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Artisticamente Magazine

Sara Lazzaro: «Siamo fatti così: dell’elemento stesso e del suo contrario»

Sara Lazzaro: «Siamo fatti così: dell’elemento stesso e del suo contrario»

Tempo di lettura: 14 minuti

 

SARA LAZZARO ha un ‘volto da schermo’ direbbe una casting, capace di bucarlo anche se fosse in bianco e nero, entrando con delicatezza e intensità in dialogo con la platea di turno. Al contempo ha un’espressività tale che può raggiungere e colpire fino all’ultima fila o nel palchetto più alto. Ha cominciato a muovere i primi passi (nel 2001) sulle assi del palcoscenico e nel 2013 ha ricevuto il Premio come Astro Nascente del Teatro – si sa la gavetta è dura, ma molto formativa; tre anni dopo riceveva quello come attrice rivelazione all’interno del Premio Cinema Veneto – Leone di Vetro.
Durante la nostra intervista la voce è bassa (quasi a volerla preservare), ma decisa e appassionata. La grande popolarità è arrivata con la serie Rai “DOC – Nelle tue mani”. «In molti sono rimasti colpiti da come Agnese sia un personaggio forte, ma anche fragile, autorevole e dolce: c’è una compresenza di caratteristiche, che, spesso, vengono attribuite a personaggi diversi. Noi siamo fatti così: dell’elemento stesso e del suo contrario, siamo creature contraddittorie e complesse. Quindi è un personaggio che può piacere – a chi più, a chi meno – però all’interno della narrazione porta un’azione, amo molto il suo essere una donna fatta di luci e di ombre e le vive entrambe».

Sara Lazzaro “Doc-Nelle tue mani”, 2^ stagione
“DOC – Nelle tue mani”, 2^ stagione

Sara Lazzaro e “DOC – nelle tue mani


D:
DOC – Nelle tue mani” si può considerare un turning point nel percorso compiuto fino ad ora?

«Ritengo di sì. È come se mi avesse ‘messo sul radar’ in quanto, dal punto di vista professionale, è stata la prima volta in cui ricoprivo il ruolo di protagonista in un prodotto nazional-popolare, in più su Rai1 in prima serata. Agnese è uno di quei personaggi che entra nelle case delle persone nel vero senso della parola per cui questa serie, inevitabilmente, mi ha reso riconoscibile nella vita di ogni giorno; così come mi ha dato modo di farmi conoscere da un pubblico che magari non aveva avuto modo di vedere altri miei progetti o in teatro. Tenendo conto di tutto ciò è stato un punto di svolta molto evidente nel mio percorso: adesso associano il mio nome e questo è un valore che “DOC” mi ha dato».

Il personaggio di Agnese


D: Pensando alla radice del nome Agnese, a suo parere ha in sé una connessione con l’approccio del personaggio, in particolare in questa seconda stagione?

«Agnese è una donna stratificata e complessa, che ha dovuto affrontare tanti cambiamenti e perdite, anche estremamente viscerali come possono essere la perdita di un figlio così come quella di un compagno. Ha ritrovato la forza per andare avanti aggrappandosi a un presente e al senso di rinascita, creando una nuova vita con Davide (Simone Gandolfo), visto che entrambi condividono una forte idea di famiglia – di qui l’idea di prendere in affido un bambino. Le riconosco una grande forza di resilienza in una donna che, sia in passato sia in questi nuovi episodi, spesso è stata messa alla prova e ciò continuerà ad avvenire. In questa seconda stagione non bisogna mai dimenticare che stiamo parlando di personaggi/persone che hanno attraversato il covid, i quali devono fare i conti con un senso di spaesamento e disorientamento del presente. Anche Agnese lo ha vissuto, per altro all’interno di un ospedale fortemente colpito perché a Milano.

