Potrebbe apparire ‘strano’, ma c’è ancora modo che nascano delle sintonie di intenti, oltre che umane. Dopo aver assistito al primo lavoro frutto del quadrivio costituito da Roberto Aldorasi, Alessio Boni, Francesco Niccolini e Marcello Prayer, “I Duellanti”, siamo rimasti ulteriormente colpiti dalla loro versione di “Don Chisciotte” (vista al Manzoni di Milano il 18 gennaio 2022), dove hanno mantenuto l’impostazione – e il desiderio – della regia collettiva.
Abbiamo cominciato con ROBERTO ALDORASI ad approfondire il lavoro compiuto sul romanzo di Cervantes (adattato da Niccolini e su cui tutti e quattro hanno lavorato sul piano drammaturgico). Ci auguriamo che possiate cogliere le varie sfumature di Aldorasi, Boni e Prayer nel modo di raccontarsi sia come registi sia dal punto di vista artistico e umano.
D: Durante l’intervento alla conferenza stampa di presentazione al Teatro Manzoni, mi ha colpita la sua definizione di ‘follia della volontà’, che mi ha fatto pensare ad “Amleto”. Quanta connessione c’è tra la le due follie e quali, invece, sono le differenze?
«La prima cosa che hanno in comune i due è che entrambi, insieme a Don Giovanni e Faust del teatro seicentesco, sono i miti più potenti dell’età moderna. Don Chisciotte è l’unico che nasce all’interno di un testo letterario, anche se – l’ho compreso con questo spettacolo – il tema del romanzo è fortemente teatrale. È un personaggio che ha bisogno del teatro per esistere proprio come Amleto e Don Giovanni».
D: Lei ha anche aggiunto: «Vuole essere pazzo» ed è lì che ho pensato ad Amleto…
«Entrambi hanno bisogno di follia per motivi diversi: Don Chisciotte per trovare un modo di stare al mondo perché rifiuta la realtà in cui è immerso così come la sua persona don Alonso Chisciano, dando vita all’alter ego di Don Chisciotte perché non vuole che il mondo sia solo quello del 1600».
D: Anche Amleto afferma: «C’è del marcio in Danimarca» e sono due opere che escono a distanza di pochissimi anni l’una dall’altra perciò non so quanto si siano ‘influenzati’ a vicenda…
«Suggestionato da questa riflessione, faccio una triangolazione, aggiungendo “È stata la mano di Dio” di Paolo Sorrentino. Verso la fine del film, quando il regista napoletano del film parla con l’attore che interpreta Antonio Capuano, dice spesso questa frase: “La realtà è scadente”, quasi come se il cinema fosse una reazione al fatto che la realtà sia scadente. Credo che per Amleto e Don Chisciotte avvenga la stessa cosa: Amleto si rapporta con una realtà molto violenta e la sua follia è lucida; anche Don Chisciotte sa, ad esempio, che quelli non sono dei giganti, semplicemente vuole mascherare il mondo non per un giorno, ma per tutta la vita. Ritiene appunto che la realtà sia scadente perché è più nobile quella di cui legge nei libri cavallereschi – questo salto è assurdo, che affonda le sue radici proprio nei travestimenti della cultura del carnevale europea, che si è sviluppata dall’antica Roma. È un salto ridicolo e il mascheramento avviene proprio il giorno di carnevale perciò lo spettacolo presenta anche questo tono da festa di piazza, con delle soluzioni sceniche iper semplici e molto dichiarate in quanto è proprio quella coscienza del travestimento carnevalesco che ti permette di sovvertire il mondo per un giorno.
La follia di Amleto è più strategica, però anche in questo caso potremmo dire che si confondono: nel testo di Cervantes ci sono vari punti dove si possono rintracciare le prove che è consapevole di essere arrivato in una misera locanda e non in una corte, non è uno che ha la percezione alterata perciò l’ho definita follia della volontà. La follia di Amleto è più mix di reazione psichica a un forte dolore con una difficoltà di accettazione di una grande violenza, ha maggiormente a che fare con un fondo più scuro di tutto ciò che rimuoviamo perché non riusciamo ancora ad accettare; allo stesso tempo, oltre all’idea che sa di inconscio, in lui c’è un grandissimo principio di lucidità».
D: Alessio Boni durante la presentazione ha affermato: «Il gioco dei giochi»… Effettivamente, torna la questione carnevalesca, che associo anche a una sensazione di artigianalità bella da vedere.
«Se la scena è così artigianale, così scacioppata è perché Don Chisciotte lo è e, in più, non abbiamo trovato nulla di meglio che potesse rappresentare la realtà scadente e surrettizia che ci facciamo. Noi crediamo all’ontologia della realtà, in maniera incrollabile; il teatro ce la restituisce nella sua totale convenzionalità. Noi accettiamo la rappresentazione della realtà per così com’è e quando ci sono dei personaggi che inceppano questo meccanismo di rappresentazione – tipo Don Chisciotte o Ilaria Cucchi, come diceva Alessio, facendo un parallelo – te la mandano in crisi costantemente. Determinate cose esistono soltanto fino a quando nessuno le nega; se c’è anche uno solo che le nega, ci si rende conto che smettono di valere per tutti ed è ‘dinamite’ pura perché è un applicabile a tutto. Ad esempio l’eresia, rispetto a tutto questo sistema di convinzioni acquisite, porta a essere bruciati sul rogo fisico nel ’600 o mediatico – in base all’oscuramento a seconda del tempo».
