RAPHAEL TOBIA VOGEL ci aveva già colpiti debuttando con la sua prima regia teatrale con “Per strada”, scritto da Francesco Brandi, interprete insieme a Francesco Sferrazza Papa. Negli anni ha continuato a sperimentare e in questa stagione 2021-2022 è tornato a dirigere un testo di Brandi, “Mutuo Soccorso”, che tocca questioni a noi molto vicine.
Raphael Tobia Vogel: intervista su “Mutuo Soccorso”
D: Partendo dal presupposto che il linguaggio teatrale e quello cinematografico siano differenti, spesso si sono incontrati nelle tue regie. Quali sono stati i vasi comunicanti in quest’ultimo lavoro e come scegli di optare maggiormente il cinema attraverso lo schermo?
«Per “Mutuo soccorso”, sul fronte prettamente estetico, l’utilizzo del cinema e del video è pari quasi a zero rispetto ad altre produzioni come “Per strada”, “Marjorie Prime” e come sarà per il nuovo lavoro registico, “Costellazioni”, dove so già che utilizzerò molto il linguaggio del video sul piano scenografico. Tornando alla pièce in scena (dall’8 al 24 ottobre 2021 al Franco Parenti di Milano, nda) a livello estetico ci sono poche influenze, ma sul piano registico o comunque di gusto innanzitutto il girevole scelto per rappresentare i tre luoghi principali della commedia consente un cambio di scena che al cinema chiameremmo location a cui non ero abituato – non avevo ancora lavorato con questa scelta scenotecnica, mi ha molto appassionato perché mi ha consentito di creare un meccanismo di frammentazione tipico della Settima Arte, in cui facciamo vedere solo una mattinata nel corso di tutto lo spettacolo, ma nella scelta dei luoghi e di come questi separino i personaggi tra loro ci dà la possibilità magari di mettere maggiormente in risalto delle dinamiche personali o alcune introspezioni psicologiche che con una scenografia statica non verrebbero fuori. Sul fronte registico e di direzione degli attori il cinema ti consente, con la scelta dell’inquadratura, di indirizzare in qualche modo il pubblico verso quello che ritieni sia più importante; nel teatro mi devo sempre abituare all’idea che ogni spettatore deciderà di dare maggiore importanza a una cosa diversa – non necessariamente guarderà la persona che sta parlando – perciò, nella costruzione di alcune controscene e reazioni dei personaggi a quello che viene detto così come di sguardi di malinconia nel vuoto o sguardi di morte nei confronti di un vicino odiato o di un compagno di vita che ormai ha stufato, una scena così costruita permette una maggiore libertà allo spettatore di godersi dei dettagli che altrimenti andrebbero persi».
Gli attori di “Mutuo Soccorso”
D: La compagnia, ben assortita e che cavalca il ritmo del testo, l’hai scelta con Brandi?
«Si è trattato di un insieme di fattori. Per le parti dei due anziani Francesco si è ispirato proprio agli attori con cui avevamo già lavorato: conoscendoli ormai vivamente, ha avuto modo di sottolineare i loro punti di forza basti pensare all’estro creativo un po’ pazzariello di Daniela Piperno e alla professionalità e la qualità massima di Miro Landoni – uno scorbutico come interpreta nei testi di Francesco. Ci eravamo trovati molto bene pure con Silvia Giulia Mendola, la quale aveva sostituito nella ripresa di “Buon anno, ragazzi” Sara Putignano. Sicuramente c’è stata una decisione preventiva da parte di entrambi rispetto a quando abbiamo iniziato le prove; in più scattano dei meccanismi produttivi del teatro stesso nel sapere che creare in qualche maniera una squadra, una ‘famiglia’ che già ha funzionato in passato, oltre a essere utile a noi, può forse esserlo anche per il pubblico poiché può dar vita a simpatie e risonanze coi testi di Francesco».
Il sodalizio con Francesco Brandi
D: A proposito di crescita, pensando al sodalizio con Brandi: quanto ti sta mettendo alla prova e, allo stesso tempo, quanto, invece, tu stai facendo crescere lui?
