SONIA BERGAMASCO, se ancora non avesse intercettato una certa fascia di pubblico, con gli ultimi lavori si può dire che l’abbia calamitata a sé. Siamo rimasti incantati da come ha saputo vestire i panni di una Cassandra contemporanea, dalle tante sfumature (viscerale, tenera, arrabbiata, sentenziosa), che si appella alle persone affinché la lascino libera. Parallelamente ha commosso per la dignità con cui ha incarnato Maria Bergamas, senza un briciolo di retorica e con una carica umana fortissima. Questa donna è realmente esistita ed è connessa a una storia che ci riguarda tutti e che molto probabilmente sarebbe rimasta ignota se non fosse stato realizzato questo docu-film per la tv.
Sonia Bergamasco e il ritorno al teatro di regia
D: Com’è stata l’esperienza con Thomas Ostermeier, Jan Fabre e, in ultimo (di tempo), con Antonio Latella?
«Malgrado tutti i problemi, le restrizioni e le difficoltà, non vedevo l’ora di debuttare con “Chi ha paura di Virginia Woolf?” per la regia di Antonio (la prima si è svolta il 9 gennaio al Teatro Nuovo Menotti di Spoleto. Produzione Teatro Stabile dell’Umbria con il contributo speciale della Fondazione Brunello e Federica Cucinelli, nda), anche perché sento che, in questo momento, fare teatro è un gesto estremamente importante, quasi eversivo proprio perché ci si ritrova veramente insieme tra chi sta sulla scena e chi è in platea. Il lavoro con Antonio è il mio terzo appuntamento con il teatro di regia che ho ripreso a frequentare dopo tantissimi anni dedicati a una ricerca autonoma, in cui ho dato vita a spettacoli di cui ho curato drammaturgia e regia, pensati su di me e per me e poi allargati anche a un gruppo di lavoro scelto e di persone che si sono scelte sempre per un progetto in cui ho curato la regia (si riferisce a “L’uomo seme”, nda). Da Thomas Ostermeier ho ripreso il filo di un lavoro con uno sguardo registico per cui, forse, era arrivato il momento: sentivo di aver voglia di confrontarmi di nuovo con uno sguardo esterno, in una maniera diversa, intrecciando i pensieri e i modi in un’età matura e con un’esperienza alla spalle.
Possiamo dire che, quindi, la prima tappa sia stata con lui su un testo non teatrale (“Ritorno a Reims”, nda); quella con Jan Fabre subito dopo su un’opera teatrale sono state estremamente positive per me. Mi sono posta in maniera molto ricettiva proprio in quanto avevo deciso di farlo e mi è tornata indietro una grandissima energia. Con Antonio Latella, in particolare, è stato un incontro abbastanza unico. Con lui ci conosciamo da trent’anni, da quando ho cominciato a fare teatro e abbiamo lavorato insieme, entrambi come attori, con Massimo Castri nella “Trilogia della villeggiatura”. Lui aveva una piccola parte ed era molto bravo già allora, poi ci siamo persi di vista, ci siamo incontrati in seguito varie volte, ma sempre di sfuggita. Quando mi ha chiamata, mi sono riletta immediatamente “Chi ha paura di Virginia Woolf?” e dopo poco gli ho detto di sì perché avevo davvero voglia di lavorare finalmente insieme. Sono felice del rapporto e dal lavoro fatto. Avremmo dovuto debuttare a marzo del 2021 e ci siamo trovati – come tanti altri attori, attrici e registi – a tenerci nella pancia e nel cuore questa storia per mesi e mesi senza la prova del pubblico».
“Chi ha paura di Virginia Woolf?” per la regia di Latella
D: Pensando alla cifra di Latella, quali sono i punti nodali su cui voi avete ‘anche concretamente giocato’?
