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Artisticamente Magazine

Samuele Teneggi: «Spero che l’arte pianti dei semi per il cambiamento»

Samuele Teneggi: «Spero che l’arte pianti dei semi per il cambiamento»

Tempo di lettura: 8 minuti

 

Dialogando con SAMUELE TENEGGI si percepiscono maturità, curiosità e tanta voglia di crescere. Il punto di partenza è l’uscita in sala de “La storia del Frank e della Nina” diretto da Paola Randi, dopo esser stato presentato in Orizzonti Extra alla 81esima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.

D: Pensando al tuo personaggio di Frank, quanto la letteratura e le parole sono state importanti nel tuo percorso e anche nel farti scegliere di fare l’attore?

«L’attore è un lavoro molto legato alle emozioni e soprattutto sul set e poi sullo schermo queste emozioni diventano – per necessità di linguaggio – viscerali, istintive, magari diverse dal teatro, che possono risultare, a volte più impostate. Su quale ruolo abbia la conoscenza in questo, confido che l’ho scoperto dopo. Mi ha ‘illuminato’ un video di Edoardo Prati (il ragazzo che fa divulgazione letteraria sui social, da TikTok e Instagram), il quale in un suo video diceva: “perché mi piace così tanto? Perché non studiando a volte come si fa a scuola, ossia per la pura nozione, ma leggendo veramente quello che hanno scritto gli antichi, i greci, i latini, ma anche i nostri Dante, Ariosto, Manzoni, scopro come, in realtà, le cose che provo e penso non siano solo mie o solo difficoltà personali, invece sono universali”. E ci sono poeti, scrittori, pittori, filosofi, artisti, che dai tempi dei tempi hanno raccontato queste emozioni esattamente per come le proviamo noi oggi. Ho frequentato il classico e notavo come la conoscenza c’entri col mio voler far l’attore proprio per lo smuoversi di queste emozioni».

D: Dopo il liceo cos’è accaduto?

Durante il classico ho iniziato, per caso, una scuola di teatro del mio paese, Castelnovo ne’ Monti (in provincia di Reggio Emilia), perché avevo visto “Notre Dame de Paris” e mi aveva attratto Quasimodo, soprattutto per il fatto che questo povero gobbo fosse un po’ sfortunato e io nella mia vita, avendo una bella famiglia, una situazione serena e felice a scuola con i miei amici, non avevo mai provato nulla del genere. Forse, un po’ masochisticamente, incuriosito da questa nuova esperienza, ho cominciato il corso di teatro e mi ricordo che, di pancia, mi sono innamorato subito e pian piano ho cominciato ad avere il pensiero di farla diventare una professione per cui ho provato l’Accademia Silvio d’Amico ed è andata bene».

D: Una delle possibilità migliori dal punto di vista formativo…

«Dico sempre che l’accademia è un po’ come la bacchetta di Harry Potter: è lei a scegliere te, per fortuna è andata bene».

Samuele Teneggi
Ph Fabio Zazzaretta

D: Mi ha incuriosita che abbia avvertito l’esigenza di seguire dei corsi con Casting Director.

«Avevo iniziato a seguire, sono stati 4 mesi di regime accademico – la Silvio d’Amico è molto intensa – e poi è scoppiato il Covid: le lezioni si sono dimezzate, siamo stati fermi per un po’, poi abbiamo ripreso in parte online, facendo delle lezioni con gli insegnanti che provavano a farci fare recitazione radiofonica e, successivamente, in presenza a gruppi di poche persone. Ho avvertito il bisogno di colmare alcune lacune didattiche perché l’accademia ha fatto ciò che ha potuto durante la pandemia. Nella prospettiva di voler fare cinema e approfondire la recitazione davanti alla macchina da presa ho voluto fare quelle masterclass. Sono state davvero utili, le consiglio anche perché il Casting Director come approccio deve essere aperto alla scoperta di nuovi ruoli e volti possibili e personalmente questi incontri hanno sempre fruttato qualcosa, anche solo un provino… poi poteva capitare che non si superasse, però intanto arrivava».

D: Samuele hai sperimentato il palcoscenico anche con registi come Massimiliano Civica. Cosa ti porti?

