, oppure la scrittrice francese Annie Ernaux, che ha vinto il Premio Nobel per la Letteratura nel 2022.
Buzzati lo fa nel ’62, crea un romanzo che implicitamente è anche una specie di autofiction. Ci tengo molto a questo progetto [e si avverte da come ne parla], ho collaborato anche alla scelta delle musiche, che sono quelle di allora e mi riferisco non solo alle canzoni di Celentano, ma anche brani da film. In quegli anni c’erano compositori come Piero Piccioni, veniva prodotto molto cinema erotico ed è stato stimolante riscoprire le colonne sonore e poterle usare per lo spettacolo. La regista si chiama Alessandra Pizzi, la quale ha fondato una casa di produzione Ergosum».
Le abilità ‘inaspettate’ di Paolo Briguglia
D: Una curiosità: ho letto delle sue abilità anche come chitarrista e al pianoforte, non ha pensato di mettersi alla prova in tal senso?
«La mia abilità è che rispetto a qualcuno che non sa suonare, so strimpellare le canzoni, gli accordi… comincio a studiare adesso. Non credo che sarò mai in grado di suonare qualcosa per qualcuno, però mi piace da morire. Prendere per esempio una delle arie un po’ più semplici di Bach e fare suonare insieme quelle note è qualcosa che ho desiderato fare tutta la vita. È bellissimo per l’essere umano potersi avventurare in quel territorio e poter produrre quei suoni… solo questo mi dà una felicità e poi è qualcosa che ti apre il cervello. La lettura della musica è un linguaggio nuovo.
Ho iniziato col pianoforte. Ho capito che con dieci minuti al giorno chiunque di noi può suonare uno strumento con soddisfazione e quando non puoi perché magari sei in tournée diventa una sofferenza; però ci si può portare dietro una chitarra. Se mi capita di rivivere un’altra vita, sicuramente vorrei provare a fare qualcosa con la musica».
D: Perché attendere una seconda vita?
«Comporre è un lavoro davvero impegnativo, ci vuole molta competenza. Ho compiuto cinquant’anni. Credo di aver cominciato a capire come funziona il mio di lavoro, nel senso di trarne delle soddisfazioni e a comprendere come rendere di più i personaggi che interpreto. Basta una cosa fatta bene e allora abbiamo dato il nostro piccolo contributo a un’arte o sei veramente un genio oppure è meglio non sprecare carta andando a riempire gli scaffali delle librerie con un romanzetto».
D: Si è cimentato nella regia de “La luna e i falò” con Andrea Bosca
«Sì, perché prima ancora avevo curato l’adattamento dal romanzo al teatro e la regia di un mio spettacolo. La stessa produttrice (Bam Teatro, nda) mi ha chiesto se volessi curare la regia a un mio collega e l’ho fatto con grandissimo piacere (prossima data il 19 novembre al Maggiore di Verbania per il Pavese Festival OFF, nda)».
D: Visto il suo approccio, mi sembra molto importante questa esperienza di insegnamento alla Silvio d’Amico.
«Da una parte ti porta a rivedere tutto e quindi è molto interessante per te. Dall’altra, però, mi rendo conto di quanto l’attore sia da giovane terrorizzato di dover compiacere, di doversi comportare bene, di doverla fare bene e questo atteggiamento porta a essere impersonale. Nel mio mestiere ho capito che è tutto un lavoro di conquista di fiducia nei propri mezzi e non fingere».
D: Si è diplomato lì nel ’98, immagino che faccia effetto ritornarci da docente.
«Sì e ti rendi conto che tocca a noi prendere questo testimone e provare a fare del bene per questi ragazzi. Io a loro dico: sono un vostro collega più grande, che ha un po’ di esperienza e cerca di trasmetterla».
I progetti televisivi
“BRENNERO”
D: È come se ci siano varie sfaccettature del senso di giustizia, compresa quella declinata dal suo personaggio in quanto cerca di riprendersi ciò che gli è stato tolto
«Mi è piaciuto tantissimo il percorso che, all’inizio della serie, viene raccontato come il mostro che uccide; quando compare pensi che sia un sadico che lo fa perché gli piace uccidere. Alla fine, man mano che i tasselli si vanno aggiungendo, l’ispettore Paolo Costa, interpretato da Matteo Martari, scopre invece molto di più. Per lui è molto difficile lasciare da parte il pregiudizio anche perché per inseguire questa persona ha perso una fidanzata, ha perso una gamba; qualcosa si fa strada dentro di lui. D’altra parte non volevo neanche che fosse un personaggio buono, è uno che comunque ha preso gusto ad essere un mostro, con problemi relazionali – lo conferma la moglie nell’incontro che ha con l’ispettore Costa, quando ha saputo di essere diventato papà è scappato (avendo un problema col padre, adesso ha un problema con la propria di paternità). Ci sono delle scene molto belle, anche con il ruolo incarnato da Martari (non voglio spoilerare): i due in qualche modo si rispettano e hanno la possibilità di evolversi. Il senso di giustizia non è totalmente consapevole perché lo porta a pensare che sia giusto quello che fa, nonostante significhi uccidere delle persone, ma per lui non sono solo persone, sono dei carnefici. Non siamo in un western o in quei film in cui ci sono i buoni e i cattivi; per fortuna non siamo all’interno di quella narrazione e qui è chiaro che uccidere non va bene, quindi non staremmo mai dalla parte del mostro. Mi affascina che il mostro è oltranzista in questo, crede in quello che fa e quando viene tradito si legge la disperazione sul suo volto».