«La parola gioco è una parola chiave del nostro lavoro e di quello di Edward Albee. Il suo testo è incandescente, misterioso, molto potente e sicuramente la chiave del gioco, che può essere declinato in moltissimi modi cioè gioco di bambini, gioco crudele, gioco sacro è un nodo della storia. I protagonisti si mettono totalmente in gioco, ma giocano sin dal primo momento, creano giochi, soprattutto la coppia Martha-George si sfidano in questa notte di ordinaria follia in una creazione parossistica di giochi – più o meno crudeli – per cercare di arrivare al fondo più fondo ma, al contempo, anche più profondo del loro rapporto. Quest’ultimo è sicuramente di perversione, sadomasochistico e, parallelamente, è anche di grande amore. Questo amore è da scoprire per noi che siamo dentro la storia e per il pubblico che vi entra».
D: Sul piano del gioco di coppie e come lavoro attoriale, c’è stata un’indicazione ‘illuminante’ da parte del regista?
«Lo sguardo di Antonio è molto sapiente per cui non saprei indicarne una in particolare, è uno sguardo intero, profondo, continuo per cui mi sono sentita abbracciata dalla sua idea e dal suo modo. Ho percepito la possibilità di potermi esprimere senza censure, di poter andare oltre perché è la stessa vicenda che lo richiede, si travalica e con lui mi sono sentita di poterlo fare perché sapevo di avere accanto un compagno di viaggio sapiente e amorevole, come se fosse un fratello».
D: Questo si è verificato anche nel connubio con Vinicio Marchioni?
«Sì, con Vinicio è bellissimo giocare insieme, anche con Ludovico Fededegni e Paola Giannini, i quali interpretano Nick e Honey: bisogna tenersi stretti».
D: Rileggendo il testo, quanto di “Doppio sogno” c’è?
«Senz’altro c’è anche Schnitzler. Albee era onnivoro, era dentro al teatro con un’energia potentissima… questo testo è degli anni Sessanta e ancora ‘brucia’. Era ed è un autore che ha fatto svoltare la drammaturgia e ci richiama su temi urgenti che ci riguardano».
D: Sonia, lei conferisce molto peso alla parola sia in scena che nel corso delle interviste, si potrebbe parlare di un labirinto di parole che, a un certo punto, creano questa deflagrazione?
«Antonio nelle sue note parla proprio di ‘ubriacarsi di parole’, è il linguaggio che porta alla deflagrazione di emozioni e sentimenti profondi e di conseguenza alla nascita-morte raccontata nel testo».
D: Si verifica effettivamente la concezione di rito?
«Sì. Il testo si divide in tre parti, con la modifica che secondo e terzo atto originari, in questo caso, sono stati uniti. La traduzione curata da Monica Capuani credo che sia stata la molla per Antonio per avvicinarsi e convincersi che poteva affrontare questo testo. Si tratta di una traduzione nuova, molto vicina al senso profondo dell’opera originaria, rispettosa ma snella, pungente che ha convinto Antonio a cominciare questo viaggio».
D: Rimane l’ambiguità anche sul titolo?
«Ci sono tante domande. Ci siamo posti tanti interrogativi, dati molte risposte, però ciò che è maggiormente essenziale sono la domanda e le domande che si porranno le persone che verranno a vedere lo spettacolo. Non è mai importante che a teatro si diano delle risposte».
Sonia Bergamasco e l’esperienza di “Resurrexit Cassandra”
D: Facendo un piccolo passo a ritroso, l’abbiamo vista di recente al Parenti di Milano nel magnifico progetto “Resurrexit Cassandra” di Jan Fabre (aveva debuttato in prima assoluta al Campania Teatro Festival nel giugno 2021). «Sia maledetta l’armonia che gli uomini non sanno amare» è una delle battute che più mi ha colpita e commossa…
«È il non riuscire a cogliere la bellezza delle cose semplice, il farsi trascinare sempre nella mischia e nella rottura. L’armonia è un equilibrio instabile che per essere mantenuto necessita di pazienza, lavoro, impegno e volontà. È molto più semplice rompere tutto, distruggere, alzare la voce più forte, offendere, uccidere. È un gesto che fa parte della corteccia primitiva dell’essere umano».