Sara Lazzaro
“DOC – Nelle tue mani”, 2^ stagione – In foto Sara Lazzaro e Luca Argentero

La pandemia ha influito su di lei, ciò che ha attraversato emotivamente l’ha portata ad affrontare in modo pratico la situazione. Molti direttori sanitari sono stati sospesi temporaneamente dal proprio incarico fino a che non sono avvenuti accertamenti rispetto a come sia stata gestita l’emergenza. Lei ha vissuto dieci anni svolgendo questo ruolo, le viene tolto, offrendole di riprendere l’incarico precedente e cioè tornare in corsia. Si ritrova a gestire delle costanti sfide e variabili. In particolare in queste nuove puntate io ho voluto che si notasse quanto muti in base alle cose che la colpiscono. È un essere mutabile, contraddittorio, fragile, scoprirà una vulnerabilità nuova e questo può portare a innalzarsi o indurirsi.
Rispetto al nome, c’è un’aderenza involontaria, è una donna che cerca di stare in piedi e rintraccio un senso di sacrificio in questo personaggio».

Raccontare il covid e dar volto a chi è stato ed è in corsia


D:
Quanto il lavoro su questo ruolo e insieme a tutto il gruppo, ha aiutato, lei Sara, a elaborare il covid?

«Matilde Gioli ha espresso un pensiero molto giusto nel corso della conferenza stampa e che credo riguardi tutti quelli che sono stati ‘privilegiati’, come me, trascorrendolo chiusi in casa. Durante i lockdown e l’apice con la saturazione degli ospedali, non ho avuto casi direttamente, però ognuno di noi potrebbe raccontare qualcosa di personale rispetto a ciò che ha perso. Attraversare l’esperienza del set coi miei colleghi – a parte il fatto di rivedersi, guardarsi negli occhi e constatare come ciascuno si porti dentro l’evento storico che stiamo vivendo – mi ha fatto cogliere una consapevolezza attoriale di ciò che andavamo a ‘mettere in scena’.

Sara Lazzaro
“DOC – Nelle tue mani”, 2^ stagione – In foto Sara Lazzaro e Simone Gandolfo

Sul set abbiamo toccato con mano – certo in modo fittizio – che cosa hanno attraversato i medici, gli infermieri, gli operatori sanitari perennemente a servizio della società per cercare di contenere questo virus. Una delle esperienze più forti è stato indossare lo scafandro covid, ci hanno spiegato tutte le procedure sia rispetto all’ordine con cui indossare le protezioni, così come toglierle. Ho girato una giornata di set così; non oso immaginare cosa voglia dire fare turni da 16 ore così. Mi ha sensibilizzata ulteriormente, è stata un’esperienza empirica – ovviamente ricordo sempre che noi ‘emuliamo’ e lo dico con super rispetto verso chi è stato ed è in prima linea – che ci ha resi ancora più consapevoli in merito a ciò che andavamo a trattare».

D: Posso ipotizzare che la responsabilità artistica e umana ed etica arrivi all’ennesima potenza…

«Con la prima stagione eravamo inconsapevoli che avremmo rappresentato una categoria che, al momento della messa in onda, stava affrontando uno tsunami. Già in partenza si avvertiva un grande senso di rispetto verso una categoria essenziale che si occupa della nostra salute; ancor più abbiamo sentito la responsabilità girando la seconda stagione sapendo ciò che hanno compiuto e che continuano a fare per tutti noi. Ci sentiamo ‘portavoce’, ma senza esagerare. Sono un’interprete, il mio compito è quello di cercare l’umanizzazione, le ossa e il corpo del mio personaggio all’interno di questa dinamica così come provare a dar corpo a una delle tante storie di questo periodo, nel modo più disponibile e aperto possibile. Se minimamente riusciamo a sfiorare il senso di tutto ciò, conducendo lo spettatore in un viaggio, in cui nota dalle vicende rappresentate la paura o altre emozioni con cui empatizzare, potrebbe scoprire delle cose di sé e forse potremmo sentirci meno disuniti, nonostante oggi ci si senta ‘distaccati’. Posto che stiamo ancora vivendo la pandemia, non abbiamo ancora affrontato gli strascichi che ha comportato e comporterà sul piano della salute fisica e mentale. Mi auguro che questa serie sia un’occasione per riflettere».