D: Ripensando al parallelismo con la Cucchi, la prima reazione nei suoi confronti, soprattutto da parte del potere, è andata nella direzione dello screditamento
«È ovvio perché stava per portare avanti l’affermazione di una realtà molto diversa da quella condivisa e ufficiale, cioè che all’interno delle istituzioni possano esistere delle parti malate e marce e che non fosse tutto onore, gloria, spirito di servizio e legalità.
Questa distinzione tra follia della percezione e della volontà viene da un grande studioso di “Don Chisciotte”, un critico spagnolo del secolo scorso, Miguel de Unamuno, il quale opera una critica letteraria a Don Chisciotte in termini religiosi. Se non pensiamo a cristianesimo e cattolicesimo, ma all’approccio spirituale con la realtà, si arriva in un contesto culturale solido, predica l’uguaglianza, sottolinea l’illusorietà di questo mondo. In questa prospettiva, a mio parere, è un paragone bellissimo quello che opera questo critico con la figura del Cristo. Per fortuna esistono queste persone, vere o di finzione, che hanno il potere di sconfessare e imporre delle verifiche alla realtà, ovviamente per chi le vuole sentire…».
D: La questione è, infatti, recepire
«È evidente che questa ricezione non può che avvenire in una geografia umana molto rarefatta, però, al contempo se una persona va a teatro e poi a casa ci pensa o legge qualcosa in particolare e ci riflette, chiaramente non sarà mai qualcosa di largamente condiviso, non lo è mai stato e, forse, è pure giusto che sia così. È impossibile avere una larga condivisione di un atteggiamento spirituale così forte.
Uno spettacolo può comunicare tante cose, può essere fatto più o meno bene; noi magari siamo riusciti a trasmetterle anche in maniera chiara, però poi, come si verifica con un libro, funzionano come specchio: ti aprono in parte la percezione rispetto a qualcosa; ma, dall’altro, qualcosa deve averla dentro anche il pubblico/il lettore di turno per farla entrare in risonanza con qualcosa che vede o legge. Sono sempre più convinto che non siamo noi che andiamo a teatro e osserviamo ciò che avviene sul palco, noi ci sediamo in platea e ci facciamo guardare dentro dallo spettacolo».
D: L’approccio molto puntuale e di ricerca – Boni è stato molto chiaro nel dividere i vostri interventi dal punto di vista registico – le deriva dal fatto che abbia studiato antropologia teatrale?
«Non credo, penso che quegli studi mi abbiano influenzato più sul modo molto concreto di lavorare con gli attori, di mestiere e di artigianato che appartiene a questo lavoro. Ritengo che l’approccio analitico derivi dal carattere».
D: Cosa si porta dell’esperienza con Eugenio Barba e con Corsetti nel momento in cui avete creato questo quadrivio (provenendo da formazioni differenti)?
«Con Marcello dico sempre che siamo ‘cugini’ per quanto proveniamo da percorsi formativi diversi. Lui e Alessio si riferiscono sempre a Orazio Costa; io parlo molto meno di Eugenio perché so che è parte della mia formazione, forse la più importante, ma è entrata insieme a tante altre occasioni – questo, però, è un mio atteggiamento personale. Siamo ‘cugini’ perché Costa era stato un grande frequentatore, oltre che allievo, di Jacques Copeau e, nella formazione di Eugenio, – sicuramente di derivazione polacca-russa – l’esperienza dell’Odin non sarebbe esistita senza Copeau, quando questi, negli anni Venti e Trenta si mosse fuori da Parigi. È stato uno dei registi più ‘eretici’ del ’900, proprio rispetto al modo di far esistere una compagnia di teatro fuori dai teatri. In ordine di tempo e d’importanza, dopo la grande rivoluzione di Stanislavskij, quella di Copeau è stata la più importante.
Del lavoro con Eugenio nel “Don Chisciotte” c’è sicuramente la spinta a inventare; da Giorgio Corsetti ho appreso in primis la conferma che per fare questo mestiere devi sempre osare tanto e devi fidarti delle tue idee spingendole molto per vedere dove vanno a finire. In più da lui ho appreso un aspetto molto pratico: la capacità di gestire processi di lavoro e spettacoli molto grandi e complessi – prima che mi desse fiducia, facendogli da assistente nella prosa e da coreografo nella lirica, non avevo mai gestito spettacolo così complessi. Mi ero approcciato a progetti grandi in Danimarca, ma non erano a teatro, ma di comunità».
D: Se dovesse dire come si mettono insieme quattro teste brillanti, diverse, ma che si completano?