«Non ho mai riflettuto in merito perché, in parallelo alla teoria del consenso esplicitata in “Mutuo soccorso”, tendo a essere un grande uomo di pace e non mi metto mai a creare diciamo rivalità, giochi di potere o di supremazia di una persona sull’altra… questo è anche dovuto al fatto che con Francesco siamo molto amici Francesco, mi fido di lui sia umanamente che artisticamente quindi non si potrebbe innescare mai un gioco di potere o a chi riesce ad imporre maggiormente la propria parola o visione. La fortuna vuole che abbiamo gusti abbastanza simili, passioni in comune com’è quella del calcio affrontata in questo spettacolo, ma anche un tipo di humor che amiamo: un po’ tagliente e cinico, ereditato dall’immenso Woody Allen per quanto nessuno di noi arriverà mai neanche a un decimo di quello che ha fatto lui. Tutto ciò fa sì che cresciamo vicendevolmente.
Rispetto a quest’ultima esperienza erano trascorsi un po’ di anni dall’ultima volta in cui abbiamo realizzato un nuovo spettacolo insieme e, dopo un periodo complicato come quello del covid-19, ci siamo dovuti mettere in gioco più del solito – da due anni riprendevamo i primi due progetti a cui abbiamo dato corpo, non è mai un processo di pilota automatico, però ormai sapevamo punti di forza e debolezze. Durante “Mutuo soccorso” non abbiamo avuto il pubblico in sala nel corso delle prove, se non alla generale, quindi c’è sempre un poco il brivido del sapere se riusciremo a fare ridere come volevamo o se riusciremo ad affrontare specifici argomenti sottostanti valori e filosofie di vita che tocchino lo spettatore. Ritengo che essendoci una grandissima stima reciproca, ci ha permesso anche di rischiare un po’ di più, mi ha dato il ‘lasciapassare’ per modificare il suo testo senza paura di offenderlo e a lui ha dato modo di pensare un po’ di più, per una volta, a fare l’attore delegando tutto il lato immaginifico, estetico e creativo della scena a me… si è così concentrato maggiormente sui propri punti di forza sia come autore che come interprete, avendo meno la preoccupazione di come sarebbe stato rappresentato il tutto».
D: Tenendo conto di questo vostro connubio, non avete mai pensato di realizzare qualcosa per lo schermo?
«Perché no? Sarebbe un’occasione da non ignorare.
Per quanto riguarda me ho scritto una sceneggiatura con tema fantascientifico, non si sa mai che si crei una possibilità di collaborazione pure in progetti che escono dalla nostra comfort zone».
L’esperienza cinematografica di Raphael Tobia Vogel
D: Pensando al tuo background e, in particolare, non solo all’essere stato assistente sia di Pupi Avati che di Gabriele Salvatores, ma all’aver fatto parte anche della crew di “Miracolo a Sant’Anna” diretto da Spike Lee… Spesso si afferma che si nota la differenza di set e di approccio, cosa ti sei portato da tutto questo?
