L’“Hamlet” nella visione e direzione di Antonio Latella è ancora più atteso. Il debutto era programmato per il 17 marzo 2020. Lo spettacolo era in prova e proprio in quei giorni iniziavano a farsi largo le prime voci sul covid-19 tanto che il 23 febbraio sono arrivate, come un’‘accetta’ che spezza le speranze e (apparentemente) il lavoro compiuto fino a quel momento, le prime norme per il contenimento della pandemia, che imposero la sospensione delle rappresentazioni. A più di un anno di distanza, “Hamlet” di William Shakespeare, la nuova regia di Antonio Latella per il Piccolo Teatro di Milano si presenta finalmente al pubblico, in prima nazionale, al Piccolo Teatro Studio Melato, dal 5 al 27 giugno.
Abbiamo partecipato alla conferenza stampa di presentazione, un momento importante non solo per condividere alcune delle riflessioni sottese a questa messa in scena, ma anche perché è stata la prima occasione per riunirsi di persona (certo rispettando tutte le norme di sicurezza) e ascoltare anche il nuovo direttore artistico del Piccolo Teatro di Milano, il professor Claudio Longhi, in carica ufficialmente dal 1° dicembre 2020.
La parola al direttore artistico del Piccolo Teatro di Milano e agli ideatori di questo “Hamlet”
CLAUDIO LONGHI, direttore artistico Piccolo Teatro: «È un appuntamento molto importante per noi: le ragioni di soddisfazione sono tante, siamo nel pieno di una tanto agognata riapertura degli spazi della cultura e, in particolare, di quelli teatrali.
Questa è la prima conferenza stampa, da mesi, che riusciamo a proporre in presenza ed è già una prima motivazione di gioia e un segno di dialogo con la comunità e col pubblico che si sta ricostruendo. Un secondo motivo di soddisfazione sta nel fatto che questo appuntamento dell’1 giugno è consacrato ad una riflessione su una nuova produzione e per un teatro è sempre una festa vedere una produzione nascere. Lo spettacolo era già annunciato nel marzo dello scorso anno e poi è arrivata la pandemia: tutto il mondo è rimasto sospeso. Adesso, faticosamente, ci stiamo lasciando un periodo complesso alle spalle e, in questo riavvio, ci sono dei fili che si riannodano nonostante gli strappi che ci sono stati. È significativo che in questa fase di ripartenza ci sia proprio Amleto. Un’ulteriore ragione di gioia è che sia con noi un artista e un amico come Antonio, con tutto il suo gruppo di lavoro: parliamo di un’eccellenza non soltanto del nostro teatro, ma del teatro europeo in generale.
Per un verso il rapporto con Amleto è fondativi per la civiltà teatrale occidentale, può essere letto come una cartina tornasole per leggere i diagrammi evolutivi del linguaggio teatrale della modernità. D’altra parte è un appuntamento importante anche nel percorso di Antonio che ripetutamente si è confrontato con questo materiale, ogni volta traendone possibilità di sguardi e di prospettive sul futuro. Particolarmente significativo credo sia incontrare il materiale come quello di Amleto oggi, è evidente che ci troviamo in una sorta di faglia epocale e di passaggio da un mondo a un altro e, in fondo, questo testo ce lo ricorda. Mi è sempre rimasta impressa una bellissima immagine di Pirandello, il quale, parlando della modernità affermava: “basta uno strappo nel cielo di carta e Oreste diventa Amleto” e dietro quella metafora c’è tanto su cui riflettere. Amleto è anche il testo dello specchio, ci parla della possibilità di guardare, attraverso il teatro, il secolo, la contemporaneità. Credo sia stato suggestivo e affascinante aver attraversato questo materiale sull’orlo dell’abisso, vedendolo dalle due sponde del prima e del dopo. Ci tengo a ringraziare tutti i protagonisti di quest’avventura: il cast (in ordine alfabetico) Anna Coppola, Francesca Cutolo, Flaminia Cuzzoli, Michelangelo Dalisi, Ludovico Fededegni, Francesco Manetti, Fabio Pasquini, Stefano Patti, Federica Rosellini, Andrea Sorrentino. Un grazie va ovviamente a tutti i collaboratori artistici: Federico Bellini, a cui va il merito della nuova traduzione di Amleto che serve per questo allestimento, Linda Dalisi per la drammaturgia, Giuseppe Stellato, Graziella Pepe per i costumi Simone De Angelis per il disegno luci e Franco Visioli per il disegno sonoro».
