“Police” (tit. internazionale “Night Shift”) è un thriller poliziesco che si distingue rispetto a ciò a cui siamo abituati in merito a questo genere. Dopo la prima all’ultima Berlinale e il passaggio al Quebec City International Film Festival, è stato presentato nella sezione ‘Anteprime Internazionali’ al Bif&st – Bari International Film Festival 2020.
Police con Omar Sy: sinossi
Tre agenti di polizia sono incaricati di scortare un migrante illegale all’aeroporto Charles de Gaulle, dove sarà rimpatriato a forza con un aereo. Quando però gli agenti scoprono la verità, dovranno prendere una decisione difficile.
Police: trailer del film
La recensione di Police
Quando pensiamo ad Omar Sy vengono immediatamente in mente due sue opere ormai cult – “Quasi amici” (2011) e “Mister Chocolat” (per cui ha ricevuto la nomination come miglior attore ai Cesar 2017). Lui stesso è la dimostrazione vivente di come grazie al sorriso si possa uscire dalle banlieu parigine e conquistare il proprio posto nel mondo – in questo caso quello cinematografico.
Da una regista come Anne Fontaine (recentemente la ricordiamo per il suo “Agnus Dei”, in cui narra il dramma di un convento di suore nella Polonia del ’45) non potevamo aspettarci il ‘solito’ thriller poliziesco, in quanto nella sua filmografia, pur attraversando diversi generi, ha dimostrato di avere molto a cuore una questione: le relazioni umane.
Così “Police” (tratto dall’omonimo romanzo di Hugo Boris, “Night Shift”) da cui si è presa delle libertà insieme alla co-sceneggiatrice Claire Barré) si presenta, sin dai primi minuti, come un thriller poliziesco con una struttura che vuole essere differente da quella a cui siamo abituati. Il fulcro è la giornata di tre agenti di polizia parigini, Virginie (Virginie Efira), Erik (Grégory Gadebois) e Aristide (un Omar Sy insolito rispetto ai ruoli in cui si è cimentato fino ad ora e che grazie alla Fontaine esplora altre corde). Quando dovrebbero smontare vengono chiamati per un intervento straordinario durante una rivolta in carcere e incaricati di scortare fino all’aeroporto un immigrato clandestino, Tohirov, per il rimpatrio in Tagikistan.
La regista ci presenta i nostri protagonisti anche in relazione al proprio privato, assumendo di volta in volta, la prospettiva di uno dei tre (bastano pochi, ma significativi momenti e/o dialoghi che li inquadriamo nel loro quotidiano, comprese le questioni irrisolte e dolenti). Il plot, per come è stato concepito, ci fa cogliere come dietro alla divisa ci siano uomini e donne con le proprie disfunzioni familiari e con intrecci sul lavoro.
Un tasto ancor più fondamentale, però, è la decisione di raffigurarli sì come appartenenti a un corpo poliziesco, ma anche come esseri umani con una propria testa pensante. Durante il cammino verso l’aeroporto scoprono, infatti, le torture subite dal prigioniero e il rischio che, facendo ritorno nel suo Paese, venga ucciso (input che proviene, non a caso, dalla donna). Solo il quarto capitolo concerne più da vicino il prigioniero (a cui dà volto l’attore iraniano Payman Maadi, molto apprezzato in “Una separazione” e punta sull’acceleratore in merito a una scelta da compiere.
Spesso la figura del poliziotto viene messa in discussione (certo anche con cognizione di causa se pensiamo al recente episodio oltreoceano con la morte dell’afroamericano George Floyd), ma la cineasta lussemburghese con questo lungometraggio vuole portare a riflettere lo spettatore su un dato di fatto: non si può generalizzare né in un senso né nell’altro. Spesso se si verifica ciò che non dovrebbe accadere è a causa della mela marcia, di chi perde il controllo – e non dovrebbe farlo. Nel suo lungometraggio assistiamo a un’operazione in cui si vogliono trasmettere le sfumature di chi rappresenta le forze dell’ordine. Lo spettatore si ritrova a seguire la traiettoria umana, a porsi delle domande alle quali, in altri contesti, ci sarebbero state presentate già le risposte.
Su questa linea principale, però, s’inseriscono dei flashback «quasi sensoriali, e riguardano soprattutto la storia d’amore tra [non ve lo riveliamo] … sono come tocchi di profumo, lampi di colore», rivela la Fontaine, trasmettendo ancora una volta, non solo la sua cifra, ma anche lo sguardo di donna.
Il film, che si rivela un viaggio iniziatico per tutti – compresi noi che assistiamo – si conclude con un senso di speranza, ma vi auguriamo di poterlo scoprire presto in sala. Prendiamo in prestito le parole della stessa cineasta per restituire, in parte, cosa voglia essere “Police” (almeno nelle sue intenzioni – e spesso ci è riuscita): «è un viaggio interiore che pone domande metafisiche. Non è né un thriller né un’analisi sociologica. Un viaggio in cui, mi auguro, si senta un’emozione diversa scivolare nell’ignoto con i personaggi e ci si lasci trasportare dalla loro confusione».