ROSARIO LISMA, con trasporto e una grande convinzione di intenti (poi dimostrati nel risultato) ci ha detto di «voler esaltare il cuore del testo e dell’autore». Stiamo parlando specificatamente di Anton Čechov e di una delle sue opere più note e rappresentate, “Il Giardino dei Ciliegi”, ma siamo consapevoli che questo è l’approccio che adotterebbe anche con altri drammaturghi. Ci ha raccontato che una sua collega gli ha detto queste parole come riscontro parlando dei lavori anche creati ex novo da lui: «Tu scrivi scene che ci fanno ridere, noi ci rilassiamo in quel momento e quando il nostro corpo è in quello stato, infili la spada nel cuore e lì non possiamo più opporre resistenza» e a questa acuta riflessione – che sposiamo, avendo avuto modo di provare anche noi questa sensazione, ha aggiunto: «Non lo faccio apposta, va riconosciuto che siamo così. La mia è una piccola battaglia in solitaria così come, con un po’ di presunzione, volevo rendere onore al ‘povero Čechov’, il quale, scrivendogli, pregava già Stanislavskij, ricordando di aver creato una commedia e che non voleva che la messa in scena suscitasse tutto quel pianto».
Rosario Lisma e la messa in scena de “Il Giardino dei Ciliegi”
D: Nelle note di regia ha dichiarato di voler rilanciare agli spettatori queste domande: «Da una parte quindi i paladini dello spirito, dall’altra quello della materia. Da una parte i falliti, ma che conoscono le ragioni del cuore. Dall’altra il campione della ragione, ma analfabeta dell’anima. E voi? Da che parte siete stati finora? Da che parte volete stare?». Lavorando con la compagnia, quale percezione ha avuto?
«Parlando con qualche spettatore emerge una certa complicità e comprensione nei confronti di Ljuba (Milvia Marigliano) e Gaev (Giovanni Franzoni) soprattutto perché, negli allestimenti che ho visto e leggendo in passato superficialmente il testo, ho notato sempre questo giudizio quasi aprioristico verso la società aristocratica. Questo è derivato da un approccio assunto nel ’900 che, per un’ideologia politico-materialistica influenzata dalla rivoluzione d’ottobre – quindi una lettura storicistica -, vedeva più il tramonto di questa società un po’ imbolsita, sciatta e cinica e, dall’altro lato, l’avanzata di nuove forze come quella capitalistica (rappresentata da Lopachin – interpretato dallo stessso Lisma) o quella idealistica, romantica e socialista di Petr Sergeevič Trofimov (Tano Mongelli). Secondo me questa è una lettura abbastanza limitante, in quanto Čechov non è mai stato uno scrittore politico, a parte nel reportage che realizzò sull’isola di Sachalin sui detenuti in Siberia.
Lui non è Tolstoj, Dostoevskij, non si occupa direttamente di politica né di morale; la sua grandezza e contemporaneità risiede nel raccontare persone, anche esasperandone un po’ sia gli abissi che i lati buffi, sempre con grande affetto e senza mai giudicarli. Non c’è bene da una parte e male dall’altra. Un grande autore come lui non poteva dare una visione così limitata del proprio mondo ecco perché ho pensato che la vera sfida sarebbe stata nell’andare a scandagliare le ragioni ‘folli’ proprio di Ljuba e Gaev e mi sono ritrovato dalla loro parte. Loro scelgono di non scegliere, di non agire per il valore dell’amore, dell’effimero, dello spirito, del ricordo, simboleggiato anche dalla musica – Čechov fa dire a Lopachin: Quale musica? Non sento nessuna musica. Confrontandomi proprio su questo con Peter Stein, il quale è stato mio maestro per alcuni anni, mi ha risposto che Lopachin non sentiva nessuna musica perché è uno stupido… voleva dirmi che non ci arriva all’effimero che, come direbbe, Saint-Exupéry è invisibile agli occhi. Esistono dei piccoli indizi che mi fanno capire come il mondo di Ljuba e Gaev sia quello dell’anima e anche per noi, in questi tempi in cui non abbiamo più orientamenti etici sul bene e sul male e l’unica cosa che ci rimane è domandarci se avremo una pensione o una casa, ci è difficile coglierli rispetto a quei valori. Davvero si deve esaurire la dimensione dell’essere umano tutta nel materialismo? [e rilancia ancora la palla, questa volta ai nostri lettori]».