D: Ha affermato di essersi posta in maniera molto ricettiva anche nel caso di Jan Fabre. Cosa pensa di aver dato lei a questa collaborazione?
«Ruggero Cappuccio aveva scritto il testo, me lo aveva fatto leggere ormai due anni fa e mi ha immediatamente coinvolta. Ho sentito subito che c’era una possibilità di incidere in un lavoro di teatro che aveva potenza semplice e concreta. Su questo testo, sapendo che sarebbe stato messo in scena da un artista in primis visivo qual è Jan Fabre, ho pensato che l’intreccio potesse essere interessantissimo. Ho accettato di lavorare con Fabre, la collaborazione è stata abbastanza breve perché sono andata ad Anversa nel suo centro teatrale per una decina di giorni e poi abbiamo fatto gli ultimi 3-4 giorni di prove al Teatro Antico di Pompei per l’allestimento del debutto.
Ho agguantato la matericità di questo testo, quello che sentivo in lettura e questo mi è stato possibile anche grazie allo sguardo e al ‘set’ creato da Fabre – un deserto bianco abitato da serpenti, il gioco spettacolare dei costumi (la vestizione serpentesca) e il video che abbiamo realizzato in quei giorni di prova, che scorre alle mie spalle, una sorta di alter ego di Cassandra, la sua anima feroce e la sua anima in azione; mentre in presenza è una figura scultorea, molto statica, anche se immersa in una sua danza. È stato utilissimo anche il lavoro con la musica: era presente sin dal primo giorno di prove il compositore pop Stef Kamil Carlens (aveva già lavorato in passato con Jan Fabre), il quale, proprio mentre prendeva corpo questa parola, lavorava sulle indicazione di regia e a partire pure dalla mia vocalità e dalla mia proposta interpretativa, è partito con una scrittura musicale che si è fusa con quella vocale. Questo per me è stato determinante perché in questo modo – visto che la musica scorre dall’inizio alla fine dello spettacolo – ho sentito da subito che ero in dialogo con la musica e non ero più sola in scena. È un lavoro che ho amato e amo molto».
D: Cassandra a un tratto asserisce, quasi come fosse un appello: «Ascoltami uomo, ascoltami donna…», se dovesse usare lei questa espressione, in quanto Sonia e in questo momento, cosa chiederebbe?
«Per fortuna non sono Cassandra! ‘Gli uomini’ per me non esistono. Mi spiego: esiste un uomo, una donna, esistono le persone, l’umanità come concetto è qualcosa di astratto. Esistono le persone e attraverso la concretezza degli incontri e degli sguardi si può realizzare anche il rapporto. È molto difficile parlare in astratto… bisognerebbe essere degli dei o perlomeno semidei…! Io non lo sono, quindi mi astengo!
Quello che posso fare è chiedere prima di tutto a me stessa: di questi tempi, mi dico ogni giorno di cercare di tirare fuori tutto il coraggio che ho a disposizione perché questo è uno di quei momenti in cui è necessario avere coraggio, guardarsi attorno ed essere anche in grado di ascoltare quanta sofferenza, disarmonia, disperazione e quanta difficoltà stanno vivendo le persone. Io non sono ottimista di natura, desidero però esserlo in primis per le mie figlie, per i più giovani in quanto stanno passando un periodo terribile. Avere 15-18 anni adesso è estremamente difficile, provo e chiederei di ‘addestrare’ sguardo e cuore e rimanere in ascolto. Non chiudersi, non pensare soltanto a se stessi e non pensare di avere sempre ragione».
D: È un’educazione che dobbiamo riuscire a riattivare e a trasmettere perché, come afferma lei, si è un po’ persa…
«Sicuramente. È una crisi epocale, in cui è necessario attivare tutte le qualità e potenzialità migliori – se uno le possiede».
D: In merito alla parte ‘ambientalista’ cosa può dirci?