D: È come se dal punto di vista psicologico si dia meno importanza e si sottovalutino le conseguenze…

«È vero. All’interno di “DOC” è molto bella la figura della psicologa interpretata da Giusy Buscemi, specializzata in stress post-traumatico per ciò che hanno provato sulla propria pelle i dottori. Gabriel (Alberto Malanchino) incarna una delle possibili conseguenze di questo malessere. In vari gradazioni possiamo tutti rispecchiarsi in questo e ritengo sia essenziale che se ne parli. Noi italiani abbiamo, forse, un retaggio culturale un po’ ‘ottuso’ nei confronti della psicologia e della malattia mentale».

D: Credo ci sia ancora un pregiudizio…

«Sì, deriva dalla mancata informazione. Questo è il punto cruciale: mancano una conoscenza e la possibilità di parlarne liberamente. Ho degli esempi anglofoni e noto un approccio completamente diverso; c’è una necessità dal punto di vista sociale che, secondo me, farebbe bene a chiunque. Sarebbe un dono per ciascuno dedicarsi alla salute della propria mente; detto questo, secondo me, sottovalutiamo gli effetti di un evento stressante qual è il covid, da tantissimi punti di vista – anche a livello subconscio – per tutti, dai medici ai bambini, dagli adolescenti agli adulti.

Sara Lazzaro
“DOC – Nelle tue mani”, 2^ stagione

Bisognerebbe comprendere che essere fragili ormai non è sintomo di debolezza, ma di forza perché la nostra società ci ‘costringe’ a non mostrare mai, invece arrivare a dire: “Io non sto bene” prendendone atto in senso propositivo, sarebbe già un primo passo nel riconoscersi e nel darsi valore di ciò che si è in quel momento. È un messaggio importante che dovremmo ricordarci tutti: accettare di concedercelo. A proposito di questo posso dire che Agnese affronta dei nodi, dei ‘mostri’, portati da un insieme di dinamiche».

D: In merito al passaggio in corsia, c’è un caso che l’ha toccata in particolar modo?

«Ogni paziente ti insegna qualcosa, nel bene e nel male. Il malessere e la storia di una persona che hai davanti a te, con cui, da medico, devi interagire, ti tocca poiché porta un conflitto, un dilemma. Anche se ciò avviene sul piano dell’accoglienza o in contrasto nella relazione paziente-medico, ci si porta sempre qualcosa con sé. Inevitabilmente arrivi a domandarti: io come la vivrei? Come gestirei quel problema? Sono interrogativi interessanti in quanto ci rendono maggiormente sensibili ed empatici nei confronti dell’altro.
Di sicuro, tramite i pazienti che incontra, Agnese fa i conti con se stessa».

D: Qual è lo stereotipo in cui questa serie non è riuscita a cadere rispetto al medical drama?

«Credo che stia nel mantenere molto onesto e veritiero il racconto – poco edulcorato (per quanto alcune storie, soprattutto quella portata da Andrea Fanti/Luca Argentero sia molto sentita). Ci si trova di fronte a una serie molto incentrata sulla dinamica ospedaliera; c’è un’attinenza a come sia realmente un ospedale e questo è uno dei capisaldi del prodotto. In alcuni progetti questo è stato meno presente o magari non era il focus. La scrittura è alla base del non cadere nello stereotipo. Gli sceneggiatori Francesco Arlanch e Viola Rispoli hanno compiuto un lavoro incredibile poiché le storie che hanno scelto di raccontare, sia tramite i protagonisti di “DOC” che di puntata (quindi i pazienti), sono state attinte da tantissimi casi davvero avvenuti, quindi sono esempi reali di vita. Ancorarsi a una realtà, ambientata ai giorni nostri, è un altro punto di salvezza per non cadere in certi schemi per quanto possibile».

D: Sara, ha avvertito una differenza nel passaggio registico? (Ricordiamo che la prima stagione è stata diretta da Jan Maria Michelini, mentre questa da Beniamino Catena – episodi dall’1 all’8 – e Giacomo Martelli i seguenti).