D: Anche se declinata diversamente torna anche in questo caso la questione dei disturbi
«Per me è stato un viaggio bellissimo poter vestire i panni di questo personaggio. Non era detto perché nel modo in cui vengo visto, sono un buono, un papà, un lavoratore, un idealista. L’opportunità di interpretare un personaggio così mi ha esaltato, tant’è che adesso mi hanno affidato un ruolo diverso, totalmente negativo».
“LE LIBERE DONNE”
D: Si riferisce a ciò che sta girando?
«Sì interpreto un uomo violento con le donne, avido, con una malattia insanabile che si scopre a poco a poco. Mi piace, ogni tanto, fare incursione in questo tipo di panni. Lino Guanciale è il protagonista di questa serie tratta dal romanzo di Mario Tobino; io sono il marito della protagonista femminile, che è vittima della follia di questa donna, invece, pian piano si scopre che l’ha spinta lui verso la follia».
”I FRATELLI CORSARO”
D: A proposito di senso giustizia, ne “I fratelli Corsaro” interpreta un penalista
«Ne ho parlato con amici che praticano questa professione. Non ci si trova sempre a che fare con la vittima innocente, ma anche con mascalzoni che, da un lato hanno diritto alla difesa, dall’altro cerca di trovare tutti i cavilli per poterla fare franca. Per cui esiste l’avvocato che dice di sì e manovra per coprirti, e l’avvocato che, invece, magari rifiuta il caso perché non vuole avere a che fare con un cliente che non gli piace, sa che ci guadagnerebbe dei soldi, ma poi si ritroverebbe con la coscienza sporca. È un mestiere che si può fare con coscienza o senza e di fatto Roberto Corsaro sta molto attento alle persone che sceglie. Trovandoci in Sicilia, una cosa che ha contraddistinto anche il padre (quindi una linea della famiglia) è quella di non avere a che fare con i mafiosi. Verrà fuori un personaggio molto ambiguo, questo latitante, che sulla tomba del padre si presenta e dice che gli deve tutto e quindi comincia questa ricerca interna per cercare di capire chi è questa persona e se c’è qualcosa da scoprire nel passato del padre».
D: La serie è tratta dai romanzi di Salvo Toscano, che nasce come giornalista, si laurea in giurisprudenza e conosce bene la realtà siciliana. Questo aspetto tu l’ha avvertito?
«Da giornalista è uno che sta per strada, che conosce tanti fatti, luoghi e persone per cui quando costruisce le trame gialle ti sembra di vederli quei posti. Li descrive con grande cura per il dettaglio e fa vivere dei mondi che sono sempre diversi. Mi è piaciuto che molte volte questi mondi provengano dall’umanità più spicciola: gli invisibili, gente che non capita mai di incrociare nella vita e che si occupa dei mestieri più umili. Da una parte c’è la Palermo bella, più fotografica, dall’altra però ti muovi anche negli interni più anonimi, meno esplorati, quindi da questo punto di vista è molto interessante visivamente la serie e la storia. Ci tengo a sottolineare è che sono molto contento del fatto che quando tu fai un film sulla mafia (ne ho fatti tanti ed importantissimo continuare a raccontarla), però è un fenomeno che ha interessato gli ultimi ottant’anni della città eppure l’ha condizionata in maniera quasi inesorabile. La stessa inquadratura, ma ci metti accanto una musica drammatica oppure una più allegra, è chiaro che restituisci un ritratto di un luogo completamente diverso. Forse è anche giusto restituire questa città alla sua bellezza, anche con dei racconti diversi e quindi con questa serie noi, secondo me, diamo un bel contributo all’immagine della città. Questo, da palermitano, mi fa molto piacere perché ho vissuto molto da vicino le storie della mafia e parlo proprio da cittadino, ho, però, anche vissuto da sempre in una città bellissima e continuo a vivere in una città bellissima, che va avanti, esiste ed è magnifica anche al di là della mafia. Ciò non significa disconoscere il fenomeno mafioso, ma è voler rendere anche giustizia non solo alla città ma anche alle persone che tutti i giorni la abitano, ci lavorano e si battono perché sia una città più bella, più funzionante, più civile».
”I LEONI DI SICILIA”
D: Concludiamo questo percorso con Ignazio Florio ne “I leoni di Sicilia”, si può dire che, pur essendo un commerciante, viene prima il rapporto umano
«Certamente risalta questo aspetto, soprattutto nel confronto col fratello, che invece sembra essere venuto da un altro secolo (forse perché è cresciuto nella durezza e nella povertà, è quasi un padre padrone). Ignazio è una persona più moderna e più vicina alla sensibilità romantica dell’Ottocento. Non so se abbia mai ascoltato Schubert, però se l’avesse fatto lo avrebbe capito. A me ha ispirato molto quel mondo lì, in cui il secolo si affaccia a una realtà interiore molto più bisognosa di emozioni come spirito guida. Ignazio è anche un bravo commerciante, quando suo fratello muore, la ditta prospera, la bottega diventa più grande. Nella serie non è raccontato, però è implicito. A questo si aggiunge il suo rifiuto di sposare Giuseppina per convenzioni sociali – all’epoca si usava sposare la moglie del fratello morto. Si nega quello che ha di più caro, quello che desidererebbe di più. Ho immaginato che morisse di crepacuore».
Ph cover: Valentina Glorioso