FEDERICO BELLICI, il traduttore: «Quando Antonio mi ha proposto di tradurre Amleto, io, inconsapevole del compito, ho detto subito sì. Non so quanto abbia impiegato perché è stato probabilmente lo ‘scontro’ più duro. Al tempo stesso penso di aver compreso che sia un’opera che in sostanza prevede il fallimento sia sul piano interpretativo che su quello di rendere oggettiva una traduzione. Shakespeare, a ogni parola, ti mette di fronte a un bivio e lì devi scegliere, è come se l’«essere o non essere» fosse portato in ogni battuta del testo. È stato molto interessante tradurlo perché ho riscoperto parti e momenti a cui non si era prestata particolare attenzione e trovare dimensioni religiose e politiche, che siano differenti da quelle prettamente esistenziali. Si è trattato di un lavoro molto sofferto, la traduzione vale per questo spettacolo, ogni volta che rileggo cambierei qualcosa proprio perché ritengo che non si possa dare Amleto in una sua oggettività. Il testo è oggetto di ricostruzioni, almeno di tre edizioni: dall’in quarto – il cosiddetto bel quarto -, il secondo quarto e l’in folio, che, in qualche modo, cerca di raccogliere il lavoro. Nella mia traduzione ho utilizzato soprattutto il secondo quarto, che gli inglesi ritengono il più completo, con inserimenti dal bel quarto soprattutto quando parla dei clown e, quindi, nella parte relativa alla recitazione: ho pensato fosse importante in un testo che affronta continuamente il rapporto tra verità e menzogna, tra verità e rappresentazione della stessa, vedere quali potessero essere le indicazioni di Shakespeare a riguardo.
Ci troviamo di fronte a un testo che contiene tutto: dall’enfasi lirica alla bestemmia, dalla volgarità alla poesia più alta; noterete delle dissonanze, che la memoria cancella, però, prendendo in prestito la scena dello spettro, dopo averlo visto Amleto afferma: bisogna cancellare dalla memoria tutte le tracce che abbiamo copiato dalla nostra giovinezza. Quindi implicitamente ci dice di affrontare quest’opera come radicalmente inedita – e per me lo è, è come se non l’avessi mai letta. Ho cercato di prestare attenzione ad alcuni personaggi che, a volte, apparivano secondari come Rinaldo, il quale probabilmente ha origine da Reginaldus Gonsalvius Montanus, uno dei massimi critici dell’inquisizione spagnola, infatti viene mandato a fare un’inquisizione da Polonio, passando per Osrico fino alle ballate, di cui ho provato a restituire la distinzione tra rima e verso. Non mi sono impegnato nel riprodurre il blanck verse shakespeariano – che non credo corrisponda al nostro endecasillabo né che fosse un’operazione adeguata – ho mantenuto la rima dove c’era e l’assonanza il più possibile perché anche questo va a incidere nel rapporto verità-menzogna: ogni volta che si parla in rima chissà se è vero? Chissà se è la dimensione pubblica o privata?
Si potrà riscontrare anche un’attenzione molto particolare nei confronti della pratica teatrale, in realtà è uno studio rispetto soprattutto al Globe di Londra: esiste un monologo nell’atto II in cui Shakespeare descrive – secondo i commentatori inglesi – esattamente il Globe, col firmamento. Con questo si capisce che non si parla di teatro laddove entrano gli attori, ma dalla prima battuta fino all’ultima. Un altro aspetto fondamentale è stata la ricerca delle didascalie, a volte da ricostruire perché qualcosa era andata perduta. È stato un tentativo ‘fallimentare’ che vale per oggi, per il punto a cui personalmente sono arrivato».