«Nell’assistenza e nell’aiuto alla regia per fare molto bene il tuo lavoro devi sacrificare a volte il desiderio di stare a fianco al regista e al poter ‘rubacchiare’ i suoi segreti in quanto devi comunicare con vari reparti e tenere degli orari fissi e molto attenti e non sempre ti puoi godere, da cinefilo, di stare vicino a questi registi. Sicuramente nell’ottica di Avati e Salvatores sono dei grandi maestri e autori, bravissimi nel dirigere gli interpreti e nel creare un clima eccezionale sul set; forse il grosso limite rispetto a una produzione gigantesca com’era “Miracolo a Sant’Anna” o com’è lavorare con un regista come Spike Lee consiste proprio in un fattore di production value poiché parliamo (nei casi italiani citati – e non solo, nda) di budget davvero minore, una crew abbastanza inferiore numericamente, fotograficamente ci concentriamo più su raccontare i personaggi e meno sul mostrare dei luoghi eccelsi o delle esplosioni continue. Indubbiamente il divario c’è: vedere una macchina da set com’è stato “Miracolo a Sant’Anna”, su cui c’erano tra le 200 e le 300 persone che ci lavoravano ogni giorno, ti fa sicuramente capire la distanza abissale che esiste con Hollywood; ci tengo però a dire che, ad esempio, il modo in cui ho molto apprezzato la genialità di Spike Lee mentre si imbucava ‘illegalmente’, a fine riprese, per osservare i giornalieri, dove con un laser in mano indicava a una velocità supersonica tutti gli errori che c’erano nei movimenti delle comparse, nelle esplosioni non andate a buon fine o gli errori di fuoco del fuochista o dell’operatore, quindi vedere in diretta la velocità con cui notava degli errori che al 90% di noi passavano inosservati mi ha comunicato quanto fosse geniale. Certo stiamo parlano di un film sulla guerra, era immenso e c’erano troppe differenze per poterlo confrontare con le mie altre esperienze; ma di sicuro è stata una grande crescita anche solo nello scoprire com’è veramente un set americano rispetto a quelli a cui siamo abituati noi».
100% di capienza a teatro
D: Si è arrivati finalmente al 100% di capienza delle sale teatrali e cinematografiche. In questo periodo la mia percezione è stata quella di dover riconquistare il pubblico nell’andare nei luoghi chiusi, anche se questa ritrosia non scatta tanto rispetto ai ristoranti. Cosa si potrebbe fare sia rispetto ai tuoi coetanei e ai giovanissimi che dai cinquantenni in poi?
«Il primo lockdown e il periodo immediatamente successivo il mondo del teatro ha molto sofferto e ha provato tanta paura. Anch’io, non nego che temevo per la sopravvivenza di questa arte antica, vitale e importantissima perché vedevo tanta paura nelle persone, notavo che il ruolo dell’arte e della cultura veniva molto sottovalutato – considerato come un divertissement, come bonus, come qualcosa di piacevole, ma non di necessario. Non era preso sul serio né come lavoro né a livello valoriale d’importanza che può avere nel sociale, come evasione o come catarsi. Innegabilmente ritrovo anche tra i miei amici ancora qualche chiusura e freddezza nel riabituarsi alle aperture, nell’uscire con più persone, nel mettersi in gioco come si dava per scontato una volta e adesso non più.
Sono stato piacevolmente sorpreso perché temevo che questo limbo di vuoto e di incertezza andasse avanti di più e mi rassicura osservare che, con l’aumento della capienza al 100%, in realtà, considerando questi giorni di spettacolo, la gente si sia fiondata.
Di sicuro la nostra decisione di fare uno spettacolo leggero era parte integrante del voler distrarre il pubblico dall’epoca buia e cupa e vedere che anche con indosso le mascherine si sente comunque la risata di gusto, che l’energia con l’attore è rimasta la stessa così come l’energia con la persona che ci si trova a fianco ti contagia e persino le persone che magari partono un po’ chiuse o fredde – anche perché magari è il primo spettacolo che vedono da quando siamo tornati a far teatro – si lasciano andare di più nel sentirsi una grande famiglia. Sono fiero del nostro pubblico e mi auguro che continui!»
“Marjorie Prime” e la ripresa nella stagione 2021-22
D: In merito a “Marjorie prime”, in cui vengono affrontati temi essenziali e toccanti (dall’intelligenza artificiale alla solitudine), riprendendolo a distanza, proprio avendo avuto questo tempo di sospensione e di dolore, metteresti degli accenti su qualcosa di particolare rispetto alla prima messa in scena?
«I temi legati all’anzianità della protagonista, in particolare in relazione a malinconia, solitudine e al rapporto con la memoria, con quest’ultima che è focale visto l’alzheimer che l’attanaglia, dopo il periodo vissuto, acquistano una valenza molto più forte. Di sicuro gli anziani sono stati le vittime ‘predilette’ da questa tragedia, che ci ha obbligato a chiuderci nei nostri mondi, invece di portarci a vivere e ad andare contro l’istinto protettivo di sopravvivenza e di paura che, soprattutto all’inizio della pandemia, ci schiacciava.