«Forse è quella più rischiosa poiché si affaccia sul presente anche con un linguaggio molto più ironico e vicino alla cronaca e la chiave di regia proposta con una Cassandra dal sorriso smagliante o con un fare sensuale e ammiccante, che va in contropiede rispetto ai temi affrontati, ritengo sia una chiave molto efficace perché lascia spiazzati, mettendo in evidenza – se fosse ancora necessario farlo – e sottolinea i nuclei del racconto».
D: È come se l’avessi avvertita sul filo del funambolo nell’accezione più positiva del termine. Non so se anche lei si è sentita così?
«Si tratta dello spettacolo più faticoso fatto ad oggi, da ogni punto di vista. Mi riferisco al livello di concentrazione e alla fisicità. Le prove per i costumi, così belli e giusti – realizzati da una giovane costumista italiana, Nika Campisi -, sono state le più lunghe prove costume che abbia mai fatto e probabilmente anche più lunghe di quelle di scena. È come se le prove costume fossero servite prima di tutto a dare corpo al personaggio Cassandra e poi alla sua progressiva svestizione che doveva essere il più possibile fluida e impercettibile. Sono state anche un modo per arrivare a Cassandra ed entrare subito in intimità con questa creatura».
“Invito al viaggio, concerto per Franco Battiato”
D: Sonia, recentemente è stato trasmesso su RaiTre il concerto omaggio a Battiato, che si era svolto all’Arena di Verona nel settembre 2021. Qual è stato il suo contributo?
«Mi è stato proposto di partecipare al concerto organizzato da Franz Cattini, il suo manager storico, con la canzone “Invito al viaggio” (1999), che poi ha dato il titolo al concerto. Questo brano ha un recitativo molto bello che veniva detto (nell’originale, nda) da Manlio Sgalambro e mi ha permesso anche di entrare nel canto in una maniera più vicina a quelle che sono le mie qualità di attrice e musicista. Ho partecipato con gioia a questa serata, così speciale, di amicizia prima di tutto, in cui tutti gli artisti intervenuti, erano lì per un legame sentito, sincero e profondo con Franco Battiato. Ho avuto la fortuna e la gioia di incontrare Franco e di lavorare insieme a lui a lungo, su vari fronti sia per il cinema (“Musikanten” e “Niente è come sembra”) che per il piccolo schermo con “Bitte, Keine réclame”, un programma unico; ma erano presenti persone che hanno lavorato una vita con lui come Alice, Carmen Consoli, Morgan, artisti che erano lì per lui. Non c’è stata nessuna passerella, è stata una serata molto calda, gioiosa e il pubblico era insieme, con un abbraccio sincero.
So che è uscito “Invito al viaggio – Concerto per Franco Battiato”, pubblicato in una doppia versione speciale in doppio cd e box con 4 vinili».
Sonia Bergamasco in “Paolina Leopardi racconta Mozart”
D: Lunedì 17 gennaio è in scena nella fantastica cornice del Teatro Scientifico Bibiena di Mantova con “Paolina Leopardi racconta Mozart”. Ci racconta di questa interessante proposta?
«Questo progetto me lo ha proposto il pianista Marco Scolastra, che aveva letto il libricino di Paolina Leopardi su Mozart. Si tratta di una delle poche testimonianze al femminile dedicate al compositore, molto ben scritta ed efficace. Su proposta di Marco abbiamo intrecciato un dialogo parola-musica e il nostro debutto è avvenuto a Recanati, nel giardino del colle dell’infinito, in una serata estiva davvero indimenticabile.
E ci siamo riproposti, con questo concerto, di ripercorrere il viaggio del giovane Wolfgang in Italia. Il teatro Bibiena di Mantova è stato uno dei teatri in cui, a quattordici anni, si è esibito. Ero già stata sul palco di questo teatro anni fa, con un’operina di Azio Corghi. Una fiaba musicale per bambini intitolata “Le due regine”. È uno dei teatri più belli del mondo ed è per me una gioia tornarci. Farlo in una serata dedicata a Mozart assume poi un valore ancora più grande proprio perché lui è stato lì».