«Penso sia inevitabile perché è passato in mano a due figure completamente nuove. Credo che sia anche bello che, nel caso di un cambio dietro la macchina da presa, quel regista abbia il proprio approccio. Tutto ciò ci ha stimolati in modo diverso; chiaramente è stata mantenuta una linea d’immagine molto simile a quella iniziale, c’è stato un continuum su questo aspetto – Jan Maria Michelini lo si può considerare lo showrunner – però è stato interessante notare come Beniamino e Giacomo abbiano cercato di esprimere il proprio immaginario all’interno di una struttura già impostata e molto solida. Non è semplice, ma sono stati molto bravi; i ritmi sono stati intensissimi – abbiamo girato dal 17 maggio 2021 ai primi di gennaio con qualche stop, ad esempio, in occasione del Natale».

Sara Lazzaro e “Welcome Venice” di Andrea Segre


D:
So che l’ha sentito particolarmente viste anche le sue origini. Concentrandoci sul film, è interessante come emerga il voler far riscoprire la cultura più autentica, difendendo la bellezza fragile e nascosta, di chi, ad esempio, non sa neanche cosa fossero le moeche…

«Penso che Andrea Segre sia un poeta d’immagini molto radicato al suo territorio, ormai sono diversi progetti con cui lo racconta e con “Welcome Venice” ha trattato la laguna. Per me è stato bellissimo e importante affrontare le mie radici con un autore così sensibile, vivo e attivo socialmente rispetto al territorio. È un film che ho amato tantissimo. Lui è riuscito a fotografare una Venezia contemporanea, che fino all’altro ieri era invasa da quattromila persone al giorno, dalle navi da crociera, si ritrova improvvisamente senza più nessuno a causa della pandemia, riconoscendo che senza il turismo questa città ha difficoltà nell’andare avanti. La diversità-peculiarità di Venezia non è, però, nel turismo, ma nelle persone, nella storia, nelle tradizioni per cui pone in campo un contrasto. È come se il film fosse una domanda. Nel confronto con il regista le intenzioni sono chiare: non voleva mostrare mio padre Alvise (Andrea Pennacchi) come il cattivo della situazione o Pietro (Paolo Pierobon) il ‘salvatore’.

Sara Lazzaro Welcome Venice
“Welcome Venice” – In foto Sara Lazzaro e Paolo Pierobon

Entrambi hanno in qualche modo ragione, portano una consapevolezza e una realtà di Venezia, che, in questo momento, sono in contrasto. Mi ha affascinata la questione di porre l’interrogativo e vedere come lo spettatore possa trovare una sua risposta e come si posizioni rispetto a questa problematica. Venezia è stata sfruttata per la sua bellezza, per il suo essere sublime e ciò è degenerato in un turismo malsano e autodistruttivo, che sta distruggendo la stessa comunità che risiede. È bello che, dal punto di vista antropologico, Segre abbia posto una domanda anche al nostro tempo.
Per quanto mi riguarda è la mia città del cuore, vi ho studiato, ho conosciuto Anatolij Vassiliev durante il mio primo corso di teatro semi-professionale. Mi viene da citare anche “Dieci inverni”… Poter raccontare la mia città – sentendomi veneziana d’adozione – è stato incredibile e ancor più poterla rappresentare in un momento di vulnerabilità in cui è importante che si puntino i riflettori su questa questione».

D: Scoperchia la testa in particolare al grande pubblico…

«Alla base della costruzione di tutta la storia c’è una famiglia, l’unica che tratta ancora le moeche (in Giudecca prima ce n’erano molti di più a pescarle). Il fatto che si mantenga una tradizione è giusto; al contempo viene posta la questione del mutamento dei tempi. Consapevoli di questo, come ci si ingloba? Come si fa coesistere il passato con il presente e con ciò che è necessario da fare per il futuro? La risposta è in divenire. C’è una scena che abbiamo girato sul Ponte dei Sospiri – è stato surreale in quanto era vuoto, avevamo bisogno di comparse che facessero i passanti, una volta non ci si poteva neanche fermare a guardare il ponte perché c’era un via vai di gente allucinante. Ci siamo girati sul canale vedendo questa immensità e, a un tratto, il personaggio di mio padre dice: “È anche bella così, però fa paura”. In questa battuta c’è tutto.