D: È interessante anche come abbia voluto lavorare su Lopachin, un ruolo troppo spesso indicato come ‘l’arricchito’ ed emergeva meno questa sua incapacità di amare…
«È un analfabeta dei sentimenti. In fondo lui non è arido e Trofimov gli dice: Io ti voglio bene perché tu hai delle dita sottili, hai un’anima delicata, da artista. Questa, secondo me, è la chiave per comprendere Lopachin e il suo rapporto con gli altri. Lui ha una potenzialità dell’anima, ma non l’ha mai coltivata, in quanto è cresciuto in un ambiente ostile a tutto questo essendo stato picchiato sin da piccolo dal padre e dal nonno, l’esempio che ha ricevuto è stato pure quello di un padre alcolizzato; però era attratto da quel mondo dolce degli artisti artici. Anche per queste ragioni ho voluto spingere sulla potenzialità sentimentale nei confronti di Varja (Eleonora Giovanardi). Čechov non fornisce tanti elementi, infatti c’è una grande domanda che ci si può porre ogni volta: ma lui la ama o no? Indagando come se fossimo dei detective all’interno del testo, si possono cogliere diverse tracce a favore della tesi che lui la ami, il punto è che non sa parlare d’amore.
Con Eleonora abbiamo fatto un lavoro bellissimo perché ci siamo molto interrogati e fidati nel cercare insieme questi rapporti anche quando non erano scritti. In parte è attratto da Varja tanto anche da scherzarci, al contempo fugge. Entrambi dicono sempre di avere il culto del lavoro, del fare andare le mani, puntano tutta la loro esistenza sulla laboriosità perché hanno un vuoto relativo all’amore, che non viene riempito… tutto questo è struggente. Desideravo che il pubblico quasi spingesse con le parole, con i pensieri questi due a unirsi. Mi piace pensare che gli spettatori si mettano nei loro panni e dicano: forse anch’io dovrei cercare di non compiere gli errori che stanno facendo questi personaggi. Lo stesso autore diceva: Io voglio mostrare agli esseri umani come sono fatti, solo così essi potranno migliorare la loro condizione e questo è il motivo principale per cui voglio affrontare Čechov e, in generale, il teatro».
D: «Nell’uomo muore tutto ciò che è legato ai cinque sensi. Quel che sta oltre è probabilmente enorme, inimmaginabile, sublime e sopravvive», scrive nei suoi Quaderni. Ciò che è oltre si può collegare al lavoro teatrale?
«Secondo me sì. Anche il lavoro teatrale così come tutto ciò che è immateriale, come la musica, la poesia, non lo si può contenere in uno studio legato a qualcosa di tangibile. Lo spirito che ci attraversa nella nostra vita su questa terra è manifestato da alcuni misteri incredibili costituiti dalle arti, che non finiscono con i corpi degli esseri umani. In questa prospettiva ho voluto inserire la presenza di Franco Battiato perché lui non faceva soltanto canzoni, è un maestro quasi spirituale. Tra le lettere di Čechov si trova un passaggio in cui racconta di essere stato interpellato per autorizzare la traduzione francese e lui la nega, aggiungendo: cosa possono capirne i francesi di Parigi di una mia storia scritta in Russia per i russi e che, probabilmente, capiranno solo qui da noi. Pur essendo consapevole di sé, non aveva capito che non era un autore qualunque: stava dando il via a 120 anni fino ad ora (e continuerà) di rappresentazioni del suo mondo di cui ancora ci nutriamo. Vorrei dire a quel Čechov: Guarda caro Anton, veramente non sei morto e non solo a Parigi, ma per tutti i secoli».