ANTONIO LATELLA, il regista: «Stavo giocando sulla parola vedere perché per me è molto interessante rispetto a questo spettacolo, che si divide in due serate: una in cui non si vede, nel senso che sono le parole che entrano in comunione col pubblico; l’altra dove si vede molto, ci sono molto teatro e tanta azione.
“Fermati, illusione.
Se possiedi un qualche suono o l’uso della voce, parlami.
Se c’è qualcosa di buono da fare
che a te possa dar pace e a me perdono,
parlami
Se sei al corrente del destino del tuo Paese,
che, prevedendolo, si possa efficacemente evitarlo,
parla.
O se in vita hai accumulato tesori illeciti dal ventre della terra,
per cui, si dice voi spiriti spesso vagate nella morte,
parlane.
Fermati e parla”.
Il gallo canta
Mi piacerebbe ci fosse qualcuno che parlasse e questo spettacolo, secondo me, parla diretto e con semplicità. Ci dice tante cose e forse, la cosa interessante, consisterebbe nel provare ad ascoltarlo in un modo diverso. Probabilmente l’età mi ha aiutato ad ascoltarlo in un modo nuovo, ogni volta che lo leggi nel tempo, è differente. Questa è la terza volta che mi approccio, credo di non aver mai rappresentato ‘bene’ Amleto, ma li ho sempre fatti per studiarlo. Non so se questo l’ho fatto bene, però mi sono posto il più possibile nella posizione dell’ascoltatore, a sentirlo in un modo nuovo – accade grazie alla traduzione di Federico – ed è quello che in qualche modo chiedo al pubblico: mettersi in una condizione di ascolto.
C’è una battuta bellissima in cui Amleto dice: “Ho bisogno di essere vuoto”. Credo che da questo si possa partire, dal bisogno di sentirsi vuoti per essere riempiti e questa è l’operazione che abbiamo tentato. Io consiglio sempre di guardarlo in maratona poiché il viaggio è chiaro; in due serate è più difficile e scatta anche il giudizio. Il punto centrale è che Amleto sia interpretato da una donna, Federica Rosellini; così come Anna Coppola fa lo spettro quindi Amleto-padre. Questa decisione non è dipesa dal farsi venire un’idea particolare, semplicemente credo che le parole non abbiano genere né organo sessuale, le parole appartengono a tutti e soprattutto non mi interessava un’identificazione con l’Amleto personaggio, ma col testo Amleto. Ritengo che possa essere una bella e dolce festa per il teatro in questo momento.
Vi troverete di fronte a una straordinaria compagnia: bravissimi attori che incarnano quello che io penso debba essere un attore: a servizio di un’operazione, mai sopra».
Q&A tra i giornalisti e Antonio Latella
D: Ha accennato ai personaggi minori, potrebbe approfondire maggiormente?
«Ci sono davvero piccoli taglietti, ma ci sono tutti i personaggi – ovviamente sussistono dei giochi teatrali perché il gioco è la macchina del teatro, che diventa colui che svela o forse rivela, però non manca alcun personaggio. Alcuni interpreti come Andrea Sorrentino ne deve fare diversi ed è un gioco sul bipolarismo del testo più che del personaggio: ogni personaggio è sempre l’altra parte di te stesso che risponde in positivo o in negativo. Il lavoro sul doppio è molto forte anche nell’allestimento: la prima parte è il lato di una medaglia; la seconda è l’altro lato, è molto teatrale in quanto non mi interessava la follia di Amleto, ma quella del Paese, della Danimarca. Nel momento in cui colui che pensa e ragiona viene allontanato dal proprio Paese, quest’ultimo è in balia della propria follia e quindi la seconda parte è dichiaratamente folle, dividerà tantissimo, ma è questo il gioco».
D: In che relazione vi siete posti rispetto alle tante rappresentazioni di questo grande classico che ci sono state all’interno della storia del teatro, ma anche di quelle che non ci sono state se pensiamo che né Strehler né Ronconi abbiano mai messo in scena Amleto.