Sara Lazzaro Welcome Venice
“Welcome Venice” – In foto Sara Lazzaro e Andrea Pennacchi

Non ho risposte su come si possa tutelare questa bellezza e, parallelamente, riuscire a trasformare questo momento di difficoltà in crescita, non sarebbe giusto negare il turismo, ma magari più ecosostenibile. Tornando alla vicenda narrata nel lungometraggio Pietro è estremamente radicato a un’idea, non è Toni (Roberto Citran) che incarna il vero pescatore. Il personaggio di Pierobon è appena uscito dalla galera, sta cercando di rifarsi una vita e l’unico modo per rimanere saldo e sano consiste nel radicarsi alla tradizione. Anche questo pone ulteriori questioni».

Sara Lazzaro e l’esperienza alla Biennale Teatro con Thomas Ostermeier


D:
A proposito di culture e sguardi diversi, com’è stato l’incontro con Ostermeier e il suo sguardo su di lei?

«È avvenuto nel 2015 all’interno della Biennale College, che adoro come formula poiché ci sono attori di varia provenienza e l’aspetto meraviglioso è stato il confronto teatrale su una materia universale: la scrittura (abbiamo lavorato sul testo in versione inglese per agevolare tutti). Penso che Ostermeier abbia un modo di scegliere di narrare le cose molto radicato a un qui ed ora sociale e politico molto forte. La Schaubühne, se si pensa ai testi e alle collaborazioni scelte, si dimostra una fucina estremamente radicata nel contemporaneo. L’esperienza con lui è stata una ventata di ossigeno, soprattutto perché il suo approccio non era appesantito dall’ostentare una tradizione di qualche tipo. Molti degli esercizi di preparazione erano legati alla tecnica Meisner, che per me è stata cardine (scoperta prima a Londra e poi approfondita a New York): si fonda sull’essere presente col proprio compagno di scena, sull’ascolto e su acting-reacting cioè recitare è reagire per cui è imprescindibile il momento che si crea col compagno sul palcoscenico. Il fatto che ci si relazioni specificatamente con lui/lei porterà la scena in una direzione che non prenderebbe con un altro attore: è meraviglioso perché vivi l’interazione come uno scambio unico e irripetibile. Per quanto riguarda “Bella figura” della Reza è stato stimolante studiare alcune scene vedendole con gli occhi di un artista come Thomas e cogliere la comicità che c’è dietro. Sono una persona che cerca dove possa esserci una risata, anche amara».

L’indimenticabile avventura con “The Coast of Utopia

 

Sara Lazzaro The Coast of Utopia
“The Coast of Utopia”

D: Posto che sia un’utopia riprendere oggi quello spettacolo dal punto di vista del numero degli attori, ma secondo lei sarebbe da riproporre?

«Rifletto spesso su quello spettacolo, sul testo, sulla volontà di Tom Stoppard. È stato scritto durante la nostra contemporaneità, eppure lui ha avvertito la necessità di esplorare quel tempo, realizzando una scrittura verticale, fatta di domande, mettendo in scena il modo di pensare dell’essere umano e la sua evoluzione. Non sarebbe strano riflettere, in quel modo, di nuovo, con uno spettacolo del genere. Mai sarebbe così attuale. Sarebbe fantastico rimettere insieme tutto il gruppo; già all’epoca è stata una scommessa grandissima di Michela Cescon con la Zachar Produzioni di voler metter in scena un testo così popolato, coinvolgendo moltissime persone (quasi un centinaio tra attori e tecnici). Avere come regista Marco Tullio Giordana è stato incredibile.

Sara Lazzaro The Coast of Utopia
“The Coast of Utopia”, prove – In foto, da sx, il regista M. T. Giordana, Sara Lazzaro e Denis Fasolo. Ph Fabio Lovino

Provammo da dicembre per debuttare al Carignano a marzo e non vedevamo l’ora di farlo poiché avevamo bisogno della catarsi e del primo incontro col pubblico… è la magia di conoscere la ‘creatura’ perché gli stessi spettatori ti aiutano a comprendere ciò che hai provato fino a quel momento. Di solito intervallavo cinema e spettacolo dal vivo e, per quanto mi riguarda, fare cinema aiuta quando faccio teatro e viceversa.