D: Lei si è occupata anche di dirigere un’opera mozartiana per il Maggio Musicale Fiorentino… pensando anche al background (diplomata al Conservatorio di Milano), immagino che questo artista sia stato sempre presente. Il libro di Paolina Leopardi le ha permesso di scoprire un Mozart diverso?
«Nel Mozart di Paolina c’è molto di suo fratello Giacomo, è presente in maniera vivida il rapporto con il padre e anche l’attenzione, le difficoltà con una figura paterna così impegnativa per cui ci si trova di fronte a un doppio racconto che prende vita. Il fatto che sia una donna a narrare il musicista ha un valore in sé proprio perché all’epoca era una rarità.
Paolina è stata una donna estremamente intelligente e sensibile, purtroppo non bella, segnata dalla difficoltà di incontrare qualcuno e, di conseguenza, costretta a rimanere in casa per tutta la vita – una casa piena di libri, con genitori severi e intransigenti, che probabilmente capivano con difficoltà le necessità profonde di questa donna. Paolina è stata molto legata a Giacomo».
“La scelta di Maria” e il ruolo di Maria Bergamas
D: A proposito di donne, ci terrei a ricordare il docu-film “La scelta di Maria” (andato in onda su Rai1 il 4 novembre 2021, in occasione del centesimo anniversario dalla tumulazione del Milite Ignoto all’Altare della Patria) e il suo personaggio incarnato tramite una recitazione fatta di gestualità, silenzi, parole pe(n)sate. È stato un suo approccio o è derivato da un’intuizione insieme al regista, Francesco Miccichè?
«Mi sono documentata il più possibile, per quanto fosse possibile poiché di Maria Bergamas si sa ben poco. Ho parlato con la pronipote, Grazia, una donna molto aperta, generosa e gentile, che ci ha messo a parte di quel poco che anche lei conosceva. Poi l’ho immaginata, ho cercato di avvicinarmi al sentimento di una madre che perde il figlio, a immaginarlo, era impossibile immedesimarmi in un tale sentimento, che non è sostenibile. Ho provato a stare nel suo corpo, nel suo modo e nel suo mondo, attraverso anche un racconto essenziale – quello della sceneggiatura – con l’aiuto del regista e dei miei compagni di lavoro Cesare Bocci (il quale aveva avuto l’idea del soggetto) e Alessio Vassallo con cui abbiamo lavorato molto bene.
I luoghi erano parlanti così come la comunità di Aquileia che ha preso parte al progetto – mi riferisco agli attori, ma anche ai non professionisti – si è stretta intorno a questa storia perché è un simbolo, è il luogo della decisione di Maria. La Basilica di Aquileia è di una bellezza impressionante. I luoghi hanno portato quindi una buona parte dell’emozione perché la comunità ha rivissuto i fatti insieme a noi; in particolare in Basilica è stato ricreato l’allestimento delle undici bare e il momento in cui abbiamo girato la scena della scelta ho sentito che eravamo tutti uniti da un’emozione condivisa.
Accade molto raramente, va detto che ha a che vedere con un fatto storico, che evidentemente si è sedimentato nella memoria di molte persone che vivono in quei luoghi e in quella regione così provata dalle guerre, soprattutto dalla Prima Guerra Mondiale».
D: Nel film ci sono due battute che mi hanno colpita in particolar modo: «Noi donne dovremmo essere a governare».
«Era detta da una donna in un tempo in cui gli uomini rivestivano tutte le cariche di comando e la donna non poteva neanche votare. Oggi molte cose sono cambiate, ci sono donne che governano, anche se i numeri sono ancora da tenere sotto osservazione, c’è ancora moltissimo da fare e in molte zone della terra. La violenza sul femminile è arrivata a livelli spaventosi anche perché adesso noi la denunciamo in maniera più netta – cosa che prima non veniva fatta – e la legge non è più così sbilanciata come lo era fino agli anni Sessanta, per esempio, in Italia.