«Ammetto che essendo capitate buone esperienze in ambito cinematografico, mi sono totalmente riproiettato sul motivo per cui avevo cominciato ossia fare audiovisivo – era un po’ il mio sogno. Ovviamente il teatro è stato un passaggio fondamentale per più motivi: innanzitutto il lato tecnico perché adesso mi sento di poter fare questa professione al cinema con una base che deriva da insegnanti teatrali, sono sicuramente un po’ più strutturato sicuramente e poi perché, per esempio, in Accademia c’è stato appunto Civica con la sua filosofia, Andrea Baracco ne ha un altra ancora. Ho studiato con Lorenzo Salveti, il quale è più ‘vecchia scuola, con lui abbiamo studiato il vaudeville e il bello è proprio la varietà perché provando le differenti scuole di pensiero sulla recitazione, uno poi trova il proprio colore. Il lavoro con Civica mi è stato particolarmente caro perché lui lavora sulla verità istintiva del qui e ora quindi uno spettacolo può essere diverso da una serata all’altra proprio come noi persone abbiamo voglie ed energie diverse, quindi l’ho trovato molto utile anche nella prospettiva del lavoro cinematografico».

D: A proposito del qui e ora, ne “La storia del Frank e della Nina”, viene citato Ariosto: «La guerra non può niente contro l’amore. Purtroppo è molto attuale…

«Mi interrogo molto nel quotidiano rispetto a quello che sta succedendo nel mondo e su come io possa applicare la responsabilità che sento. Gli stessi social sono pieni anche di video ‘non filtrati’. È inevitabile chiedersi: rispetto a questi temi cosa può fare questo film per aiutare? Ci si sente molto impotenti. So che l’arte non può cambiare improvvisamente il mondo come potrebbe fare, invece, un atto politico, però spero che pianti un semino e che andare al cinema a vedere una storia come quella del Frank e della Nina possa stimolare sensi di umanità buoni come l’empatia, la sensibilità verso il diverso, verso il fragile… e che questo semino possa germogliare di persona in persona. L’arte, in questo senso, può cambiare il mondo con un processo molto più lento, forse, però spero possa farlo.
Probabilmente in questo momento hanno bisogno di provocazioni molto più forti, meno delicate, bisognerebbe fare degli atti politici, però, nel nostro piccolo questo film intanto può smuovere».

Samuele Teneggi La storia del Frank e della Nina
“La storia del Frank e della Nina” – Ph Jarno Iotti

D: Anche perché mette a tema molte questioni stringenti dalla violenza all’accettazione di sé

«Purtroppo c’è tanta ignoranza nel senso proprio di mancanza di conoscenza e il mio personaggio Frank testimonia proprio come la conoscenza possa combattere la violenza. La parola che è il simbolo del dialogo, strumento degli ambasciatori, può portare pace anche contro la violenza. Frank stordisce il duce (Marco Bonadei) – il compagno di Nina – con la parola e c’è una scena in particolare che simboleggia proprio la vittoria della parola, usata in modo intelligente, contro la violenza becera».

D: Magari sarebbe bello che andassero a vedere questo lungometraggio anche i ragazzi, potrebbe essere un esempio virtuoso

«La forza di questo film sta nel raccontare temi delicati perché sia il Frank che la Nina e il Gollum hanno i loro problemi (forse quello della Nina è quello più rappresentativo delle problematiche del nostro tempo per quello che succede nelle mura domestiche) e mi auguro che faccia questo effetto perché riesce a farlo in modo anche leggero, il che potrebbe essere ancora più d’impatto. Spero colpisca, consciamente e non, chi non coglie ancora l’urgenza di queste problematiche. Paola ci diceva spesso sul set: a me non interessa mostrare la violenza, ma raccontare la reazione alla violenza».

D: È molto bella il ‘gioco’ tra bianco e nero, che Frank porti del colore. Pensando al tuo percorso, quali colori pensi di avere?

«Per indole mi sento un po’ un melting pot di colori. Per educazione familiare, per le fortune che ho avuto nella vita e il bel percorso che sto facendo mi sento molto giallo e arancione, sono da sempre i miei colori preferiti: mi piace guardare le cose con ottimismo, con solarità e cerco per quanto possibile di trasferirla all’esterno. Devo ammettere, però, che come il Frank voglio anche rappresentarmi con una persona con le proprie paure e solitudini per cui, a volte, mi sento un po’ blu oppure un po’ verde quando mi immergo nelle passeggiate al parco e a volte vorrei essere anche trasparente ecco il Frank che dice di essere invisibile. È un po’ quella parte di me che si vorrebbe attivare quando non ce la faccio più e vorrei scomparire ed è bello affrontare quei momenti tentando di dare un po’ di giallo (recuperando l’ottimismo)».