Sara Lazzaro The Coast of Utopia
“The Coast of Utopia”

Mi manca tantissimo fare teatro, proprio a livello sensoriale così come lo stare in una sala prove e ripetere, ripetere, stare su una battuta e vedere come fila… Spero ricapiti presto la giusta occasione. Certo sono realista e riconosco che sono molto fortunata e grata rispetto a ciò che mi sta accadendo sul piano dei progetti audiovisivi, ancor più tenendo conto del periodo che stiamo vivendo. Sto crescendo molto nel mio artigianato, scoprendo cose di me anche grazie a occasioni molto varie – non sono incastonata nel ruolo di Agnese».

Sara Lazzaro Le donne gelose
“Le donne gelose”, regia di Giorgio Sangati

D: A proposito di ciò che stiamo attraversando, molte compagnie hanno dovuto annullare o rimandare la rappresentazione del proprio spettacolo perché colpite dal covid. Le stesse produzioni si interrogano se sia il caso di rischiare o rimanere nella zona comfort, visto che una parte di pubblico nutre ancora timore nel recarsi a teatro…

«Paradossalmente, un altro aspetto spiacevole di questo momento storico-culturale consiste nel fatto che tutta l’energia viene spesa verso questo pensiero, piuttosto che domandarsi: cosa esploriamo quest’anno come argomento, come disagio, come gioia o come dolore? Siamo in un’apnea costante che giustamente disorienta anche il focus rispetto a cosa si voglia raccontare ed esplorare proprio perché si è attanagliati dall’ansia di farcela, che ci sia pubblico, se potrà entrare e a quali condizioni e questo vale anche per gli attori – a rischio covid – per cui doppio cast? Sussistono problematiche che ingombrano la testa e la portano a essere meno leggera nei meandri artistici».

D: «Il teatro è un luogo di resistenza, che ci permette di vivere diversamente» afferma Thierry Salmon. Cosa ne pensa?

«Sottoscrivo completamente anche l’aver espresso la mancanza di farlo significa che ne riconosco il valore e l’opportunità, non solo da un punto di vista attoriale, ma anche di spettatore. È un rituale fondamentale con un valore sociale, antropologico, politico che dovrebbe essere centrale – purtroppo non è messo in quella posizione da un punto di vista sistemico. Credo che il teatro sia un luogo di riflessione e scambio, dove ci si scardina e dove ci si dà la possibilità di sperimentare qualcosa di altro da sé e di assisterlo fisicamente in un luogo. È sempre uno specchio della nostra condizione attuale ed esiste ancora attraverso la condivisione di corpi. Ancor più oggi è un gesto politico andare a teatro».

I prossimi progetti audiovisivi di Sara Lazzaro


D:
Dal 14 febbraio sarà su Netflix in “Fedeltà

«Interpreto Giulia. Quello che posso dire è che, rispetto al libro, la serie è molto incentrata sui due protagonisti, chiunque sia al di fuori della loro relazione, è un ‘ingrediente’ per conoscere meglio le loro dinamiche».

Sara Lazzaro Fedeltà
“Fedeltà” – In foto Sara Lazzaro e Maurizio Lastrico. Ph Sara Petraglia

D: Ha preso parte anche della seconda stagione di “Devils” (Sky Original)

«Incarno un personaggio focalizzato soprattutto in due episodi. Dal punto di vista dell’esperienza è stato bellissimo recitare in inglese, su un set dal respiro molto internazionale».

D: Ha anche preso parte a “Siccità” con Virzì

«Abbiamo finito di girare ad aprile; so che il film è quasi pronto, ma non so quando vedrà la luce. Posso solo rivelare che incarno un ruolo molto differente dal solito. Paolo riesce a narrare un’umanità con delle sfaccettature molto complesse e stratificate ed è una persona che ti spinge sempre a riflettere.
Aggiungo che a breve tornerò su Rai2 con la seconda stagione di “Volevo fare la rockstar”».

 

Ph cover: Fabrizio Cestari

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