D: L’altra è connessa al figlio di Maria: «La verità va insegnata da piccoli diceva Antonio». Cosa ne pensa?
«È così. La grande enorme responsabilità degli adulti è quella di accompagnare i bambini e i ragazzi in un percorso di conoscenza lasciando loro la libertà di guardare, vedere ed esprimersi, ma senza imporre delle visioni precostituite. Antonio era un maestro elementare, di qui il valore profondo della scuola, dell’insegnamento e dell’essere genitori è quanto mai da sottolineare oggi».
U.N.I.T.A. e l’importanza di collaborare con la scuola
D: Rispetto alla scuola, U.N.I.T.A. – Unione Nazionale Interpreti Teatro e Audiovisivo ultimamente ha stretto proprio un bell’accordo in tal senso…
«È un progetto pilota fondamentale proprio per cercare di venire incontro ai nuovi linguaggi e dare l’opportunità sia agli insegnanti che agli studenti di poter approfondire le materie scolastiche con una lingua al passo coi tempi e quindi offrendo anche le ‘armi’ del nostro mestiere per poter entrare nelle materie in maniera più intensa, forte e in linea con quella che è una visione del futuro. Il Ministro Bianchi era molto favorevole ed ha accolto questa iniziativa con entusiasmo».
Il sodalizio con Riccardo Milani
D: Facendo un salto nella Settima Arte, è al terzo film con Riccardo Milani, oltre alle esperienze televisive di “Tutti pazzi per amore” e “Una grande famiglia”.
«Con Riccardo stavamo proprio cercando di pensare a quante cose abbiamo fatto insieme, ritrovarlo per “Buon viaggio ragazzi” è stato particolarmente bello. Si tratta di una commedia, che parte da un soggetto tratto da una storia vera. Io interpreto la direttrice del carcere in cui c’è un gruppo di detenuti che segue un corso di teatro tenuto da un attore (Antonio Albanese), a cui ha trovato questo lavoro un amico – anche lui attore e regista (Fabrizio Bentivoglio). Da questo sodalizio si svilupperanno una serie di vicende… Nel cast principale è presente anche Vinicio Marchioni».
D: Mi conferma che ha preso parte a “I Cassamortari” di Claudio Amendola?
«Sì, ma non so ancora quando sarà in sala».
Sonia Bergamasco e il filo rosso con l’amica e scrittrice Maria Grazia Calandrone
D: Vorrei avviarci verso la conclusione con un progetto che le è molto a cuore e che ha presentato, durante la seconda edizione del Ginesio Fest, in forma di studio con la sua amica Maria Grazia Calandrone. Ho letto che ha creato una versione in cui è in scena da sola…
«“Lettera a una madre”, presentato all’Arena del Sole di Bologna, è stato il lavoro che ho fatto sul libro di Maria Grazia, “Splendi come vita”, in forma scenica e che mi auguro di portare ancora a teatro perché la sua storia è eccezionale così come la lingua con cui la racconta. Abbiamo il desiderio di portarlo in scena ogni volta che sarà possibile e giusto».
Sonia Bergamasco tra tournée e uscite in sala
D: Diamo appuntamento ai nostri lettori che vorrebbero venire a vederla…
«Sono in tournée con “Chi ha paura di Virginia Woolf?” (tra le tappe il Carignano di Torino, il Bellini di Napoli, il Morlacchi di Perugia, il Piccolo di Milano, L’Arena del Sole a Bologna, il Nazionale di Genova e il LAC di Lugano) fino a marzo – se il covid ce lo concederà. Senza dubbio c’è l’intenzione di riprendere “Resurrexit Cassandra”, “Lettera a una madre” e sono da fissare altre date di “Paolina Leopardi racconta Mozart”. Infine questi due film di cui parlavamo, di cui, però, non so ancora la data di uscita».
Ph cover Gianmarco Chieregato