D: Ritengo sia stata interessante la sua scelta di voler modernizzare, ad esempio nei costumi, mantenendo la poesia
«Il mio esperimento è stato questo: cosa succederebbe se questi personaggi di centoventi anni fa si materializzasse ai nostri giorni: come sarebbe la stanza dei bambini? Cosa li farebbe ballare la sera in cui la loro tenuta sta per essere venduta? Ho dovuto eliminare l’orchestrina ebrea, le quadriglie, le polche o ancora il telegramma da Parigi. La questione non consisteva nel ‘farlo strano’ con effetti speciali, non metto in scena per stupire o provocare, ma per invitare gli spettatori a pensare: questi personaggi potreste essere voi oggi, potrebbero essere i vicini di casa. Gli abiti di Gaev che richiamano un dandy sono anche un po’ fuori moda tanto sono originali o per Varja, descritta come una monachina nelle lettere, ho pensato a come potesse vestirsi una catechista di provincia, molto morigerata. Parallelamente ci sono Lopachin, Anja con abiti assolutamente contemporanei. Mi fanno un po’ sorridere coloro che, anziché guardare la sostanza, si soffermano sulla forma per vedere come lo hanno fatto questo giardino dei ciliegi. A me non importa questo e lo dico anche da spettatore. Io desidero esaltare il cuore del testo e dell’autore e, infatti, al di là di alcune libertà, sono stato per il 90% fedelissimo al testo, facendo una traduzione dalla traduzione letterale russa che avevo trovato, confrontandomi con tutte le traduzioni realizzate in Italia, cercando di tradirlo il meno possibile e rispettandone la direzione degli attori con le pause, i silenzi perché raccontano qualcosa di specifico».
D: Si avverte quanto Čechov sia se stesso, se si pensa a dei richiami con altre sue opere – vedi la scena tra Anja e la madre che fa venire in mente il monologo di Sonja in “Zio Vanja”
«Ne “Il giardino dei ciliegi” c’è una novità assoluta e toccante visto che l’autore sta per morire: per la prima volta abbiamo la speranza su questa terra. Mentre Sonja l’affida all’al di là, al paradiso con gli angeli (in più Čechov non era particolarmente credente); Anja ce l’ha su questa terra e la riceve dall’immaginario idealistico di Trofimov, è carica di “inspiegabili presentimenti”.
La speranza è l’unica cosa che può mantenerti in vita, quando è finito tutto e pensi che la speranza ti abbia abbandonato, puoi sopravvivere fisicamente, ma la tua anima è finita per questo credo molto in questa virtù. Siamo in tempi materialistici, abbiamo tutti lo sguardo e il respiro corti, dire che c’è speranza per un domani, anche in maniera irrazionale, è qualcosa che connette al senso della vita futura».
Lisma e i suoi ‘fantasmi’ teatrali
D: In merito al riferimento ai ‘fantasmi positivi’ del teatro (compresi “Sei personaggi in cerca d’autore”), se dovesse dire quali sono quelli che le vengono in mente quando sale sulle tavole di un palcoscenico?
«Sicuramente la carrellata dei personaggi cechoviani e Pirandello perché proprio la lezione di quest’ultimo dà il senso immateriale dell’arte. Questi dice: Io non posso fare a meno di raccontare questi personaggi che pretendono di essere raccontati perché vengono a trovarmi come dei fantasmi. In più la prima versione de “I giganti della montagna” lui la intitolò “Fantasmi” ed era solo il primo atto. Come le anime dei dannati che non riescono a trovare pace; loro possono trovare pace soltanto raccontando di sé. Tutto ciò per me ha un fascino incredibile. Rispetto a questi mostri sacri, molto modestamente scrivo anch’io, quando si formano queste storie nella propria testa (soprattutto quando si va a dormire), dopo i personaggi vengono scritti e successivamente incarnati dagli attori e restituiti al pubblico e, magari dopo anni, alcuni spettatori se li ricordano, mi rendo conto di come tutto ciò sia misterioso e magico perché non appartiene più a me, ma alle persone che li hanno accolti.