«Con tanto rispetto reciproco, grande apertura e con una buona dose di predisposizione all’incastro. Potrei dire che è un mix anche di condizioni fortuite e poi molto esercizio di ascolto e fiducia reciproci. La prima volta in cui abbiamo iniziato a lavorare a “I Duellanti” era il 2014 e facevamo più fatica a convincerci l’uno dell’altro, da cui è derivato un livello di comunicazione molto più veloce, già constatabile in quest’ultimo spettacolo. Se faremo un nuovo lavoro, sarà sempre più semplice…».
D: State pensando a qualcosa già?
«Stiamo ragionando su dei testi, però non sappiamo ancora e, in più, bisogna vedere i tempi come vanno: non sappiamo se, nel futuro immediato, il teatro d’impresa privata potrà avere spettacoli con 8 o 9 attori».
D: Tornando in parte a monte, se dovesse dire quale sarebbe l’ideale etico ed eroico per cui combatterebbe, cosa risponderebbe?
«Non riesco a dirne uno unico – non riesco mai a fornire risposte molto nette, anche perché la vita muta in continuazione».
D: Aggiungiamo in questo periodo storico-culturale
«Ciò per cui vale la pena lottare tanto è per una rappresentazione della realtà un po’ diversa. Siamo in parte in un passaggio di epoche, la lotta per salvare la maggior parte di cose possibili e portarsele dietro in questa epoca nuova che arriverà: prima tutto il teatro, lo stare insieme nel rito del teatro e la vicinanza dei corpi. Per dirla in maniera donchisciottesca: noi non abbiamo un sufficiente grado di immaginazione per renderci conto di ciò che perdiamo. Il teatro è uno dei pochi presidi della vicinanza fisica dei corpi».
D: «Errare», «maraviglia» e «melanconia» cosa le suggeriscono istintivamente?
«È un trittico di un modo di stare al mondo perché personalmente faccio dell’erranza geografica e lavorativa una regola di vita e quello che mi muove è la melanconia della maraviglia nel senso che sono in costante ricerca di ‘meraviglioso’ (termine che non è uso frequentemente però lo posso utilizzare per raccontare ciò che mi muove). Quando non ho questo contatto con il maraviglioso, ovviamente l’alternativa è la melanconia, che, per me, è quella cosa che nasce rispetto a una mancanza. Non so definire la maraviglia, quando sono meravigliato me ne rendo conto dopo, però è condizione fondamentale per gestire un rapporto più equilibrato possibile – anche se sarà sempre squilibrato – tra la meraviglia, la malinconia e l’errare. Quest’ultimo ritengo che sia essenziale, siamo troppo sedentari, stabili, cittadini. Io sono un grande ammiratore di Bruce Chatwain e della sua filosofia del viaggio».
D: Quindi lei associa l’errare anche in senso metaforico?
«È quell’instabilità, la curiosità alla variazione che ci previene da tanto male, quell’apertura di pensiero. Il genere umano è nato nomade, poi a un tratto si è fermato: lì sono cominciati molti dei suoi mali.
D: In maraviglia o melanconia coglie una differenza pensando anche al fatto che nel testo le abbiate lasciate in questa forma?
«Sono il pieno e il vuoto, una racconta la presenza e l’altra l’assenza di ciò che ci fa capaci di farci battere il cuore. Dette in lingua arcaica mi restituiscono più il senso di categoria dello spirito; se le dicessimo col vocabolario corrente – meraviglia e malinconia – sono parole che si scaricherebbero un po’, evocherebbero qualcosa di più quotidiano. Tutti i sensi accessori che diamo alle parole ci fanno perdere il senso primario, quello di spinta della parola originale. Don Chisciotte non potrebbe fare altrimenti visto che lui è salvo dallo spirito del tempo».
D: «È la più bestiale delle nostre malattie disprezzare il nostro essere», citando una frase molto densa. Mi sembra che non provenga dal romanzo di Cervantes…
«Sì è di Michel de Montaigne. Stavo leggendo un libro, trovai questa frase per caso e la sentì molto vicina a quello che accade a don Alonso Chisciano in punto di morte perché lui rinuncia a tutto quello in cui ha creduto e sente che deve tornare a essere don Alonso in quanto si deve preparare alla morte, che è una cosa seria e non può entrarci a cavallo, con l’armatura, deve entrarci per quello che è. Mi è apparsa, quindi, un’ottima frase per segnare questo giro di boa».
D: L’equilibrismo tra vivere e morire… Le va di ‘impastare le mani’ in questo status in cui si trova Don Chisciotte e in cui ci ritroviamo noi.
«Don Chisciotte muore costantemente: ogni volta che gli viene spaccato un dente, che prende una sassata in testa, in cui viene disarcionato o in cui sbatte il muso contro la realtà; però è davvero una morte di tipo cristologico poiché serve ad affermare l’immortalità… è un po’ la crocifissione del mito di Cristo. Si tratta di una morte soltanto carnale, che serve sempre a un’affermazione d’immortalità spirituale».
Ph cover: Angelo Redaelli