«C’è stato un lavoro incredibile di Linda Dalisi, la quale ha lavorato da drammaturg e non in un’ottica di adattamento del testo, che ha portato materiale alla compagnia per quasi un mese. Ogni giorno ci raccontava l’Amleto di un grande maestro o di qualche piccolo paese. Gli attori hanno avuto una mappatura di ciò che è stato fatto. Io non posso nascondere che il giorno in cui ho veramente deciso di fare il regista stavo assistendo all’Amleto di Nekrošius. Per quanto riguarda i grandi maestri citati, a cui aggiungo Massimo Castri, a cui fu chiesto come mai non facesse uno Shakespeare, lui rispose: è tutto scritto. Un regista come lui che lavorava sul non detto, non lo trovava interessante. Io, in questo momento, preferisco quello che viene detto bene, più che il sottotesto. Non puoi piegare le parole alla tua psicologia, sono le parole che fanno il personaggio per cui, personalmente, di fronte a un manifesto come l’Amleto che ti parla la questione è provare ad ascoltare. Ho veramente azzerato come se non l’avessi mai fatto.
Mi ero ripromesso di farlo ogni dieci anni, in questo caso sono trascorsi trent’anni».
D: Antonio, ti prendi i tempi che ti servono e soprattutto con Amleto questa caratteristica si va ad esplicitare in modo più evidente rispetto ad altri tuoi lavori – mi riferisco alla maratona di Torino dei 12 Amleti che durava 24h. Questa volta siamo a teatro per circa 7h (un’ora di pausa, nda), in quanto regista come senti di doverti rapportare con gli spettatori, attraverso il tempo.
«La questione del tempo è qualcosa di fondamentale per quanto mi riguarda. Io detesto il tempo teatrale, pensare che un’opera debba stare entro tot tempo per permettere agli spettatori di andare a prendere la metropolitana sennò la sera non può tornare a casa. La scelta di andare a teatro e ascoltare le parole è una scelta politica, per la propria anima, non è una scelta: tra venticinque minuti ho la metropolitana perché vuol dire che non ti stai regalando niente se rifletti così. Questo è il mio pensiero rispetto al rapporto col pubblico. Quest’ultimo è molto più intelligente rispetto a quello che pensiamo, le maratone a cui ho assistito sono state straordinarie perché gli spettatori accettano la catarsi, è questa che ti permette di sorprenderti e di trovare in te zone di tempo che non conosci. È interessante mettere il pubblico davanti a un tempo non teatrale, ma realistico, nel senso di tempo reale. Gli spettatori si spaventano del tempo reale perché lo riconoscono, ne hanno paura e si annoiano, ma il tempo reale è la nostra vita per cui è l’accettazione della nostra noia».
D: Potresti approfondire la funzione dei costumi che a un certo punto appaiono in maniera fantasmagorica?
«La prima parte è in bianco: sono tutti con un abito da uomo che potrebbe essere delle mie misure, ad alcuni starà molto grande, l’unico che indossa perfettamente questo abito è lo spettro e quindi Anna/il padre. La seconda parte, per me il tema è la madre, perciò hanno degli abiti neri che richiamano le movenze dell’abito femminile, sembrano dei monaci luterani.
C’è un saluto e un’evocazione ai maestri. Per me è importante che i fantasmi siano la nostra storia, la tradizione, la memoria, che in alcuni momenti possano essere delle porte verso nuovi mondi e, in altri, possono essere dei sipari che non ci permettono di vedere oltre».
«Oggi la nostra responsabilità consiste nel pensare tantissimo al pubblico. Non è scontato che torni a teatro, che ci ami, ma oggi tocca a noi pensare agli spettatori in tutti i modi; io, però, voglio anche credere che c’è anche un pubblico che alla mascherina preferirà l’ascolto. Ne sono sicuro soprattutto in questo momento dove il resto è silenzio ci ha accompagnato per un anno e mezzo e non abbiamo parlato. Avere la possibilità di ascoltare ritengo che sia un regalo che dobbiamo farci e spero che questo accada».