Firs (il maggiordomo di 87 anni che viene proposto con la voce di Herlitzka) non è stata una scelta per risparmiare sul cast, ma voluta, è uno spirito, è come se appartenesse alle mura di quella casa come gli stessi alberi. Così ho pensato che i personaggi sono anime e si può segare tutto il giardino, ma questi personaggi non verranno mai distrutti perché fanno parte di quel mondo e del mondo di tutta l’umanità che li ha incontrati».
D: È molto significativa la ‘dichiarazione d’amore’ all’armadio
«Ho allungato un po’ giocosamente il monologo. L’armadio è un totem, contiene cose inspiegabili. Dagli occhi del materialista Lopachin vorrebbe sapere quali oggetti materiali custodisce, ci saranno gioielli? Invece per gli altri rappresenta se stessi, la loro esistenza, il fondo del teatro visto che si vedono un proiettore e una corda… il punto è che il teatro non è un edificio così come il giardino dei ciliegi non è un appezzamento di valore botanico, è ben altro. La bellezza del giardino è negli occhi di chi guarda, c’è un gioco di luci, ma non c’è neanche un fiore di ciliegio in scena (a parte sulla camicia che Trofimov indossa alla festa e poi l’abito a fiori di Varja – abbiamo impiegato un po’ per trovare quello giusto perché volevo che fosse una donna di oggi, al contempo non si poteva tradire troppo il suo personaggio)».
La scelta di Battiato per Lisma regista
D: Ha optato per Battiato, che è un cantautore e faceva anche politica coi suoi testi. Oltre a “La stagione dell’amore”, si ascolta “Prospettiva Nevski”…
«Sì il secondo brano che citi abbiamo deciso di metterlo alla fine, a luci accese, quando il pubblico va via. Per tanto tempo ho pensato di introdurlo nello spettacolo perché durante lo studio dell’opera mi aveva accompagnato quasi in maniera misteriosa questa canzone, non solo perché mi piace Battiato, ma mi aiutava ascoltare queste atmosfere (a parte russe) molto poetiche, quasi umoristiche, proprio come fa Čechov: quando c’è lo slancio lirico, allo stesso tempo lo nega con qualcosa di molto terreno. Basta pensare che nella “Prospettiva Nevski” scrive: E gli orinali messi sotto i letti per la notte… un contrasto poetico che mi ha sempre commosso tantissimo. Alla fine ho dato indicazione al tecnico di avviarla a conclusione come regalino al pubblico. Nello spettacolo è inserita “La stagione dell’amore” coerentemente con ciò che accade, il nome di Ljuba vuol dire amore e poi hanno questo grande culto del ‘dio Amore’ fino a perdere tutto…
La stagione dell’amore viene e va
I desideri non invecchiano quasi mai con l’età
… e, infatti, Ljuba alla sua età torna a Parigi per amore, dopo tutto ciò che è successo e torna da uno che la ha derubata e umiliata, ma che adesso sta male e ha bisogno delle sue cure. Come dice Lacan: amare è ciò che non si ha. In maniera totalmente gratuita va ancora da lui. Farà bene? Farà male? È un amore tossico? Non sta a noi dirlo, però certamente lei corre perché sa che l’amore è la bussola della sua vita e di ogni vita, anche per questo si scontra contro Petr affermando: Bisogna amare. Ho inserito una frase di Pasolini, ma sembra scritta da Čechov: Non è l’aver amato che conta, ma l’amare».
“La stranezza” di Roberto Andò
D: Sorge spontaneo pensare a “La stranezza” di Roberto Andò, non solo per l’omaggio a Pirandello, ma anche il caso che si è rivelato sbancando il botteghino (visto che i cinema faticano a riempirsi) e, parallelamente, è stato bello vedere come dopo tre settimane in cui eravate in scena al Menotti, la gente continuava a rispondere e a riempire il teatro in un periodo pure con tanti debutti. Qual è la sua percezione e qual è la sua responsabilità?