Samuele Teneggi
“La storia del Frank e della Nina” – Ph Jarno Iotti (da sn Gabriele Monti, Ludovica Nasti e Samuele Teneggi)

D: Dall’opera della Randi emerge anche che quello che si è c’è lo si porta addosso e il futuro ce lo si debba costruire. Quale approccio hai verso il futuro?

«Per quanto mi riguarda è stato rivoluzionario fare questo ruolo perché magari Paola aveva scritto queste battute, io le ho recitate e dopo mi sono tornate, le ho riascoltate con orecchie diverse e ho pensato: ha ragione. Soprattutto per la mia generazione è importantissimo scrivere il proprio futuro, porre l’accento in modo personale. Siamo bombardati da stimoli convenzionali sui social che spingono un po’ all’omologazione, all’inseguimento di un obiettivo comune di successo, che sembra essere definito solo in un unico modo. Cercare di rendere i desideri arrivabili ti cambia il programma della giornata e porta a dei risultati».

D: A proposito di quanto ci sia da lavorarci su questioni anche più grandi di noi, Marco Bellocchio ha posto la lente d’ingrandimento sulla vicenda molto significativa di Edgardo Mortara in “Rapito”. Interpretando il fratello Riccardo, come l’hai vissuta?

«È stato un po’ come quando ho visto il gobbo in “Notre Dame de Paris”. Non avevo mai provato una cosa del genere ossia di avere un fratello in una società, quella dell’Ottocento, non civilizzata a livello di diritti personali, con lo Stato della Chiesa con le sue regole e di avere un fratello letteralmente rapito perché è stato estirpato dalla propria famiglia. Mi ha segnato come esperienza, sono stato scelto e dopo qualche giorno eravamo già sul set; per fortuna abbiamo girato la scena d’incontro col fratello dopo la breccia di Porta Pia verso la fine, quando avevamo avuto più tempo per connetterci tra noi del cast ed elaborare anche il lutto rispetto allo strappo di questo fratello dal nucleo famigliare. In quella scena che citavo all’inizio mi sono sentito impotente».

D: Prima facevi riferimento alla vostra generazione, in “Rapito” hai avuto modo di rapportarti con il maestro Bellocchio e con un cast di grande qualità da Pierobon a Gifuni, da Alesi alla Ronchi. Questo immagino abbia arricchito il tuo bagaglio

«Sono fierissimo, orgogliosissimo e gratissimo di aver lavorato con loro. Credo che i migliori nel campo della recitazione siano migliori per un motivo e sono anche migliori come persone, come atteggiamento sul set. Non ho avuto la fortuna di incontrare Paolo Pierobon perché non abbiamo condiviso delle scene, ci siamo beccati di sfuggita sul set. Ho conosciuto maggiormente Fausto Russo Alesi e Barbara Ronchi, che ancora oggi (e spero nel futuro nel tempo) rimangono per me dei punti di riferimento professionali incredibili. Vederli passare dal fuori al dentro della scena in modo diverso, perché per esempio Fausto si immerge totalmente, trova il suo momento di concentrazione e rimane dentro il personaggio, cerca di continuare a ‘lavorarlo’ per tutta la durata del set. Invece Barbara è un’attrice molto generosa che si lascia emozionare in modo sensibilissimo e poi dopo lo stop riesce anche a chiacchierare. Guardare le loro differenze, ma allo stesso tempo la loro intensità, professionalità e gentilezza umana… voglio che siano un riferimento per me quando sarò, spero, un attore adulto, solo questo».

D: Un progetto di prossima uscita di cui sei protagonista è “La stanza indaco” per la regia di Marta Miniucchi. Ci anticipi qualcosa?

«Siamo in un reparto di terapia intensiva, però potremmo dire che, come nel film della Randi, è una storia che cerca di non parlare tanto di malattia quanto dell’umanità che si riesce a portare all’interno di una terapia intensiva. Si pensa a questi luoghi impregnati dall’odore di naftalina, invece cosa può succedere a un ragazzo della mia età all’interno di un reparto del genere? Su questo si interroga il film».

 

Ph cover: Fabio Zazzaretta

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