Di Marjorie potremmo sottolineare maggiormente il suo spirito vitale nonostante l’età, la sua voglia di continuare a vivere, di sentirsi giovane e ancora un’ape regina al centro della propria famiglia, della malinconia che il vuoto delle persone affianco ci lascia – di conseguenza, in rapporto al covid, non solo per ricordi distanti di una vita diversa ma anche proprio delle compagnie che vengono a mancare per le tragedie di questi ultimi anni. Senza dubbio guarderò tutto con un occhio molto diverso, pure rispetto alla solitudine: Tess stessa – la figlia di Marjorie – è molto più giovane, quindi sulla carta meno vittima di alcune delle insicurezze che l’Alzheimer creava in sua madre, era una persona che da troppo tempo aveva accettato una forma depressiva di chiusura, non usciva con gli amici, preferiva chiudersi nei ricordi invece che pensare al proprio futuro.
Questo periodo certamente ha creato, sottolineato e rafforzato determinate patologie di tristezza, malinconia, depressione e allo stesso tempo ci ha anche fatto pensare al futuro così come al passare del tempo in maniera diversa. Mi auguro che anche l’idea di una seconda vita – ciò che viene chiamato come ‘la rinascita’, la ‘ripartenza’ – possa essere utilizzato per rafforzare le tematiche già esistenti in “Marjorie Prime” arrivando a toccare pure il pubblico più giovanile, che forse non conosceva così tanto queste dinamiche fino al covid».
Raphael T. Vogel e i prossimi progetti
D: Ti sarebbe possibile anticiparci qualcosa dell’idea che hai sulla messa in scena di “Costellazioni”?
«Il testo è di un drammaturgo inglese, Nick Payne. Si tratta di una storia d’amore tra due personaggi nella cornice della fisica quantistica: più nello specifico tratta della teoria dei molti mondi secondo cui qualunque decisione che prendiamo e qualsiasi azione che compiamo crea un’infinità di universi paralleli in cui ci saranno dei dettagli diversi che creeranno un meccanismo causa-effetto, in cui in un mondo queste due persone si sono innamorate, in un altro si sono sposate, in un altro si sono incontrate ma mai piaciute e via dicendo – non voglio spoilerare troppo.
Sul piano drammaturgico ha degli stimoli molto interessanti perché per dimostrare queste scissioni tra i vari mondi tutte le scene reiniziano da capo, a metà, quando meno te lo aspetti, con pochi dettagli cambiati, tanto che può sembrare una sorta di bug, di errore computeristico-digitale, in realtà mostrano il meccanismo del battito di ali della farfalla e di quanto poco basti a cambiare i nostri destini.
Avrà ben poco delle risate di “Mutuo soccorso”, ma tante tematiche più profonde che non vedo l’ora di affrontare. Sul fronte visivo – sono agli inizi per cui non ho ancora fatto un pensiero approfondito – essendoci molte location diverse diremmo al cinema, è molto probabile un ritorno alla mia passione cinematografica e al mio estro visivo».
D: Qual è l’obiettivo a breve termine su cui hai voglia di metterti in gioco?
«Non vedo l’ora di realizzare “Costellazioni” e subito dopo fremo dal volermi cimentare nuovamente con la mia passione per il cinema e il documentario che ormai ho abbandonato da un po’ di tempo – rappresenta uno stimolo creativo che a me serve per crescere, per mettermi un po’ in discussione, uscire dalla zona di comfort e pensare in modo un po’ più laterale e più aperto al mio futuro per cui non vedo l’ora di tornare a fare regie video e magari riuscire a portare sullo schermo la sceneggiatura che ho scritto… sarebbe un piccolo sogno nel cassetto».
Ph cover di Noemi Ardesi durante il backstage di “Buon anno, ragazzi”