«Ringrazio il destino che mi ha fatto prendere parte a “La stranezza” perché effettivamente è stato qualcosa di eccezionale nel senso che ha costituito un’eccezione. Già leggendo la sceneggiatura mi rendevo conto della forza incredibile insita nell’opera, riusciva a conciliare commedia raffinata e anche riflessioni sull’arte e sulla letteratura, restituendo in modo poetico. La forza di quel film sta nell’aver unito pubblici molto diversi tra loro: l’intellettuale raffinato e lo spettatore più di bocca buona. Quando ci sono queste operazioni bisogna davvero fare tesoro di questo. Non paragonandomi, con “Il giardino dei ciliegi” siamo partiti nella settimana in cui andava in onda Sanremo eppure la sala è stata molto piena, si è creato un passaparola continuo che ha fatto alzare la qualità del pubblico. Ho notato anche la crescita della qualità di entusiasmo. All’inizio sono venuti degli spettatori, in particolare alla prima, prevenuti, con l’approccio di chi pensa: Voglio proprio vedere come Lisma ha fatto questo giardino. Alcuni mi hanno persino detto: Ma perché ti sei assunto questo rischio? Come ti è venuto in mente? Mi sembra gravissimo perché non si può pensare che un testo appartenga a Visconti, Strehler, Dodin e che un altro, che posso essere io (ovviamente non un maestro di quella portata, ma soltanto un artigiano), non possa rappresentarlo. Devo chiedere permesso soltanto alla mia coscienza e all’amore che nutro verso questo autore. In più se ho degli attori che mi seguono e condividono il mio immaginario, non mi serve altro, oltre a una produzione che ci crede (in questo caso Tieffe Teatro Milano/Teatro Nazionale Genova/Viola Produzioni, nda). I pregiudizi sono andati dileguandosi e ho visto una partecipazione sia in termini di numero che di entusiasmo sempre crescente.
Dobbiamo ricordarci che la forma d’arte più bella è quella più poetica, ma anche più fruibile; altrimenti non ne usciremo mai, le sale cinematografiche rimarranno vuote, i teatri semipieni dei soliti addetti ai lavori. Faccio questo mestiere non per chi mi deve giudicare da una cattedra, ma per condividere con chiunque – con tutti gli strumenti culturali che si possono avere o non avere – il cuore e la poesia di Čechov. Ci tengo a dare merito anche agli attori: sono presenti dei momenti di grande intensità emotiva, di dolore, così come di umorismo e voglio risottolineare come sia frutto dell’originale. Via ‘la depressione’ dalla rappresentazione di certi autori. Tutti gli appartenenti al settore devono riflettere seriamente perché non dobbiamo stupirci quando chiudono i teatri e nessuno sta al nostro fianco a protestare, ma lo facciamo solo noi addetti ai lavori. Quando chiudono un ospedale o altro di primaria importanza, tutti scendono in campo a lamentarsi. Ecco: non dobbiamo lamentarci noi se facciamo scappare via le persone, pensando che il teatro sia appannaggio di una chiacchierata da salotto. Lo diceva Eduardo: Chi cerca lo stile trova la morte, chi cerca la vita trova lo stile. Purtroppo da noi soffriamo di una grandissima ‘malattia’: quella del giudizio precostituito sulla forma e quest’ultima ha ucciso il contenuto».
Rosario Lisma come si pone di fronte alla censura
D: Quando l’anno scorso è scoppiata la guerra, la Bicocca aveva cancellato il corso di Paolo Nori su Dostoevskij (tornando poi sui propri passi). Tenendo presente come lei abbia evidenziato l’importanza di ritornare all’origine e quindi leggere le opere, cosa ne pensa della decisione così istintiva dell’università? Un artista come si pone?
«Come tutte le volte in cui si cerca di fare iconoclastia come nel caso di Fahrenheit 451 o come, ad esempio, facevano i nazisti bruciando i libri perché scomodi per ragioni politiche. Tutte le volte in cui si cerca di cancellare una cultura perché politicamente ci troviamo dall’altra parte, è la cosa più sciocca e imbecille che possa avvenire soprattutto perché Dostoevskij, Tolstoj, Turgenev non appartengono a Putin e nemmeno soltanto al popolo russo, sono patrimonio di tutta l’umanità. Persino Ezra Pound, che era filonazista, ma un grande poeta, sarebbe sciocco censurarlo. Forse oggi, a un anno dal conflitto, non passerebbe proprio in mente di censurare e noi con Čechov non abbiamo avuto il minimo problema – e sarebbe stato ancor più paradossale visto che, in parte, era ucraino, è nato vicino a Mariupol’. I luoghi citati nel testo sono ucraini, ovviamente pronunciati alla russa; lo stesso autore trascorre del tempo in Crimea, ed erano posti di incontaminata bellezza, ora sono luoghi di morte».
Le battaglie per i diritti dei lavoratori dello spettacolo
D: Ha avuto modo di ascoltare l’appello di U.N.I.T.A. letto da Pierfrancesco Favino al Festival di Berlino? Cosa ne pensa?
«Sono assolutamente d’accordo. È incredibile come per dar vita a un contratto che riconosca i diritti e abolisca certi privilegi ci voglia tutto questo tempo e ciò avviene persino con istanze portate avanti da personaggi noti. Pensiamo a quelle battaglie che altri interpreti portano avanti quanto sia difficile ascoltare. Non bisogna soltanto prendersela con l’associazione dei produttori, ma chiedere alla politica di mettere allo stesso tavolo le parti».
D: In Francia c’è la legge per cui una percentuale degli incassi dei blockbuster va a finanziare i film d’autore, è un peccato che in Italia non sia stata adottata – per citare un esempio
«Da noi spesso ci si arriva dopo, perfino il contributo per i provini, così come i diritti sui contenuti audio-video fino al rispetto del lavoratore in generale. Siamo il Paese in cui se un giovane attore viene scritturato, i produttori assumono quasi l’atteggiamento di chi pretende gratitudine perché hanno fatto lavorare. In più le occasioni di lavoro sono sempre minori e se il lavoro scarseggia, la forza ‘ricattatrice’ del produttore aumenta per cui non è affatto semplice per le nuove generazioni far valere i propri diritti. Mi ricordo che già vent’anni fa quando presi parte al coro nelle tragedie greche a Siracusa e, a un tratto non vennero pagati i riposi, c’è stato chi, più ancora giovane di me, ha pensato di non pretendere niente dicendo: In fondo mi danno la possibilità di lavorare. Io avevo cominciato a fare l’attore da un anno, ma non lo trovavo giusto: questo perché avevo una coscienza un po’ politica e avevo studiato giurisprudenza e, tra gli esami, diritto del lavoro. Dovremmo avere tutti la forza di imporre i nostri diritti, però, al contempo, devi essere pronto anche a non lavorare.
In Italia tu fai l’artista e quindi sei considerato uno sciocco che va incontro alla precarietà, non è colpa di nessuno e quindi nessuno deve pensare al tuo sostentamento; negli altri Paesi non è così, si ha rispetto per il lavoratore dello spettacolo perché è considerato come tutti gli altri, anzi bisognerebbe tenerselo anche stretto».
I prossimi progetti di Rosario Lisma
D: Quali sono i prossimi progetti?
«Con “Il giardino dei ciliegi” siamo alla Sala Umberto a Roma fino al 2 aprile e stiamo programmando nuove date nella stagione 2023-24. Riprendiamo “Edificio 3. Storia di un intento assurdo” di Claudio Tolcachir (una produzione Piccolo Teatro di Milano, Carnezzeria srls, Timbre4, a cui si sente che è molto legato, nda) partendo da Reggio Emilia (11-12 aprile), poi Pordenone (05-07/05) concludendo al Teatro Argentina di Roma dal 16 al 21 maggio. Ho il mio monologo, “Giusto” a cui tengo tantissimo, prodotto dalla Fondazione Luzzati Teatro della Tosse, e che ha fatto delle date in questo anno e mezzo e tra le nuove tappe c’è anche l’Elfo a Milano dal 19 al 23 giugno».
Ph cover: Valentina Malcotti